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Autore: mystery_koopa    30/04/2024    4 recensioni
Isabella ha quarant'anni e una lunga serie di delusioni alle spalle.
Una mattina di dicembre, tra Natale e Capodanno, ritorna nella città dove aveva passato le vacanze invernali l'anno precedente, decisa a risolvere una delicata situazione personale.
✠ Storia partecipante al contest "Una storia di vendetta" indetto da inky_clouds e elli2998 sul Forum di EFP.
✠ Storia partecipante alla "Challenge a tempo" indetta da rya_2 sul Forum Ferisce la Penna.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
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NON CHE M’IMPORTASSE…


Ero riuscita a prendere il treno all’ultimo, correndo dalla fermata del tram su per le scale mobili e poi ancora attraverso i tornelli, trascinandomi dietro la valigia semivuota fino al binario 2. Fortunatamente, era sempre lo stesso: temevo che a causa del periodo festivo l’avessero modificato, e non avevo avuto tempo di fermarmi a leggere il tabellone.
 
Milano Centrale – Domodossola: 5.25 – 7.04

Era il primo treno della giornata per la mia destinazione: avevo pensato di arrivare all’ultimo secondo per non dover aspettare in stazione di notte, ma evidentemente avevo fatto troppo affidamento sui mezzi pubblici durante una nevicata alle cinque del mattino…
Salita un secondo prima della chiusura delle porte mi ero accasciata sul primo sedile che avevo trovato, affannata, respirando a fatica per lo sforzo della corsa.

 
A quarant’anni bisognerebbe imparare ad essere più previdenti, lo so, lo so… me lo ripeto sempre, ma puntualmente ci ricasco ogni volta.

Non appena passato il fiatone, comunque, mi ero addormentata con la testa appoggiata al finestrino.

Fu il controllore a svegliarmi, dopo poco meno di un’oretta di viaggio. Dopo aver bevuto un sorso d’acqua fresca, per ridestarmi velocemente, gli mostrai il biglietto.
Misi una mano in tasca, controllando che tutto fosse al proprio posto: non mi era mai successo di essere derubata in treno, ma avendo dormito avevo bisogno di una rassicurazione. Strinsi il mazzo nel pugno, sentendo la ruvidezza della vecchia chiave in ferro nettamente più grossa delle altre, tastai i pantaloni trovando il portafogli al suo posto e infine presi in mano il telefono, ricontrollando per l’ennesima volta il messaggio di Rosa.

 
“Piazza Repubblica dell’Ossola, davanti al Comune alle 7.30. Ti aspetto, buon viaggio!”

Milano era ormai lontana: rocce, alberi, acqua, neve. Questi elementi, disposti in modi sempre nuovi, costituivano lo scenario esterno, tra un paese e il successivo, emergendo dal buio delle sei di quel mattino di dicembre. Tra Gallarate e Sesto Calende gli alberi innevati avevano preso il sopravvento sui paesaggi urbani, e poi dopo Arona ecco il dominio dell’acqua, il lago grigio che riuscivo a intravedere solo poggiando le mani sul vetro freddo per impedire che la mia immagine vi si riflettesse.

Solo all’avvicinarsi delle sette il cielo cominciò a schiarirsi, anticipando l’alba e permettendomi di distinguere in lontananza l’ingresso della Val d’Ossola: le montagne erano imbiancate dalla vetta al fondovalle, ma non nevicava più. Come il treno procedeva verso nord, il bianco delle cime più alte iniziò a tingersi di rosa e arancio. Passando tra Ornavasso e Mergozzo, le pareti laterali si restrinsero e il loro candore si fuse con quello dei marmi del Duomo1; e mi rividi lì, in piazza a Milano.

“Sai, questa chiave non apre solo un baule di ricordi. In un certo senso, apre anche il mio cuore…”

Sbuffai infastidita, ricordando quel suo sorriso falso, mentre la voce negli altoparlanti del treno annunciava che ci sarebbe stata una fermata aggiuntiva, prima di raggiungere il capolinea. La nuova stazione non si trovava nel centro di un paese, ma in un’area rurale.
Fuori dal finestrino, il paesaggio era ancora quello: rocce, alberi – alcuni caduti – neve e acqua, nient’altro che ghiaccio sciolto dal calore del convoglio.

Dopo aver estratto la chiave dalla tasca della giacca me la rigirai tra le mani, accarezzando con i polpastrelli il sottile filo di ruggine che l’attraversava in lunghezza.
Che banalità, portarla al collo attaccata a una catenina… l’avevo pensato fin dal primo istante, così come avevo pensato che ci fosse qualcosa di strano nel suo sguardo, eppure avevo fatto finta di niente: anche se sentivo che qualcosa non andasse, che problema avrebbe mai potuto causarmi una delusione d’amore a quest’età? Non ne avevo già avute abbastanza nel corso del tempo?

Gli ultimi dieci minuti di viaggio passarono molto velocemente, fortunatamente senza alcun intoppo. Una vera fortuna, pensai, trattandosi di una mattina tra Natale e Capodanno.
Arrivai in stazione un quarto d’ora prima del mio appuntamento e scesi di corsa dal treno, controllandomi ancora le tasche con una mano e afferrando la valigia con l’altra.

Uscita dalla stazione venni investita dal vento freddo, il mio cuore mancò un battito.
Mi strinsi nella sciarpa guardando il cielo, bianco freddo, augurandomi che non nevicasse ancora: sulla strada c’erano almeno dieci centimetri rimasti dai giorni precedenti, e non avevo certo portato scarpe adatte. Dopotutto, Riccardo me l’aveva detto, un anno prima: “Sono ormai anni che non nevica come si deve!”, e come se l’atmosfera l’avesse sentito, anch’essa aveva voluto confermarmi la vera natura del bugiardo.

“Non che m’importasse”, mi ripeto, e forse è così e forse no, ma se non fosse stato per lui non sarei mai andata nella sua città natale per le feste, né tantomeno ci sarei tornata un anno dopo. Sono anch’io falsa, incoerente? Mi voglio prendere ancora in giro pensando di averlo fatto per lei?

Lei, Rosa, sua moglie. Perché mai mi avrebbe portato in quella che era stata la casa dei suoi genitori, se avesse avuto una donna da nascondere? Mi aveva detto che non viveva più a Domodossola da anni, ma era impossibile che lì dov’era cresciuto nessuno lo riconoscesse insieme a me, sapendo che era sposato con un’altra. E mi ero fidata, cosa mai sarei potuta andare a pensare?
Se a oltre quarant’anni un uomo ha ancora quella faccia da ragazzino del cazzo, come
avevo potuto credere a ogni sua parola senza battere ciglio?

“Non che m’importasse”, mi ripeto ancora una volta, e non so più cosa significhi questa frase. Mi racconto che mi ero buttata solo perché non avevo niente da perdere, e niente ho perso, tranne che un anno. E ventuno euro di biglietto andata e ritorno da Milano Centrale solo per portare a sua moglie una chiave che avrei potuto spedire per posta.

Percorsi il viale a passo spedito, quasi di corsa, evitando con cura di guardare nelle vetrine di quei negozi dove lui mi aveva portata il Natale precedente. Gli occhiali da sole e il berretto di lana e l’abito da sera e le casse di vino. E il “ti amo” inciso sull’interno di un braccialetto, proprio come fanno i ragazzini.
Arrivai a destinazione in soli cinque minuti: essendo le panchine bagnate, decisi di aspettare Rosa in piedi, guardandomi intorno. Ero sola, a parte alcune macchine che iniziavano ad affollare la strada verso l’imbocco della Statale.
Mi avvicinai al Palazzo di Città, leggendo la targa affissa alla parete esterna: “Repubblica dell’Ossola”.
Il bugiardo se n’era vantato più volte, di quel suo nonno omonimo che vi aveva contribuito come partigiano.

Probabilmente si trattava di un’ennesima non verità… l’ennesima bugia che non lo è fino in fondo ma che va abbastanza in profondità da ingannare chi l’ascolta.
Così come “non ho una compagna” era vero, ma perché aveva una moglie, anche il nonno magari era stato uno spettatore degli eventi, o aveva persino contribuito a distruggerla, la Repubblica.
Ancora una volta, non che m’importasse. Eppure, ci pensavo in continuazione.


“Isabella!”
Mi girai, vedendo Rosa venirmi incontro. Notai per prima cosa gli occhi rossi, sicuramente aveva pianto per strada. Era molto più minuta di come mi era sembrata in foto, un po’ come se la sua debolezza nei confronti di Riccardo si fosse trasferita anche al corpo. Non stentavo a credere che mi avesse detto di aver bisogno del mio aiuto, per affrontarlo.
“Buongiorno Rosa”.
Le strinsi le mani nelle mie, percependone il freddo anche attraverso i suoi soffici guanti di lana.

 
*

Ci eravamo parlate per la prima volta meno di venti giorni prima, su Facebook.
Si era impegnato, Riccardo, a non farsi scoprire. Aveva creato due account, entrambi con lo stesso nome ma col cognome diverso, entrambi perfettamente realistici. In uno interpretava però il commerciale d’ufficio, con contatti a Milano, e nell’altro il commesso viaggiatore internazionale.
Per lei era Riccardo Mellerio, per me Riccardo Spiga, e il cognome sul suo citofono di Milano non era che quello della sua padrona di casa. E se non avesse lasciato il pc aperto sulla posta elettronica del lavoro, chissà quanto tempo avrei impiegato ad accorgermi del giochetto, e a cercare il suo vero nome nel motore di ricerca col profilo della mia migliore amica.
Non avevo nemmeno pianto, dopotutto me lo ripetevo sempre, che non me n’era mai importato di lui…

Come se fosse normale, dire “ti amo” a un uomo di cui non t’interessa nulla.

Rosa non me l’aveva voluto dire, ma soltanto dal tono dei suoi messaggi immaginavo quanto avesse pianto vedendo le foto in cui abbracciavo suo marito, leggendo gli screenshot delle nostre conversazioni… e ricollegando date e ore, rendendosi conto che lui mi scriveva anche dal loro letto a Trieste, proprio mentre lei gli dormiva di fianco. A lei sì, che importava di lui. Chissà s’ero stata io la prima, o semplicemente l’unica che aveva avuto il cuore – o che non ne aveva abbastanza, visto quanto l’avevo fatta soffrire – di avvisarla…

 
*

Non si era voluta sedere ai tavolini interni di un bar: più che dal gelo, aveva preferito sfuggire al pensiero di lui, anche perché probabilmente li avevano frequentati tutti, i pochi bar del centro, in quei quindici anni di vacanze estive ed invernali. Quattordici, anzi, visto che l’anno precedente lui le aveva detto di essere andato per lavoro a Stoccolma.

Rosa non aveva nemmeno voluto conversare. Tutto sommato, quello che c’era da dire ce lo eravamo dette via messaggio. La mia presenza poi sicuramente la infastidiva: aveva capito di non potermi odiare, che non volevo far altro che aiutarla, ma era impossibile per il suo inconscio non vedermi come la donna che le aveva distrutto la vita (o l’illusione che se n’era fatta, quantomeno).
Parlammo solo della vecchia chiave in ferro. Lei ovviamente l’aveva vista, ma solo con me lui la portava al collo, esibendola come un prezioso cimelio… talmente prezioso che non si era nemmeno accorto che io l’avessi nascosto in un cassetto, l’ultima volta che aveva dormito a casa mia, e se n’era andato senza.
Ricollegando le informazioni che ci aveva dato separatamente, avevamo però capito che la sua funzione non fosse aprire un baule, ma una vecchia cassaforte a muro nascosta dietro al comodino della loro camera da letto nella casa di Domodossola, quella che era stata di suo padre.

Passeggiammo senza meta per una mezz’ora, prima che Rosa riuscisse a raccogliere il coraggio per tornare a casa con me. Avevamo scelto con cura il giorno giusto: Riccardo aveva dormito in baita con i suoi amici – sempre che questa non fosse l’ennesima bugia per nascondere una terza donna, o una quarta, o una quinta – e, prendendo il primo treno del mattino, ero sicura di arrivare prima che lui tornasse per poter agire indisturbate.

Salii le scale dell’appartamento tenendomi due passi dietro di lei.
L’ultima volta che le avevo percorse insieme a Riccardo, le avevamo lasciate disseminate dei nostri vestiti, spogliandoci a vicenda un gradino alla volta. Ricordo ancora il brivido che il freddo del marmo mi aveva procurato al contatto con la pianta nuda dei miei piedi, come mi aveva percorso l’intera spina dorsale… e come guardando lui negli occhi questo brivido non si era fermato, affatto. Forse, s’era trattato dell’unico momento in cui, anche se mi avesse detto di essere sposato, sarei andata avanti pur di tenerlo stretto a me.
“Non che m’importasse…”, certo, come no.

Arrivata al pianerottolo, cercai di liberarmi il più velocemente possibile del pensiero delle sue mani sui fianchi.
Rosa aprì la porta e io la seguii all’interno, ci togliemmo i giubbotti e andammo subito in camera da letto. Istintivamente finsi di non sapere quale delle porte che si affacciavano sul corridoio fosse quella giusta, così come subito dopo finsi anche d’ignorare lo sguardo ferito dell’altra donna, che ancora una volta mi sembrò sull’orlo del pianto.

Una volta all’interno della stanza, spostammo in due il pesante comodino in legno, rivelando la porta della cassaforte, anch’essa percorsa come la chiave da intricate venature di ruggine.
Mi bloccai un secondo: era davvero possibile che fossi arrivata fino a lì solo per aiutare una moglie tradita ad aprire uno sportello? Non bastava davvero scriverle una lettera consigliando il nome di un paio di avvocati divorzisti, mettendo la chiave nella busta?
E in un certo senso capii che solo salendo quelle scale, in quel momento come era stato un anno prima, avevo ripreso a sentirmi viva come da ragazza. Immatura, in un certo senso, pur se con il dovuto distacco da chi quelle emozioni me le aveva fatte riscoprire.
Ragazzina sì, nello spirito, ma senza la nonchalance con cui viveva le relazioni Riccardo, sebbene a parole fosse stato lui a dire di volersi impegnare con me con tanto di anello, e io a dirgli di voler prendere la vita come veniva, con più calma…
Come se non fossi io, quella dei due che attivamente amava più l’altro di quanto amasse se stessa, come un bambina che ancora della vita non ha capito niente.
Rosa piangeva, ma io, Isabella, non ero così diversa da lei, a dire il vero. Non che me ne importasse qualcosa. Col tempo, le emozioni passano sempre.

“Isabella, stai tremando? Tutto bene?” mi disse lei, con la sua solita voce flebile. Scossi velocemente la testa in segno d’assenso e le passai la chiave, deviando però lo sguardo verso il letto. E il brivido tornò e ancora una volta decisi di sopprimerlo.
Rosa inserì con fatica la chiave all’interno della serratura, tirando lo sportello verso di sé mentre girava la rotella con la combinazione: era doppio anche il sistema di sicurezza, così come ogni elemento della vita di quell’uomo.
“164”, 16 aprile, la data di nascita di Riccardo Mellerio. Fosse stato per me avrei girato le rotelle sul 146, 14 giugno, il compleanno di Riccardo Spiga, il giorno in cui gli avevo regalato un mazzo di fiori, come al solito atteggiandomi ad essere quella forte, nella coppia. Talmente forte da restarne ingannata, proprio come la moglie cornuta. Almeno era coerente lei, nella sua debolezza.

Uno scatto. Tirando ancora più forte, Rosa riuscì ad aprire la porticina.
All’interno non c’era altro che un plico di buste trasparenti. Lei le estrasse, passandosele poi velocemente tra le mani per verificarne il contenuto: soldi, assicurazione dell’auto, foto dei genitori in bianco e nero, il documento del notaio con cui accettava la casa in eredità, ancora soldi e infine altre foto più antiche, forse ritraenti il famoso avo partigiano.
Non sapevo cosa mi aspettassi di trovare, anche se conoscendolo sapevo di dovermi aspettare un buco nell’acqua. Anche la chiave non era altro che una bugia… la chiave che apre il cuore, come no! Come se un uomo così avesse a cuore due vecchie foto di cui sicuramente aveva la copia sul cellulare.

Misi la mano all’interno della cassaforte per verificare se qualcosa fosse rimasto in profondità, ma non vi trovai niente. Guardai negli occhi Rosa e scoppiammo a ridere insieme, di gusto, quasi fino alle lacrime: in me c’era ancora amarezza, in lei ancora dolore e senso di abbandono, ma forse in quel momento, per la prima volta, di lui davvero non me ne stava importando nulla.
Forse si trattava della mia ennesima e strana costruzione mentale, perché alla fine ciò provavo in quel momento era sempre causato da lui: ma non lui Riccardo, né Spiga né Mellerio, bensì Lui. Quello nella mia testa. Era davvero meglio così?

Rosa raccolse da terra le buste e le rimise al loro posto: prima di farlo le chiesi di poter guardare le foto del nonno di Riccardo, e così come immaginavo lo trovai ritratto sorridente e impettito con indosso la divisa della Repubblica di Salò. Gli assomigliava così tanto, e non solo nel viso evidentemente.

 
*

Riccardo tornò a casa nella tarda mattinata, senza trovarvi sua moglie né i pochi vestiti che si era portata per le vacanze.
Sul tavolo della cucina, soltanto un post-it con le nostre due firme, tenuto fermo con la chiave.
Rosa aveva già lasciato Domodossola con la propria auto, avvisando sua madre che sarebbe stata da lei per qualche giorno, mentre io ero rimasta seduta all’interno del caffè dirimpettaio all’ingresso del palazzo.

Lo vidi entrare e, meno di cinque minuti dopo, uscire sul balcone del salotto.
Mi alzai dal posto che avevo occupato e uscii dal locale. Ero l’unica persona in piedi al centro del marciapiede, indossavo una giacca rossa e alzai subito la testa nella sua direzione: ero sicura che mi avrebbe visto, e difatti ricambio subito il mio sguardo dal secondo piano.
Lo guardai negli occhi, sforzandomi di rimanere impassibile, anche se proprio non riuscivo a capire cosa mi avesse trattenuta lì per rivederlo ancora. Dopotutto di lui non me ne importava più nulla, stavolta per davvero…

Riccardo mi salutò con la mano e, alzando la voce, mi rivolse la parola senza muoversi dal terrazzino:
“Brava, Isabella! L’ho sempre pensato che fossi tu la più intelligente tra noi tre!”
Le sue parole non mi smossero minimamente. Semplicemente continuai a guardarlo, accennando un sorriso con l’estremità del labbro.
“Che c’è, non sei contenta? Mi sarei aspettato il contrario! O ti senti orgogliosa a startene zitta pensando che lasciarmi e farmi divorziare sia un modo per vendicarti? Se di voi non me ne fregava un cazzo prima, pensa adesso…”

Non mi sentivo orgogliosa. Né soddisfatta né delusa né depressa né felice. Però continuai a guardarlo.
Alcuni passanti alzarono anch’essi il capo, pronti a seguire gli sviluppi della discussione: in una cittadina come questa, un pettegolezzo diventa subito una notizia di primo piano. Ma, ancora una volta, non importava a me così come non importava a Riccardo.
Forse proprio per questo motivo l’avevo amato: lui mi mentiva, io mentivo a me stessa, e a nessuno dei due importava mai nulla. Per una volta però la verità potevo dirmela: lo amavo ancora.

“Il braccialetto, comunque, me lo tengo!” gli dissi, prima di recuperare i bagagli – vuoti come alla partenza… davvero, cosa pensavo avrei trovato da portare via? – e tornarmene verso la stazione.

Certo, era un ragazzino e lo sarebbe sempre stato, ma so che capì quello che gli volevo dire.
 
 
 
Note:
1. Il Duomo di Milano è costruito con il marmo delle cave di Candoglia (frazione di Mergozzo), a cui il treno passa di fianco.


 
  
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