L’alba
di un nuovo giorno
La stanza era buia e silenziosa, qualche passo
leggero tra il legno e i tappeti e il debole spiraglio di luce che rischiarava
le tende, quasi fossero pallidi fantasmi, divenne a poco a poco un fascio
abbagliante. Oltre ai raggi del sole già alto entravano nella camera da letto
intensi odori di strada del mercato rionale ma anche essenze che potevano essere
giunte da chissà quale esotico paese al di là del mare. Una leggera brezza entrò
dalla finestra e danzante in un turbine di fine pulviscolo raggiunse due pelose
narici semi nascoste tra le bianche lenzuola.
L’aria fresca e pungente del mattino fece sì
che due raggrinzite palpebre si alzassero e due occhi azzurri potessero
guardarsi intorno ancora una volta.
La vecchia serva si avvicinò come sempre in
punta di piedi per non far scricchiolare le ancestrali assi di legno che
gemevano passo dopo passo e lasciò sul comò una tazza di latte ancora fumante.
Ella non disse niente e se ne andò come se tutto le fosse indifferente,
d’altronde uno straniero nella locanda del suo padrone non avrebbe certamente
capito nulla delle importanti notizie che aveva sentito qualche ora prima nelle
cucine. Così, uscendo dalla porta, si avviò a svegliare gli altri avventori che
sicuramente le avrebbero dato soddisfazione.
Appena la porta si richiuse alle spalle della
serva lo straniero si alzò velocemente, bevve il suo latte e cercando i suoi
vestiti per la stanza si preparò ad uscire, non prima però di aver dato
un’occhiata dalla finestra. Aveva affrontato più di una settimana di viaggio per
arrivare fino in Spagna e si era ripromesso di godere il più possibile di questa
fortuna tanto più che i veneziani lo avrebbero pagato ugualmente. Ma ormai
sentiva il passare degli anni, ne aveva già quarantasette, e tra qualche
primavera si sarebbe ritirato nel suo casale a Ventimiglia, dove avrebbe curato
i suoi interessi, come sempre d’altronde. Non per niente la Serenissima lo aveva
pagato profumatamente per farsi licenziare dal Duca d’Este e lavorare per il suo
servizio segreto.
Questa volta però la missione era stata
improvvisa e non aveva avuto modo di sapere altro se non che doveva seguire un
giovane capitano che andava in giro per le corti europee in cerca di denaro, per
chissà quale folle avventura. Questa volta, si disse, i veneziani avevano
davvero preso una cantonata perché il capitano continuava a spostarsi da una
città all’altra senza sosta e mai nessuno si disturbava a riceverlo se non per
negargli qualsiasi prestito. Nel caso avesse ricevuto in regalo un galeone da
qualche ricco ed eccentrico banchiere, tre giorni dopo sarebbe sparito per
sempre e nessuno lo avrebbe più ricordato.
Ironicamente pensò che non sapeva come si
chiamava né da dove venisse esattamente; a Parigi era riuscito ad alloggiare
nella sua stessa locanda e aveva firmato il registro degli avventori subito dopo
di lui; l’unica cosa che ne aveva tratto era che doveva chiamarsi Crico o
qualcosa del genere. Però lo aveva squadrato per bene e avrebbe saputo
riconoscerlo anche tra la calca di un mercato. Si sporse dalla finestra, quando
un largo berretto rosso con una piuma al lato, che copriva un uomo robusto,
passò di fretta accanto al bancone del pesce fresco. Uscì dalla locanda e non
esitò a seguirlo, anche se non erano certo a Parigi e la locanda di messer Crico
era all’altezza del porticciolo.
Un fragrante odore di pesce fresco lo accolse
appena uscì tra i popolani, mentre il berretto rosso volteggiava tra le folte
chiome nere e i fazzoletti delle donne ai banconi. Mentre lo seguiva,
immaginandosi di essere un segugio dietro una preda fin troppo facile da
braccare si accorse che altri due messeri erano interessati al giovane capitano,
ma erano chiaramente nuovi del mestiere, perché gli erano quasi addosso e
goffamente cercavano di non farsi notare, tra la folla, ogni qual volta la preda
si guardasse intorno. Era strano come il capitano non percepisse quei maldestri
movimenti intorno a lui, che nulla avevano a che fare con la genuinità e la
sincerità dei popolani al mercato.
Il segugio si avvicinò ai due messeri e si
accorse che si trattava effettivamente di due personaggi poco raccomandabili con
i quali aveva già avuto a che fare in passato; erano due sicari che
evidentemente la Serenissima gli aveva mandato come aiuto nella missione. Il
tempo che li ebbe raggiunti e fattosi riconoscere conobbe il motivo di quella
caccia alla volpe. Il Consiglio aveva deciso di fermare ad ogni costo il
capitano e dato che la spia non era stata in grado di finire il lavoretto entro
qualche mese, erano stati mandati dei rinforzi con ordini precisi: non ci si
accontentava più di seguirlo e di spiarne i movimenti ma lo si voleva morto ad
ogni costo. “Perché mai una decisione così drastica?” pensò la spia, non gli era
mai successo, negli ultimi dieci anni, di dover spedire al creatore una sua
preda; forse il giovane capitano aveva raggirato qualche ricco nobile che ora
gli presentava il conto.
Ma ecco che il capitano, dopo esser entrato
nell’ufficio del capo delle guardie ed esserne uscito tutto soddisfatto, si era
diretto al porto. Camminava avanti ed indietro, guardando con attenzione i
velieri ormeggiati in attesa di favolosi sogni da realizzare. Di quando in
quando si fermava per scrutare il mare, ammirato. L’odore era buono, come sempre
in questa zona dove a pochi metri dalla terra l’azzurro diventa subito blu e
l’acqua si fa conoscere con tutto il suo vigore in ondate di notevole altezza.
Non era più il caso di stargli dietro quindi i
tre girovagarono per il paese che in quei giorni era in subbuglio per l’arrivo
dei due sovrani che unendosi in matrimonio avevano fatto di due regni un’unica
nazione in grado di sconfiggere gli invasori e di cacciarli al di là del mare
per sempre. Ora i regnanti stavano compiendo un giro per il loro regno e davano
udienza ai sudditi e anche ai forestieri perché tutti si ricordassero, nei
secoli a venire, della loro magnanimità.
Per questo chiunque voleva presentare esposti
personalmente ai sovrani o portare ambascerie di ogni genere doveva mettersi in
lista all’ufficio del capo delle guardie il giorno precedente all’udienza. A
questo avvenimento i tre veneziani non erano interessati, ma avrebbero pagato
oro chiunque gli avesse detto il motivo per il quale quel giovane e fiero
capitano doveva morire; non per questo comunque si sarebbero esentati dal loro
ingrato compito perché, dopo tutto, loro sì che erano pagati a peso d’oro e
finire gli ultimi anni a nascondersi dall’ira della Serenissima non era certo
auspicabile. I tre si scambiarono le notizie di rito sul loro uomo, ma non venne
fuori niente di interessante tranne che il capitano era genovese, aveva con se
una grande quantità di carte nautiche e geografiche - soprattutto dell’oriente -
sulle quali erano segnate probabili rotte, aveva con sé astrolabi ed una
bussola, mangiava piatti esageratamente piccanti e aveva una collezione di penne
che adoperava per scrivere a mezzo mondo. Il genovese non era certamente un tipo
eccezionale, ma destava comunque curiosità nel suo sguardo enigmatico e nel suo
camminare deciso e rapido. I tre, all’altezza di una di quelle bettolacce che si
possono trovare solo nei porti più trafficati, decisero che la sera avrebbero
agito; intanto, pensarono, una buona cena li avrebbe messi nel giusto stato
d’animo, quindi passarono l’uscio dell’infima locanda. Era chiaro che anche il
capitano aveva avuto il loro stesso pensiero perché, infatti, era giunto al suo
albergo e stava parlando con l’oste.
I tre risero a lungo quando si ricordarono di
una missione in Turchia nella quale avevano rischiato grosso nell’entrare
furtivi nell’harem del pascià e, forse per il vino forse per il ricordo di
quelle avventure da mille e una notte che gli era capitato di compiere, non si
accorsero di un’ombra che passava a cavallo e si dirigeva fuori città.
Era già sera quando i tre uscirono dalla
locanda e videro il capitano che discuteva con i nostromi di tre caravelle che
erano approdate da poco al porto. Niente di strano dato che lo faceva spesso
negli ultimi giorni quasi volesse conoscere i segreti di tutte le navi che gli
capitavano a tiro.
I tre rientrarono ed iniziarono a giocare a
carte in attesa del loro momento che venne entro qualche ora; entrarono
silenziosamente dalla finestra della stanza che dava sul tetto di una casa
vicina e si avventarono sul letto che nel buio sembrava aver preso sembianze
umane. Ma le lame che ancora una volta compievano il loro mesto compito
affondarono nella lana dei cuscini.
I sicari si resero conto di essere stati
giocati da quel giovane dall’aria innocente e spensierata; si guardarono intorno
disperati perché era la prima volta che ciò accadeva. Guardarono fuori dalla
finestra: troppo tardi, appena in tempo per vedere le tre caravelle e la loro
preda sul ponte di comando della più grande che dava indicazioni, con
l’astrolabio in mano, al timoniere.
Calma, non era il caso di allarmarsi troppo,
si dissero l’un l’altro. I tre decisero che, una volta a Venezia, non avrebbero
raccontato di averlo pugnalato, avrebbero invece dichiarato di averlo fatto
sparire per sempre in fondo al mare; era improbabile che il giovane capitano
facesse ritorno tanto presto per affermare il contrario.
Un anno dopo, nel suo casale di Ventimiglia,
la spia veneziana seppe da due sicari venuti appositamente per lui da Venezia
che l’aver fatto partire con le caravelle il giovane capitano era stato un
errore che aveva compromesso le stesse sorti della Serenissima oltre che le sue
personali. Da tempo al palazzo Ducale si sapeva che per arrivare in India si
poteva giungere via terra da oriente o via nave da occidente, forse anche più
velocemente. Sarebbe bastato questo fatto che metteva in crisi il commercio
della Serenissima, ma la scoperta di un altro mondo al di là del grande mare
aveva arricchito con montagne d’oro tutte quelle nazioni cui la splendida
Venezia prestava ingenti somme di denaro. Non era più un segreto che il declino
di una millenaria potenza del mare era perciò iniziato e l’alba di un nuovo
mondo era sorta.
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