Sherlock DLS - 1
Ritorno
su questo fandom con la mia prima long fic. La storia è in
corso di lavorazione, cosa che potrebbe un po’ allungare i
tempi, ma state sicuri che arriverà tutto!
Questa
ff è frutto del mio amore per i racconti gialli e per la
serie della BBC, che – confesso – mi ha fatto
rivalutare Sherlock Holmes ^_^
Non
aspettatevi una trama di chissà quale livello, il giallo
sarà forse anche un tantino banale, ma quello che
m’interessava era soprattutto scrivere delle interazioni tra
Sherlock e John, perché li adoro sconfinatamente!
Beh,
adesso basta chiacchere, vi lascio alla lettura. Aspetto i vostri
commenti e spero che questo mio tentativo vi piacerà!
Enjoy!
Sara
Capitolo
1
Il dottor
Watson riuscì a guadagnare la via di casa solo dopo le sei
del pomeriggio. Era stata un’estenuante giornata di visite:
vecchiette con l’artrosi, bambini intasati di moccio, obesi
cardiopatici che non ne volevano sapere di smetterla con le schifezze
fornite da ogni tipo di take away rintracciabile sul suolo londinese.
Ma rientrare a casa non significava automaticamente trovare la pace ed
il riposo.
L’uomo,
come varcò la porta del 221B di Baker Street, si
ricordò che si prospettava un week end di quasi digiuno,
visto che, ad andar bene, il frigo conteneva solo provette, parti di
cadavere e qualche pezzo di formaggio ammuffito. Si rassegnò
ad uscire di nuovo, ma prima sarebbe stato meglio interpellare il
proprio coinquilino.
Il soggiorno e
la cucina erano immersi nel loro solito caos, ma privi di presenza
umana. Stava per mandare un messaggio all’altro occupante
dell’appartamento, quando sentì un rumore attutito
nella stanza accanto.
“Sherlock?”
Chiamò, aggrottando la fronte, mentre si girava in quella
direzione.
“Sì.”
Rispose semplicemente la voce del consulente investigativo.
Watson si
diresse verso la porta socchiusa alla sua destra e si sporse dentro la
stanza. Lo spettacolo era apocalittico.
Beh, ogni
superficie piana, incluso il letto, erano occupati da fogli, libri,
oggetti, ma non c’era niente di diverso dal solito modo in
cui viveva Sherlock. I suoi vestiti, però, erano sparsi a
raggiera nella stanza, come soffiati fuori dal guardaroba a muro, le
cui ante erano divelte e ciondolavano contro la parete.
John
spalancò gli occhi, entrando completamente nella stanza.
Sherlock era con la testa ficcata nell’armadio, in mezzo a
camicie che ciondolavano su stampelle rotte e calzini adagiati in cima
ad un cassetto scardinato.
“Ma
qui dentro è esploso qualcosa?” Domandò
ironico John.
“Hn,
sì.” Rispose tranquillo Sherlock, passando
dall’armadio al cassettone senza guardare l’altro.
Il dottore strabuzzò gli occhi.
“Davvero?”
Esclamò incredulo.
Sherlock si
voltò verso di lui, lo studiò serio per qualche
secondo, stringendo gli occhi e alzando il mento.
“Era
una battuta?” Chiese infine.
“Sì!”
Fece John allargando le braccia. “È veramente
scoppiato qualcosa?!”
“Sì.”
Annuì l’investigatore. “Un
esperimento…”
“Oh,
Santo Cielo…” Commentò il medico, poi
annusò l’aria. “C’è
puzza di bruciato…”
“Oh,
sì! Sono i miei capelli.” Dichiarò il
coinquilino. “Devo farmi una doccia…”
Aggiunse, prima di passargli accanto con aria assorta e scomparire
verso il bagno.
John, confuso,
diede ancora un’occhiata allarmata alla stanza devastata, poi
scosse la testa e tornò in soggiorno. Si sentiva chiaramente
lo scroscio dell’acqua in bagno.
“Sherlock,
io vado a fare la spesa, hai bisogno di qualcosa?”
Domandò infine, accostandosi alla porta chiusa.
“No.”
Rispose l’altro. “Ma se dovesse venirmi in mente,
ti mando un messaggio.” Aggiunse.
“Va
bene, ma fallo prima che io sia alla cassa…”
Vivere in
quella casa era una scommessa. Non sapevi mai se avresti mangiato,
bevuto, dormito con regolarità, se qualcuno ti avrebbe
sparato addosso, oppure rapito e imbottito di esplosivo, o se saresti
riuscito ad avere un appuntamento con una persona in pace.
Proprio quando
credeva di aver visto tutto, Sherlock superava di un altro poco il
confine dell’incredibile. Ma dopo teste mozzate in frigo,
colonie di muffe, bande di trafficanti di armi ceceni, donne che sono
uomini che fingono di essere donne, ormai cosa mancava? Un gatto
elettrificato e un coniglio nel forno? Anche se,
quest’ultimo, con patate e rosmarino, magari non era
male…
“Ricordami
di non prendere mai un animale domestico.” Affermò
John, parlando più a se stesso che a Sherlock dietro la
porta.
“Eh?”
Fece l’altro, chiaramente immerso sotto il getto.
“Niente,
niente… Vado, ci vediamo tra un po’.” E,
detto questo, discese le scale ed uscì in strada.
Il bislacco
sms di Sherlock lo raggiunse appena uscito dal supermercato, ovviamente.
«Ho
bisogno di un flacone di acqua distillata, un tubo di gomma diametro 1
cm e un piccione. SH»
Un piccione?!
Altro
messaggio.
«Il
piccione non è necessario che sia vivo, basta che abbia le
piume. SH»
Oh,
Sant’Oddio…
«Dove
te lo trovo un piccione con le piume? JW»
«Leicester
Square?SH»
Ma…
Col cacchio che ora s’imbarcava sulla Bakerloo per prendergli
un piccione! Che poi, era lecito appropriarsi di un piccione di
Leicester Square per farci esperimenti di discutibile natura? Rischiava
l’arresto?
Stava per
rispondere al messaggio, quando le sue priorità cambiarono
all’improvviso.
“John?”
Lo chiamò una gentile voce femminile.
Se
l’avesse chiamato un uomo non si sarebbe nemmeno voltato, ma
quella voce gli ricordava qualcosa… Si girò piano.
Lei era una
donna minuta, col viso ovale e due splendidi occhi blu, i capelli
biondi acconciati in onde delicate, la pelle bianca, abiti eleganti ma
sobri. La riconobbe subito.
“Angela…
Angela Blythe!” Esclamò sorpreso.
“John
Watson, quanto tempo.”
Poco dopo
erano seduti su una panchina; il piccolo giardino allietato dal primo
tiepido sole primaverile. I piccioni svolazzavano placidi, ignorando la
minaccia di Holmes.
“Dio,
sembra passata un’eternità, dai tempi della
Barts.” Affermò Angela, posandosi le mani in
grembo. John la guardava, era sempre bella come allora.
“Già.”
Commentò placido.
“Tu
che cosa fai adesso?” Gli domandò interessata la
donna.
“Lavoro
in un piccolo ambulatorio.” Rispose semplicemente lui.
“Tu, sempre nel reparto pediatrico?”
“Assolutamente.”
Annuì Angela. “Non c’è niente
di più bello che aiutare i bambini.” Aggiunse, ed
il suo sguardo si fece dolce, appena malinconico.
Il cellulare
di John emise un suono, impedendogli di continuare a godersi il bel
profilo della donna. Il dottore roteò gli occhi esasperato,
poi lo trasse dalla tasca e guardò il messaggio.
«Dove
sei? Ho fame! SH»
Sbuffò
e rimise l’apparecchio in tasca. Angela lo fissava
incuriosita.
“Qualcosa
di importante?” Gli chiese garbata.
“Hn,
no.” Fece lui vago. “Solo il mio coinquilino
bizzarro.” La donna, sorpresa, sorrise appena e
alzò le sopracciglia.
“Sembra
strano: tu con un coinquilino bizzarro.” Commentò
poi. “Sei sempre stato così…”
“Ordinario?”
Intervenne lui.
“Oh,
no!” Esclamò Angela, posando una mano sul suo
braccio. “Solo molto ordinato, preciso, serio.”
Spiegò quindi. John abbassò il capo.
“Non ti ho mai ringraziato per l’aiuto che mi hai
dato tante volte, se non ci fossi stato tu molti esami non li avrei
passati.”
“Non
sminuirti, sei sempre stata brillante.” Affermò
lui, con un sorriso tranquillo.
“Non
farlo tu, eri il migliore della classe!” Ribatté
lei con un grande sorriso, prendendogli d’impeto le mani.
John guardò le sue mani ruvide in mezzo alle sue, piccole e
bianche.
“Come
vanno le cose con James?” Le domandò improvviso.
Angela
sussultò, lasciò la presa e si ricompose sulla
panchina, guardando oltre la cancellata verde del giardinetto.
“Purtroppo,
siamo un po’ in crisi…”
Mormorò quindi, tormentandosi le mani. “Da qualche
tempo, lui vive in un piccolo appartamento nella City.”
“Oh,
mi spiace…” Soffiò sincero lui.
“No,
non farlo, gli ho chiesto io di andare.” Lo interruppe la
donna. “Non potevamo stare male in due.” Aggiunse,
prima di tornare a guardare John sorridendo. “Abiti qui
vicino?” S’informò, accennando alle
buste della spesa.
Il dottore la
fissò per un attimo, perplesso per il repentino cambio di
argomento. “Sì, in Baker Street.” Le
disse infine. “Tu cosa fai da queste parti?”
“Oh,
niente di che, una visita medica.” Rispose vaga Angela.
“Spero
niente di grave…”
“No,
tutto a posto.” Sorrise lei, poi gli prese di nuovo le mani.
“Dobbiamo cenare insieme, al più presto! Dammi il
tuo numero, così ti chiamo.”
La sorpresa
per quella inaspettata richiesta, rischiò di far sussultare
John, ma dopo un comprensivo attimo per riprendersi, fu felice di
acconsentire allo scambio dei numeri.
Non si era mai
dimenticato di Angela, anzi, lei era uno dei migliori ricordi dei tempi
della scuola di medicina, nonostante non avesse mai ricambiato il suo
trasporto. Forse perché non lo aveva mai saputo. Ma ora era
felice di poter riallacciare i rapporti.
Si salutarono
pochi minuti dopo e la donna lo stupì di nuovo, baciandolo
sulle guance.
Quando
arrivò in cima alle scale dell’appartamento,
Sherlock era fermò in mezzo al salotto. Si voltò
di scatto, sentendo i suoi passi sul pianerottolo.
“Finalmente!”
Esclamò il detective. “Il mio piccione?”
John
alzò gli occhi al cielo e si diresse in cucina senza
rispondergli; posò le buste su una sedia, visto che tavolo e
pensili erano ingombri dei soliti alambicchi di Sherlock.
“Allora?”
Fece l’altro seguendolo.
“Non
ti ho preso nessun piccione.” Rispose John, mentre riponeva
la spesa nei vari mobiletti.
“Perché?”
L’interrogò autoritario Sherlock, mani ai fianchi.
“Perché
non vai sul tetto e te ne prendi uno da solo?”
Replicò il dottore, agitando un barattolo di pelati.
“Sei
acido, John.” Commentò l’investigatore.
“Avrò
Saturno contro.” Sbottò l’altro,
passandogli accanto.
“Tu
non credi all’oroscopo.”
“Magari
oggi sì.”
“Non
si crede in qualcosa a giorni alterni.” Ribatté
scettico Sherlock. “E, comunque, tralasciando il piccione
– che non mi hai portato – io avrei fame.”
John
tornò verso la cucina, entrò, frugò in
uno dei sacchetti, tornò dall’amico e gli
posò una vaschetta in mano.
“Lasagne.
Due minuti nel microonde. Deliziose.” Dichiarò
asciutto.
Sherlock
guardò perplesso la vaschetta, poi alzò gli occhi
e seguì i movimenti di John nella stanza. Gli era successo
qualcosa e lui, sapeva cosa.
“Hai
incontrato qualcuno, fuori?” Chiese al proprio coinquilino.
John si
fermò col braccio a mezz’aria, mentre metteva a
posto la scatola del caffè. Merda. Pregò Dio che
Sherlock non stesse per fare quello che stava per fare. Oggi non era in
grado di sopportare la sua supponenza. Continuò a mettere
roba nello scaffale a sempre maggiore velocità, cercando di
ignorare il sorriso perfido che percepiva sulle labbra di Holmes.
“Vediamo…”
Continuò il detective, avvicinandosi. Lo annusò e
John strinse i denti. “È una donna, ma non
è Sarah, il profumo non è il suo.” Il
dottore si girò verso di lui, gli occhi bassi e
un’espressione arresa. “Sarah non è una
donna di classe e questo è un profumo costoso…
Una vecchia fidanzata.” Ipotizzò quindi, ma John
deviò gli occhi. “Oh, no, non lo
è… Una vecchia amica, oppure… una
compagna di studi.” John masticò a vuoto.
“Sì, una vecchia compagna della Barts, la tua
espressione me lo conferma, e non la vedevi da molto tempo,
perché ti ha baciato… sulle guance.”
Detto questo, gli passò un dito su una guancia e glielo
mostrò. “Rossetto.”
John
masticò, deglutì e fece una smorfia ironicamente
amara, prima d’incrociare le braccia.
“Bene,
hai dimostrato ancora una volta di essere il genio della
deduzione.” Sherlock gongolò appena. “E
allora?” Lo smontò immediatamente
l’altro.
Sherlock
spalancò gli occhi e lo fissò con
incredulità. Cos’era questa arroganza?
Dov’era la smisurata ammirazione con cui, di solito, John
ascoltava le sue deduzioni?
“Hai
fame? Mangia.” Concluse il dottore, indicando la vaschetta
che l’altro aveva ancora in mano, poi girò i
tacchi e salì nella propria camera.
L’investigatore
rimase in piedi in mezzo alla cucina, con le lasagne surgelate che gli
stavano pian piano incollando le dita. Poi si riscosse e
lanciò il cibo sul tavolo. Doveva sapere tutto di questa
donna! Santo cielo, faceva a John un effetto ben peggiore di Sarah,
c’era di che allarmarsi!
John ridiscese
al piano inferiore dopo pochi minuti. Aveva fame, inutile negarlo, ma
non avrebbe dato soddisfazione a Sherlock. Il suo coinquilino, per
fortuna, era alla scrivania con la testa infilata nel portatile.
Il dottore
andò in cucina a farsi un panino, visto che ora
c’erano gli ingredienti. Finito di preparare il sandwich, lo
mise in un piatto, fermamente convinto di consumarlo seduto in
poltrona. Arrivato in salotto, però, fu incuriosito dalle
attività del detective. Forse lavorava ad un nuovo caso.
Lo raggiunse
alla scrivania tra le due finestre e, da sopra la sua spalla,
sbirciò lo schermo del computer, mentre masticava il primo
morso del panino. Quando realizzò cosa stava studiando
Sherlock con tanta attenzione, però spalancò gli
occhi incredulo.
“Quella
è la foto della mia classe alla Barts!”
Esclamò a bocca piena.
“Hmhm.”
Annuì pensoso Sherlock. “Eri carino… Un
po’ un pulcino spettinato, ma carino.”
“Grazie…”
Soffiò sarcastico John.
“Lei
qual è?” Gli chiese allora
l’investigatore.
“Dimmelo
tu.” Lo sfidò il dottore; Sherlock gli
lanciò un’occhiata ironicamente retorica.
“Mhhh…”
Rimuginò, osservando ancora la foto. “Questa no,
troppo brutta. Questa non è abbastanza raffinata.
Questa… lesbica.” John lo guardò con
rimprovero, ma lui non se ne accorse. “Questa è
grassa e questa aveva una relazione con
l’insegnante…”
“Davvero?”
Intervenne sorpreso John.
“È
ovvio, John.” Replicò annoiato Sherlock, poi
indicò un punto in basso nell’immagine che stavano
guardando. “È lei.” Decretò
quindi. “Vediamo la didascalia…”
“Angela
Blythe.” Lo interruppe il medico. “È
lei, sì.”
“Hm,
però.” Commentò Sherlock, osservando
ancora la foto.
“Che
vuol dire?” L’interrogò John, la fronte
aggrottata, dopo essersi seduto sul bordo della scrivania.
L’amico si adagiò contro lo schienale della sedia
e incrociò le mani sul ventre.
“Anche
se non sono interessato alla merce, non significa che non riconosca una
bella donna.” Spiegò poi, con tono retorico, come
spiegasse ad un bimbo che non esiste Babbo Natale.
John
sospirò e scosse il capo. Lo scarso tatto di Sherlock
sarebbe certamente passato alla storia.
“Non
mi stupisco che ti abbia respinto.” Affermò
infatti, confermando i pensieri del dottore.
“Non
mi ha respinto.” Reagì debolmente John.
“Certo.”
Annuì il detective. “Perché tu non ti
sei mai proposto.”
Watson
alzò gli occhi al cielo. Già, doveva saperlo che
l’avrebbe capito. Gli dispiacque di essere così
banale ai suoi occhi.
“Lei
era interessata altrove…” Mormorò
abbassando il capo.
“Capisco.”
Annuì Holmes. “Credo che avrebbe scelto
più un tipo come… questo.” E
indicò un ragazzo nella foto. John guardò di
striscio e tornò ad abbassare il viso.
“James
Kubler.” Decretò. “Brillante laureando,
figlio di un baronetto della medicina, presidente del comitato
studentesco.” E marito di Angela, ma questo lo tenne per se.
“John,
non rammaricarti, non è colpa tua.” Intervenne
arido Sherlock. Lui lo guardò con espressione interrogativa.
“Si tratta solo di evoluzione della specie e conservazione
della stessa.” Continuò l’investigatore,
rendendo l’altro sempre più perplesso.
“Una donna come Angela è portata a scegliere un
maschio come questo James per affidargli il proprio corredo genetico,
in modo che i propri figli abbiano migliori possibilità di
trovare posto nella società.”
“Ah,
sì?” Fece John.
“Beh,
naturalmente!” Dichiarò Sherlock, allargando le
mani. “Lui era più prestante ed attraente di te, a
livello fisico, occupava una posizione sociale migliore e prometteva un
ottimo futuro.” Aggiunse. “Ed è un
maschio Alfa, cosa che tu non sei.”
“Sarà
per questo che ho deciso di fare lo zerbino a te.”
Sentenziò John, prima di alzarsi e tornare al piano di sopra
accompagnato dal panino.
Sherlock lo
seguì con lo sguardo, meravigliato per quella reazione. Oggi
John era particolarmente suscettibile! E dire che, se anche fosse stato
uno zerbino, sarebbe stato comunque il suo preferito, quello con
scritto «Benvenuto a casa»…
“Bah!”
Commentò basito, prima di tornare alle proprie indagini.
Un’ora
dopo, John si era assopito sul letto, ma un inconfondibile bussare
violento alla porta lo svegliò di soprassalto. Si
alzò lentamente ed andò ad aprire.
“Se
sei venuto a chiedermi scusa…” Esordì
il dottore, senza alzare gli occhi su Sherlock.
“Scusa?
Per che cosa?” Replicò quello stupito, poi
alzò il cellulare mostrandogli il display illuminato.
“Abbiamo un caso, sbrigati.” Gli
annunciò quindi, prima di inforcare di nuovo le scale in
discesa.
John
sbuffò arreso. Quell’uomo era assolutamente
incompatibile con la convivenza civile e Watson si disse che doveva
avere qualche tara genetica per aver scelto deliberatamente di dividere
una casa con lui. Si strusciò il viso e scese le scale.
Il luogo
dell’omicidio era un lindo condominio in un quartiere ancora
abbastanza cittadino da non essere degradato. Mattoni scuri e infissi
bianchi, simile a centinaia d’altri alla periferia di Londra.
Il dottor
Watson si sporse dalla balaustra in metallo scuro. Sotto: macchine
della polizia, il furgone della Morgue e le familiari strisce bianche e
blu della scena del crimine.
“È
qui.” Gli annunciò la voce di Sherlock; lui
alzò gli occhi e lo vide infilarsi dentro una delle porte
bianche, poco più avanti lungo il pianerottolo.
Era un
appartamento ordinato e luminoso, con mobili chiari; appena si entrava,
sulla destra, c’era un piccolo cucinino pulito e sistemato.
Davanti a lui, invece, un divano bianco e un cadavere sul tappeto. John
sospirò, la morte violenta continuava a turbarlo.
La vittima era
una ragazza esile, con lunghi capelli castano chiaro; indossava una
vestaglia blu scuro e giaceva riversa scompostamente a terra con la
tempia coperta di sangue, così come il tappeto inzuppato.
Schizzi di sangue imbrattavano il bordo e la seduta del divano,
coprivano la superficie di un tavolino di cristallo. Colpo alla testa
con oggetto contundente, concluse il medico.
“Un
paio di guanti?” Chiedeva nel frattempo Sherlock, allungando
la sua mano elegante verso Anderson della scientifica, ma senza
guardarlo.
“Mi
hai scambiato per il maggiordomo?” Replicò quello
piccato.
Holmes gli
rivolse una lunga occhiata supponente. “Ti manca il
tight.” Affermò infine, poi si avvicinò
al tavolo e prese da solo un paio di guanti.
John
lo imitò, prima di salutare Lestrade con un cenno, poi
guardò Sherlock, che lo invitò ad esaminare il
cadavere. L’investigatore, invece, cominciò a
girovagare per la stanza, aprendo sportelli, sbirciando nel frigo e nel
lavabo.
“Qualche
dettaglio?” Invitò quindi, gesticolando verso
l’ispettore.
“La
vittima si chiamava Holly Barnes, era una musicista della London
Simphony Orchestra.” Esordì il poliziotto,
leggendo dalla cartella che aveva in mano. “Ci hanno riferito
che nella prossima esibizione avrebbe dovuto fare un assolo, quindi le
era stato affidato un prezioso violino, un… Guarnieri del
Gesù, che non è stato reperito
nell’appartamento…”
“Cosa?!”
Esclamò Sherlock, bloccandosi in mezzo al cucinino con gli
occhi spalancati.
“Non
abbiamo trovato il violino in casa…”
Ripeté Lestrade perplesso.
“No!”
Esclamò impaziente l’altro. “Hai parlato
di un Guarnieri del Gesù!” Il poliziotto
annuì. “Hai idea di quanto valga, un violino del
genere?”
“Così
tanto?” Intervenne Watson.
“Io
direi, come minimo, tra il quarto e mezzo milione di
sterline.” Affermò il detective. John
spalancò la bocca incredulo.
“In
questo caso, se il valore dello strumento fosse accertato, potrebbe
essere il movente dell’omicidio.”
Commentò Lestrade.
“Non
credo.” Si limitò a sentenziare Sherlock, prima di
sparire in camera da letto.
“Non
vorrai dargli retta?!” S’informò
Anderson, rivolto all’ispettore. “Se il violino
vale così tanto, è ovvio che l’hanno
uccisa per quello!”
“Niente
è mai ovvio.” Affermò pacato Watson.
“Stia
attento, dottore.” Fece allora l’investigatore
scientifico, inguainato nella sua tuta blu usa e getta. “Ad
andare con lo zoppo…”
John
fissò per un attimo l’uomo. Aveva sempre pensato
che portasse un parrucchino. Se così non era, la sua
terrificante pettinatura era certamente l’opera di un
parrucchiere sadico. La risposta da dargli gli venne spontanea.
“A
volte si lascia il bastone.” Dichiarò, prima di
seguire Sherlock nell’altra stanza.
Entrato nella
camera da letto, John si trovò davanti Sherlock che lo
fissava impassibile. Il dottore assunse un’espressione
interrogativa.
“Potrei
amarti, John.” Dichiarò solenne Holmes. Watson
spalancò gli occhi incredulo.
“Co…
come?” Biascicò quindi.
“Corpo
e anima.” Fece Sherlock annuendo, sempre serio.
“P…
p… perché?” Balbettò John,
completamente confuso. L’investigatore, palesemente
spazientito, alzò gli occhi al cielo e allargò le
mani.
“Per
quello che hai detto ad Anderson!” Sbottò infine,
prima di dargli le spalle. “E riprenditi, era una
battuta!” Aggiunse, tornando vicino al letto.
John
sospirò. Non si sarebbe mai abituato alle uscite di
Sherlock. Era impossibile capire se fosse serio oppure no. E lo
coglieva sempre di sorpresa!
“Che
cosa mi dici di questa donna?” Come ora…
“Quale
donna?” Ribatté, infatti, il dottore disorientato.
“Santo
cielo, il mio fascino ti ha veramente devastato!”
Commentò l’altro senza ironia, mentre scrutava gli
oggetti sulla cassettiera. “La vittima, John! La morta, il
cadavere…”
“Ho
capito, ho capito!” Lo interruppe lui, prima che arrivassero
la salma e il feretro. Watson si guardò intorno.
“Era un tipo molto ordinato, non amava i colori
forti…”
“E
della sua vita sessuale?” Intervenne Sherlock, sempre
dandogli le spalle.
“La
sua… che cosa?!” Replicò John.
“Ti
prego, cerca di essere meno inglese, per un attimo.” Lo
supplicò secco il detective, voltandosi. “Cosa
pensi della vita sessuale di Miss Barnes?”
“E
che cosa posso saperne io!” Esclamò il dottore,
cercando di nascondere l’imbarazzo. “Magari ha un
vibratore nel primo cassetto del comodino!”
In tutta
risposta, Sherlock si avvicinò al mobile ed aprì
proprio quel cassetto, sotto lo sguardo allibito del collaboratore, poi
fece un’espressione compiaciuta.
“Niente
vibratori.” Affermò quindi. “Solo
preservativi e…” Sollevò la mano in cui
teneva un tubetto azzurro e ammiccò a Watson.
“…lubrificante.”
John
sospirò e scrollò il capo. “Ok, aveva
una vita sessuale più fantasiosa del suo
arredamento.”
“Sì,
decisamente attiva.” Concordò Sherlock.
“Ci sono tracce di fluidi corporei sul
copriletto…”
Lestrade
entrò nella stanza, proprio mentre lui faceva
quell’affermazione indicando la coperta.
“Allora,
concluso qualcosa?” Domandò l’ispettore.
“Concluso
no, dedotto sì.” Rispose Holmes, mentre prendeva
in mano una cornice. Era una foto della vittima insieme ad un uomo
più anziano in una posa molto amichevole. “Devo
parlare con quest’uomo.” Aggiunse, indicando la
fotografia.
“Dammi
il tempo di scoprire chi è…” Fece
Lestrade.
“Si
chiama Wolfgang Stoltz, è tedesco e dirige
l’orchestra in cui suonava la Barnes.”
Affermò Sherlock; gli altri due lo fissavano ad occhi
spalancati. “Che c’è? Mi piace la musica
classica.”
“Senti.”
Esalò Lestrade, dopo alcuni istanti di attonito silenzio.
“Non abbiamo molto tempo, tra poco arriva il coroner per
portarla via e…”
“Quindi,
veniamo alle cose serie.” Lo interruppe Sherlock, prima di
battere e strusciarsi le mani, poi iniziò a camminare nella
stanza. “Come concordavamo poco fa io e il dottor Watson,
Miss Barnes era una donna molto ordinata, precisa,
meticolosa.” Gli altri due annuirono in religioso silenzio.
“Lo posiamo dedurre dalla sua casa, dalla simmetria nella
disposizione dei soprammobili, dalla precisione con cui riportava i
propri impegni sull’agenda – posata sul banco della
cucina, come avrete certamente notato…” John e
Lestrade si scambiarono un’occhiata imbarazzata.
“Era così meticolosa da riportare sempre anche il
giorno in cui arrivava il ciclo mestruale…”
“Scusa,
e questo da cosa lo avresti capito?” Intervenne Watson
curioso.
“Semplice.”
Fece Sherlock allargando le mani. “Ogni suo impegno era
segnato nell’agenda immancabilmente da una penna a sfera
nera, ma, periodicamente, con una cadenza di circa ventotto giorni uno
dall’altro, il numero indicante la data è stato
cerchiato da un pennarello rosso a punta larga. E l’unico
motivo per cui una donna fa questo…”
“Ok,
ho capito.” Annuì John.
“Continua.” Lui non si fece pregare.
“Entrando
in questa stanza, mi sono immediatamente accorto della foto di Stoltz.
L’uomo abbraccia con fare fin troppo confidenziale la Barnes
e lei teneva quella fotografia in un posto di una certa importanza:
vicino alla specchiera e, perfino, davanti a quella della propria
famiglia.” Fece notare l’investigatore, indicando
agli altri posizione e rilevanza della foto. “Ora, siamo
sicuri che non ci siano rapporti di parentela tra i due, ma certamente
c’è una relazione abbastanza importante, visto il
tipo di foto, dove è messa ed il fatto che alla vittima
fosse stato affidato un assolo nella prossima esibizione e la custodia
di un prezioso strumento musicale.” Continuò
Sherlock, mentre si muoveva ancora nella stanza, certo della completa
attenzione del proprio esiguo pubblico. “Visto quello che
abbiamo scoperto e, cioè, che Holly aveva una vita sessuale
piuttosto attiva, possiamo supporre che Stoltz sia, o sia stato, uno
dei suoi amanti. E qui torniamo all’agenda.”
“Come:
all’agenda?” Domandò confuso
l’ispettore.
Sherlock
roteò gli occhi e poi rivolse un’occhiata
compassionevole al poliziotto. “Come ho detto prima, la
vittima segnava in modo regolare il proprio ciclo mestruale, ma questo
non avveniva più da circa tre mesi.”
Spiegò quindi. “Controllando il suo frigorifero
l’ho trovato pieno di frutta e verdura fresca e questo ci
dice più del fatto che era una giovane donna preoccupata
della propria salute e forma fisica, anche
perché…” John era pronto alla
rivelazione finale. “…in uno degli armadietti ho
trovato un flacone contenente un insieme vitaminico arricchito di acido
folico.”
“Tu
pensi che fosse incinta?” Gli chiese stupito John.
“No,
io non lo penso.” Rispose Sherlock. “Io ne sono
certo.”
“Questo
è impossibile dirlo, prima
dell’autopsia.” Affermò Lestrade.
“Oh,
no, ti sbagli.” Lo corresse immediatamente Holmes.
“Sul mobiletto accanto al televisore c’è
un referto della clinica Brown & Ross – a due passi
da Baker Street tra l’altro - che non è
soltanto specializzata in problemi della fertilità, ma offre
anche servizi alle donne in gravidanza e da questo capisco che, non
solo era incinta, ma voleva tenere il bambino.” Concluse
quindi.
“E
tutto ciò, cosa ci dice dell’assassino?”
S’informò il poliziotto.
“È
stato un delitto d’impeto.” Affermò
Sherlock, cercando conferma nell’espressione di John, che
annuì. “Sicuramente avvenuto durante una
discussione. E una discussione può essere stata provocata
soltanto dalla gravidanza.”
“E
il violino?” L’interrogò Lestrade.
“Il
violino non c’entra niente.” Si limitò a
decretare Holmes, stringendosi nelle spalle. “Ma se la
questione ti preoccupa tanto, vedrò di
occuparmene.”
“Sì,
preferirei.” Precisò l’ispettore
annuendo.
“Come
vuoi.” Fece Holmes stringendosi nelle spalle. “Tu
fammi sapere dove trovare Stoltz.”
“Vedrò
di prenderti un appuntamento.” Gli disse il poliziotto.
“Non
c’è bisogno dell’appuntamento, voglio
coglierlo di sorpresa.” Soggiunse immediato il detective, con
uno sguardo tagliente.
“Non
se ne parla!” Sbottò Lestrade. “Quello
è tedesco, non vorrai far scoppiare un incidente
diplomatico?” Aggiunse preoccupato.
“Come
se fosse la prima volta.” Ribatté incurante
Sherlock, facendo un gesto vago con la mano mentre si allontanava. John
e Lestrade si guardarono e non c’era bisogno delle parole per
esprimere i loro allarmati interrogativi.
Dopo pochi
altri particolari – come la testimonianza di una vicina sui
rumori di una discussione proveniente dall’appartamento della
vittima – Sherlock e John se ne andarono. Holmes aveva anche
scattato alcune foto col cellulare, preso copia di alcuni file di
Lestrade e raccomandato di fargli avere il referto
dell’autopsia.
Era ormai sera
quando uscirono dall’appartamento del delitto ed il telefono
di Watson squillò proprio mentre scendevano in strada.
“Pronto?”
Rispose il medico.
“Ciao,
John.” Salutò una voce femminile.
“Angela!”
Esclamò lui, piacevolmente sorpreso. “Che piacere
sentirti.”
“Ti
chiamavo… per quella cena…” Fece lei,
un po’ esitante. John si stupì che la donna lo
avesse cercato così presto, dopo il loro incontro della
mattina.
“Sei
ancora dell’idea di perdere una serata a parlare dei vecchi
tempi?” Le chiese però, con tono scherzoso.
“Niente
potrebbe farmi più piacere!” Ribatté
allegra Angela. “Ti andrebbe domani sera?” Aggiunse
dolcemente.
“È
perfetto.” Acconsentì veloce John.
“Non
vedo l’ora.” Replicò lei. “Ti
aspetto alle otto.”
Quando John,
con un sorriso contento, rialzò il capo dopo aver chiuso la
chiamata, trovò Sherlock a fissarlo. Era appoggiato ad un
lampione, con le braccia incrociate e lo trapassava con quei suoi occhi
glaciali e vivissimi. Watson scosse piano il capo e lo raggiunse,
mentre l’altro si voltava e fermava un taxi.
CONTINUA
Ah, con l'occasione ringrazio coloro che hanno letto la mia one shot
"The Distance" (scusatemi non riesco a mettere il link -_-), anche
quelli che non hanno lasciato commenti. Grazie a tutti! A presto!
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