La pioggia fragile
[Storia scritta a quattro mani con N i s
h e]
Pioggia
fragile
A volte mi chiedo a che cosa assomigli mentre chiudi gli occhi e ti
addormenti. Mi farei vicina senza peso e, no, non oserei sfiorarti, ma
risponderei che quello è il paradiso. Vedi quello striscione
che sventola sui condomini adiacenti? L’ho appeso
all’alba, e IO HO VISTO UN PEZZO DI DIO
erano le lettere aggrumate fra le tue ciglia. L’ho scritto,
l’ho scritto io, per ricordare quelle memorie immaginarie che
le pagine del calendario cercano di strapparmi via.
Ti ho ritrovato in tutti i luoghi dove non eri, nei miei occhi di
quell’anno lontano (nella
tua testa, nelle mie foto), mi guardavo il viso e
riflettevo se ti fossi nascosto nei miei zigomi o nelle pieghe della
bocca, nel mio modo d’annuire o in quei denti maledettamente
tuoi. Vieni fuori, non giochiamo a nascondino. Per tutti.
Dimentico, sai, ma mi piace ricordarti come un tatuaggio vanesio e
ingombrante, esibirti perché la gente mi interroghi e
concludere l’ho
fatto e non ricordo il perché. A questo punto
ti fisso (i miei occhi su di te hanno trovato il loro posto):
commiserazione, pietà, i tuoi colori sbiadiscono e
implacabile mi insegni che sei solo una vena più visibile
delle altre. Che vuoi che ti dica, ti ripeto soltanto una delle molte
verità cui non hai creduto. Non ti ho scelto, non ti ho
voluto – NON TI HO VOLUTO -, semplicemente sei capitato.
Ho cercato di pensare a te come se non fossi mai esistito, parole non
dette che non hanno fatto male ad entrambi.
Pensavo che se non ti avessi mai conosciuto sarei rimasta anonima e
priva di ogni colore che tu mi hai donato, senza che te lo chiedessi.
Riprenditi tutto, ti pregavo in silenzio, mentre con usurate
espressioni ti domandavo di più, detestando la
banalità sincera con cui davanti a te mi svuotavo le tasche,
nelle mani l’indicibile voglia di essere grande.
Piovevano pomeriggi sonnacchiosi, mentre imparavo a non saper
più stare senza di te. Quando capii il significato delle tue
parole e il peso che davo loro, mi sentii una sconosciuta in terra
d'altri, nel mio corpo.
C'era un tuo biglietto appeso al grande specchio, quando mi svegliai di
soprassalto:
Tu vivi nelle giornate
dal colore disperato dell'attesa. Alzati e muori!
Sbuffai come una bambina, ti inseguii con il pigiama spiegazzato, che
ai tuoi occhi, non so, doveva sembrare una seta pregiata.
- Un giorno che vuoi ti prendo in braccio e ti porto sulla luna.
Scoppiai a ridere. – Cretino, l’hai presa da un
libro!
- Vedi che leggo, allora...
Capisci l'importanza di una lettera, che con fluidità riesce
a incastrarsi dentro una tua parola. Quando non senti.
Senti.
Mani gelate, notti e calzini che si perdono dentro l'immenso piumone. E
ami sentirle scivolare, liberarti di loro e far vagare le dita intorno
all'ambiente nuovo che struscia dolcemente sui tuoi piedi nudi.
Cosa aspetti ti fa paura, ma vuoi ardentemente che ti travolga, per
poterlo toccare con mano. E non sentire più.
Perché lo capisci che c'è qualcosa che non va,
soprattutto quando una canzone non ti dice più nulla. Non ti
fa nemmeno disperare, non senti nulla. Nulla, mio cuore.
Ho smesso di scrivere, ho smesso di correre, ho smesso di scappare, ho
smesso vestiti, ho smesso te,
ma sempre, folle, torno indietro su quella sabbia di alghe ritorte e ci
ricostruisco dentro a un secchio sgangherato, le sue crepe le mie
rughe, i suoi tonfi la tua eco. Viaggio dopo viaggio, granello dopo
granello, grandiosamente torniamo re e regina del nostro sterile regno
di latta.
Ora butta tutto, comprese le intenzioni, tieni solo un foglio liscio e
una penna, o uno di quei miseri taccuini d’auto, giralo tra
le mani e scrivici a grandi caratteri che incontrare te non
è stato trovare qualcuno nel mondo, ma trovare il mondo
dentro qualcuno, fesso comico del terzo millennio. Prova a chiudere gli
occhi, prova a lasciarti
libero e scrivi cose malinconiche. Perché il mondo
è nato dalla malinconia, perché tu sei nato dalla
malinconia.
Descrivimi, innalzami a tua musa ispiratrice ma tieni le tue parole
solo per noi due. Perché io possa amarti, fragile e immenso
come sei.
Dormivo sul bordo del letto quando mi lasciavi sola, ché
senza di te non aveva senso stringermi le braccia al petto e dormire al
centro, dove la nostra
sagoma intatta formava una piega bianca, nelle mattine stranamente
soleggiate. Allora rimanevo lì, a sfiorarmi i fianchi.
Pensierosa guardavo il soffitto, incastrando i disegni di luce in un
universo dentro la mia testa. Dicevi sempre che avresti voluto il letto
più piccolo del mondo, nella futura casa che avremmo vissuto,
così da poterci stringere l'uno all'altra senza via
d'uscita.
Soprattutto quando l'amore sarebbe stato talmente troppo che saremmo
arrivati ad odiarci, dicevi.
Il mio tentativo più stolto è stato volerti
capire fino in fondo, analizzarti, bloccarti in una definizione statica
di qualcosa che non potrai mai essere. Eri bello, eri felice, eri
leggero sulla Terra. Eri i colori delle vetrine sulla strada per andare
a scuola, eri uno scatolone in cui racchiudere gli oggetti importanti,
eri leggere un libro e scoprire che me lo portavo dentro da anni. Eri
tutto questo e non mi bastava. Ci penso ancora, sai, e ho deciso che
sei il momento in cui voglio alzare il volume dell’I-pod e
far ascoltare a tutto il mondo canzoni solo mie.
Mi hai insegnato a saper scrivere quello che vedevano i miei occhi, non
quello che aveva deciso il mio cervello. E io vidi, vidi.
Vidi te che ti ostinavi a vivere, quando l'ultima cosa che avresti
preferito al mondo era chiudere gli occhi per un lungo momento.
Ti vidi fuggire da quel letto, tempio profano del nostro amore. Eccolo,
te lo regalo ora, quell’inutile giaciglio che penso
stupidamente d’averti rubato. Disegno su un foglio quattro
righe rinsecchite, ci metto sopra anche un baldacchino schizzando la
maestosità che ci è spettata per qualche attimo.
Guardo la mia grezza opera, una branda traballante sospesa sopra delle
parole – non la vedi, non la puoi vedere, ma, credimi,
è il letto più piccolo del mondo e siamo
così tanto io e te.
E di più non molto. Mi è rimasta di te una scia
di placidi condizionali che in un modo o nell’altro mi
accompagnano mentre allineo un passo al successivo sulla mia strada
sbilenca. La nostalgia perenne sarà la cornice dei miei
occhi e il sorriso stanco - ogni volta di più - che spunta
quando sei triste e fingi il contrario vorrebbe disperatamente fuggire.
Fuggire.
Vai adesso, la scena è tua. Potessi vivere un minuto di
più, ti direi che ho creduto nella vita quando ho visto il
tuo sorriso.
Da qualche
parte siamo invecchiati insieme, da qualche parte continuiamo a
rotolarci e a ridere.
Margaret
Mazzantini, Venuto
al mondo
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Ce l'abbiamo
fatta :D
Ringraziamo di cuore chiunque abbia letto questa storia, speriamo
davvero che vi sia piaciuta e vi abbia detto qualcosa.
È la seconda volta che collaboriamo (la prima è Tra
le dita, se volete darle un'occhiata), e i pensieri qua sopra
devono tanto, tantissimo, quasi tutto a N i s
h e: grazie sempre, dear, sei splendida.
Saluti giganteschi dalle autrici e ancora mille mille grazie, questo
è un regalo per voi: http://www.youtube.com/watch?v=qpD2LOSF6R0.
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