Capitolo dodicesimo
Ricordi
~ Parigi, 10 maggio 1892 ~
Louis aveva una mente straordinariamente abile a trattenere i ricordi.
Scene, suoni, persino profumi di tanti anni addietro erano capaci di
riaffiorare tra i suoi ricordi con una nitidezza e una precisione
meravigliosa. O almeno, a lui sembrava una cosa meravigliosa dato che
quasi tutti i suoi ricordi erano belli, aveva avuto una vita felice,
un'infanzia serena e una giovinezza agiata. Poi suo padre era morto...
e poi... e poi
questo.
Quelle parole tremende e inquietanti vergate dalla mano dell'uomo che
lo aveva cresciuto.
Il sangue che ho versato
mi annega nei miei incubi. Non sarò mai abbastanza lontano
dal mio passato da dimenticare di essere stato un assassino.
Parole scritte come una qualsiasi constatazione. Non c'era rimpianto,
non c'era rimorso. L'unico rimpianto di suo padre era quella donna, la
fanciulla di cui parlava nelle pagine più tristi e
angosciate di quel diario, la ragazza senza nome per la quale Erik si
era dannato l'anima, il cui ricordo lo consumava come una candela,
goccia dopo goccia.
Louis strinse le palpebre. Sentiva gli occhi bruciargli per il sonno,
aveva passato tutta la notte a rigirarsi nel letto, incapace di dormire
e incapace di restare davvero sveglio. Aveva sentito qualcuno entrare e
parlare con Gustave – Gustave! Era davvero rimasto con lui
tutto il tempo? – e poi, dopo un po' di tempo qualcun altro
arrivare e sedersi su una sedia accanto al letto.
Uno dei suoi tanti ricordi era affiorato dal nulla, in mezzo a quel
caos di sconcerto e smarrimento e lo aveva colpito in viso come uno
schiaffo. Era un ricordo bello e dolcissimo, forse uno dei ricordi
più dolci legati alla figura di suo padre.
Louis aveva sette anni, c'era stato un inverno particolarmente rigido e
molti bambini si erano ammalati. «Nessuno è mai
morto di raffreddore» dicevano le comari alle finestre, ma
nonostante i giorni di riposo, le cure e le medicine, il raffreddore di
Louis si era trasformato in una febbre fortissima che non accennava a
scendere. Era debole e frastornato dalla malattia, riusciva a stento a
parlare eppure era rimasto lucido e vigile tutto il tempo, tanto da
sentire sua madre piangere sulla soglia della sua camera da letto e gli
incoraggiamenti titubanti del medico che ogni giorno veniva a fargli
visita.
Sua madre passava ore e ore al suo capezzale, tamponandogli la fronte
con un panno umido, cercando di farlo mangiare o semplicemente
fissandolo... Dio, che strazio tremendo deve essere per una madre
quello di restare a guardare il proprio figlio, contando i respiri,
fissando il suo petto sollevarsi e abbassassi, temendo che l'istante
successivo quel respiro si spezzi!
Suo padre invece... Louis non aveva visto altro che quell'imponente
figura fermarsi sulla soglia della camera, aveva sentito su di
sé lo sguardo di quegli occhi che gli dispiaceva non aver
ereditato, e quasi aveva sofferto più che per la malattia,
per il dolore che stava procurando ai suoi genitori.
«Fa' qualcosa...» aveva udito sua madre mormorare a
fior di labbra. Forse era una preghiera rivolta al Signore, ma non fu
certo la mano di Dio quella che Louis sentì posarsi sulla
propria fronte bollente. Era suo padre, da dove diamine era spuntato?
«Va' a riposare, ci penso io a lui» aveva detto
Erik, a bassa voce, senza tradire alcuna emozione particolare. Sua
madre aveva esitato prima di allontanarsi dal letto, ma alla fine aveva
lasciato la stanza, trascinandosi con passo stanco verso la porta che
poi aveva richiuso piano alle sue spalle. Louis avrebbe
voluto richiamarla indietro, ma non ne ebbe la forza.
Erik restò a guardarlo per un tempo che sembrò
infinito, Louis sollevò faticosamente lo sguardo su di lui.
La febbre lo scuoteva con dei brividi tremendi, sentiva la pelle
bruciare come se fosse fatta di fuoco, ma il sangue sembrava essersi
tramutato in fiocchi di neve.
L'uomo scostò le coperte e si stese nel minuscolo lettino
accanto a suo figlio, poi avvolse entrambi nei diversi strati di
trapunte di lana, circondò le spalle del bambino con un
braccio e lo strinse a sé. Louis sentì un vago
senso di sollievo quando la sua guancia si posò sulla stoffa
fresca e morbida della camicia di suo padre.
«Mi dispiace...» mormorò, ed era
dispiaciuto davvero.
«Tu sei la mia anima, Louis. Per nessuna ragione al mondo
permetterei che mi venissi portato via» sussurrò
Erik al suo orecchio, con quella sua voce di angelo che lui tanto gli
invidiava e che glielo aveva reso, se possibile, ancora più
amabile e degno di ammirazione.
Louis non ricordava altro, se non il fatto che si fosse raggomitolato
contro il petto dell'uomo e che si fosse addormentato. Si era
risvegliato il mattino dopo, Erik era ancora lì accanto a
lui. La febbre non era scesa, ma si sentiva un po' meno debole, quel
tanto che bastava per sollevarsi e gettare le braccia la collo di suo
padre. Erik lo aveva avvolto nelle coperte, lo aveva preso in braccio e
lo aveva portato accanto alla finestra, facendolo restare seduto sulle
sue ginocchia. Insieme avevano osservato il mare infrangersi contro gli
scogli, il vento spazzare la strada e far volare via i cappelli dei
passanti.
Ci erano voluti altri due giorni perché la malattia
cominciasse a dare segni di miglioramento, ma quando Louis era stato in
grado di scendere dal letto e reggersi in piedi, aveva sentito la
cameriera dire era un bambino troppo amato perché gli
potesse capitare davvero qualcosa di male, che la febbre aveva avuto
paura dell'amore alla fine...
E allora come era possibile che lo stesso uomo che lo aveva tenuto tra
le braccia quella notte, quasi come a volerlo nascondere alla vista
della Morte, avesse ucciso qualcuno?
Era una domanda che si rigirava nella sua mente come un ferro rovente
in una ferita. Louis avrebbe potuto quasi urlare per il dolore.
C'era un meraviglioso sole primaverile che filtrava dagli scuri
socchiusi. Parigi cominciava ad avere odore di fiori e di erba
tagliata, in giornate come quella la capitale francese era di una
bellezza luminosa, splendida... tanto che Louis l'avrebbe trovata
oltraggiosa per lo stato in cui era.
All'improvviso sentì una mano fresca posarsi gentile sulla
sua fronte e un profumo buono. Si girò di lato, sollevando
le palpebre gonfie e intravide la figura esile e minuta di madame De
Chagny seduta sul bordo del letto, come sua madre tanti anni
prima. Dunque era lei la persona che aveva sentito entrare durante la
notte... Louis si sentì quasi imbarazzato.
«Christine?...» farfugliò con la voce
impastata.
«Gustave era molto preoccupato per voi, come vi
sentite?» disse la donna con un sorriso dolce.
Il giovane si sentì sprofondare. Gustave l'aveva mandata a
chiamare... dei del cielo! Perché mai? Cosa le aveva
raccontato?
Grazie a Dio il suo amico aveva fatto sparire la maschera dal comodino,
se la signora avesse fatto qualche domanda in proposito lui non sarebbe
stato particolarmente abile a trovare qualche menzogna adatta.
«Siete piombata qui in piena notte? Cosa dirà
vostro marito?» borbottò Louis arrossendo.
«Ah, non vi preoccupate, Raoul di certo non me ne
vorrà per essere venuta in soccorso di mio figlio».
Il figlio in questione spuntò oltre la soglia.
«Come ti senti, Louis?» domandò,
guardando l'amico con apprensione.
«Non tanto male da trattenere oltre tua madre»
rispose il ragazzo moro con un sospiro. «Vi siete
già dati tutti troppa pena per me...». Non voleva
parlare a madame De Chagny di quello che era accaduto, di quello che
aveva scoperto. Gli piaceva quella donna, gli piaceva la famiglia di
Gustave, non voleva essere compatito da loro, né voleva
turbarli...
«Non dite sciocchezze, siete qui da solo, se non sono gli
amici a prendersi cura di voi... e poi, se mio figlio fosse lontano da
casa, vorrei che qualcuno facesse lo stesso per lui»
replicò Christine con fermezza, guardando Louis negli occhi.
«Gustave non mi ha detto cosa è accaduto, e non
siete tenuto a parlarmene, però vorrei tanto che non
restaste qui da solo. Ho una carrozza che mi aspetta di sotto,
perché non venite a casa con noi?».
*******
~ Napoli, 20 aprile 1871~
I ricordi sono il peggior supplizio che si possa infliggere a un essere
umano.
Questo pensiero volteggiò nella mente della ragazza come una
bolla di sapone, librandosi al di sopra di ogni altra idea, fino a
infrangersi e sparire nella curva di un ricciolo che non voleva saperne
di stare al suo posto.
Lucia pettinò con gesti stizziti i capelli che aveva appena
lavato, fingendo di non aver visto quel vecchio libro caduto dalla
mensola mentre cercava la spazzola.
Il libro, dalla lisa copertina di tela azzurra, era rimasto sul tappeto
a soffiare nel silenzio della stanza una musica straziante, ogni nota
era una notte insonne, un batticuore prima bellissimo e poi
trasformatosi nel suono di vetri e sogni infranti.
Forse il peggior supplizio toccato all'animo umano non era la
facoltà del ricordo quanto la tentazione dell'amore, un
canto di sirene che non si può fingere di non ascoltare e
che ti trascina inesorabilmente verso il fondo. Almeno, questo era
quanto accadeva a donne come lei... così si era sempre detta
quando il suo cuore straziato aveva chiesto alla ragione di trovare un
motivo per spiegare come mai le cose fossero andate in quel modo.
Ci vollero diversi minuti prima che Lucia approvasse la propria
immagine riflessa nello specchio, prima che quell'aria assorta
abbandonasse il suo viso e lei riuscisse a posare lo sguardo sul libro
fingendo indifferenza.
Si alzò per raccoglierlo, l'abito che non aveva ancora
finito di abbottonare le scivolò di lato scoprendole la
spalla. Mentre si voltava, la ragazza vide con la coda dell'occhio il
segno rosso e frastagliato dell'ustione e i ricordi minacciarono di
assediarle nuovamente la mente, distruggendo ogni scampolo di luce che
era riuscita a preservare.
Fortunatamente qualcuno bussò alla porta e i ricordi si
dispersero come uccelli appollaiati su un albero dopo il suono di uno
sparo.
«Lucia!». La voce di Madame Fantine aveva un suono
strano, scocciato.
«Entrate pure». La ragazza ripose il libro sulla
mensola, dietro a un vaso di porcellana, come a nasconderlo, e si
sistemò il vestito, mentre la maîtresse dell'Araba
Fenice entrava quasi a passo di marcia nella stanza, in un tintinnio di
braccialetti e orecchini vistosi come lampadari.
«Scusate, Lucia» fece sbrigativa la donna. Il fatto
che le desse del voi e che le si rivolgesse con una certa premura era
un'abitudine nata quando lei aveva cominciato a diventare famosa tra i
clienti del bordello. Non che Madame Fantine fosse una persona
sgradevole, di solito, ma il suo lavoro la portava ad essere
doverosamente pratica e spiccia con le sue ragazze.
«Scusate, ma se non venivo quello era capace di stare qua
tutta la sera. Che scocciatura» esordì la donna;
Lucia non capì ma lanciò a Madame uno sguardo per
incitarla a spiegarsi. «C'è uno che ha chiesto di
voi... ha
chiesto di
voi e io gli ho detto di no, ma quello ha insistito e ha detto che ve
lo dovevo venire a dire».
Madame Fantine non usava mai quel tono davanti ai clienti, era
meravigliosamente ossequiosa con tutti loro, ma quando parlava a porte
chiuse tutti i signori diventavano
quello.
«Non ditemelo: è il Maestro francese»
fece Lucia, tradendo una certa sorpresa. Non era certa che l'uomo si
sarebbe presentato, ed erano passati già quattro giorni da
quando ne avevano parlato.
«Eh, quello lì. Ma perché? Lo sapevate
che veniva? Io gli ho detto che voi non ricevete ma lui si è
fatto brutto brutto e ha insistito»
«Non preoccupatevi, lasciatelo passare».
Madame Fantine fece una tale espressione sorpresa che le sopracciglia
quasi sparirono sotto l'attaccatura della parrucca a boccoli bianchi.
«
Overamènte?!»
«Sì, veramente». Lucia sorrise con
dolcezza allo sguardo perplesso della donna, come a sottolineare che
era tutto a posto e che non c'era niente di cui preoccuparsi.
Madame annuì, ancora poco convinta.
«
Vabbuò...
lo vado a chiamare» concluse uscendo con passo felpato dalla
stanza.
*
Varcare quella soglia non era stato facile. Erik aveva il sentore che
niente sarebbe stato facile quella sera e si era chiesto per l'ennesima
volta che cosa stava facendo lui lì.
In quel mese aveva avuto tutto ciò che aveva sempre
desiderato: la direzione di uno spettacolo teatrale, una compagnia di
artisti decentemente competenti che pendevano dalle sue labbra,
l'ammirazione delle persone per il suo genio, persino l'interesse di
una donna che molti uomini avrebbero fatto carte false per avere nel
proprio letto. E lui era finito lì, in un bordello nel cuore
di Napoli...
La risposta più sensata che aveva trovato alla domanda era
che necessitava di qualcosa che fosse solo suo, un angolo di buio dove
era lui a decidere, gestire, controllare. Il fatto che il terreno su
cui si muoveva gli era tremendamente estraneo era un particolare a cui
preferiva non pensare.
Avrebbe potuto cedere alle lusinghe di Graziana, era la scelta in
apparenza più sensata... ma Erik si era dato una lunga lista
di motivi per giustificare con se stesso il fatto di aver scartato
quell'opzione. In primo luogo non amava l'iniziativa altrui e le
iniziative di Graziana erano più che mai prepotenti. In
secondo luogo non stimava quella ragazza. Certo, non stimava nemmeno
Lucia che conosceva a malapena, ma il fatto di essere lui ad aver
scelto lei lo faceva sentire assai meno a disagio.
Mentre varcava la soglia dell'Araba Fenice e veniva investito
dall'odore di fiori, Erik si vide costretto a mettere da parte ogni
elucubrazione e a ritenere ogni moto della ragione assolutamente non
valido. Ormai era lì, aveva semplicemente deciso
così...
Past the point of no
return,
the final threshold...
Erano passati solo due mesi da quella sera terribile, dal momento in
cui ogni sua speranza si era rivelata vana e illusoria. E per quanto
buio e per quanto nulla ci fosse dentro di lui, quell'amore non era mai
andato via, anche se ogni tanto riusciva a concedersi di credere che il
nulla avesse vinto anche sui suoi sentimenti per Christine.
Tuttavia, in quei mesi, Erik era diventato bravo a seppellire le
proprie emozioni, a celare il fastidio e lo smarrimento quando
interagiva con quel mondo incomprensibile. Era riuscito a domare i
fantasmi e fin tanto che teneva la guardia alzata, fin tanto che
parlava a se stesso del presente attraverso le pagine del suo diario,
il passato rimaneva silente nell'angolo in cui lui voleva che restasse.
Lasciare quel passato e il ricordo ancora troppo doloroso e lucente di
quell'amore folle fuori dalla soglia della palazzina era stato come
sentire ancora una volta la propria anima evaporare e sfuggirgli dalle
dita come se non fosse altro che un filo di fumo.
L'ingresso dell'Araba Fenice era una saletta rettangolare, adorna di
specchi e sofà damascati, con enormi vasi di porcellana
madreperlata pieni di fiori. L'atrio era illuminato a giorno da un
lampadario e da miriade di candele che riflettevano la loro luce negli
specchi amplificandone l'intensità. Per contrasto, il
corridoio che si apriva nell'angolo a destra era buio e privo di
illuminazione.
Sui sofà, c'erano tanti signori ben vestiti che bevevano
vino da calici di cristallo e discorrevano amabilmente con le ragazze.
Ragazze anche loro ben vestite, dall'aspetto curato, senza abiti
succinti né niente che le rendesse volgari o lascive. Se non
fosse stato al corrente di trovarsi in un bordello, Erik avrebbe
scambiato quel luogo per il salone di ingresso di una casa qualsiasi in
una serata di festa.
Nessuno badava agli altri che erano intorno; signori che alla luce del
giorno si sarebbero salutati con fare ossequioso, lì
potevano persino fingere di non conoscersi, in una sorta di muto
accordo che prevedeva che quel luogo fosse una sorta di zona franca,
dove non esistevano nomi, titoli o formalità. Nessuno fece
caso nemmeno a lui, forse solo un paio di sguardi indugiarono qualche
secondo sulla mezza maschera bianca, ma Erik non fece in tempo a
notarlo perché una donna venne verso di lui.
«Madame Fantine, al vostro servizio» disse lei con
un inchino.
L'uomo capì subito che, a dispetto del nome, la signora era
francese tanto quanto lui era napoletano. E comunque, Madame Fantine
era un vero e proprio monumento al grottesco, con quella parrucca
incipriata e quel vestito dai colori sgargianti. A guardarla, Erik
pensò che ogni minima speranza di sentirsi a proprio agio in
un luogo come quello stava miseramente scemando, tuttavia si costrinse
al suo solito contegno signorile e composto e accennò una
sorta di leggero inchino.
«Buona sera, Madame» disse. «Vorrei poter
vedere la signorina Lucia. Potreste essere così gentile da
annunciarmi?».
La donna inclinò il capo di lato, tanto che Erik temette che
le scivolasse via la parrucca. Dopo un primo attimo di
perplessità, la maîtresse sorrise amabilmente in
uno sfarfallio di ciglia truccate.
«Temo che sia impossibile, signore. Ma potrei presentarvi
a...»
«No. Dite solo a Lucia che sono qui».
Madame Fantine aggrottò la fronte, cominciava a mostrare un
certo fastidio. Forse troppe volte aveva dovuto ripetere quella scena
con altri signori che era venuti a chiedere della ragazza. Forse era
già tanto tempo che avevano smesso di chiedere di lei.
«Mi dispiace davvero, ma sono certa che Lucia non vi
può ricevere» tentò di dire la donna,
conservando uno scampolo della sua professionale cortesia.
«Sono certo del contrario» replicò Erik
senza scomparsi. «Dunque, volete farmi attendere ancora a
lungo, Madame? Vi credevo assai più celere ed ospitale, o
forse la fama della vostra casa è immeritata?».
Sentendosi certamente punta nel vivo, la donna restò
immobile a fissare l'uomo con aria di sfida. Dopo qualche secondo
l'espressione del Maestro però la fece desistere dalla sua
ostinazione e lei sospirò stizzita.
«Provo a dirle che siete qui» capitolò.
«Ma temo che avete perso il vostro tempo, oltre che ad avermi
fatto perdere il mio».
Madame Fantine sparì nel buio del corridoio e ne riemerse
alcuni minuti dopo con una faccia talmente ridicola e sorpresa che Erik
non ebbe nemmeno voglia di infierire e farsi dare atto del suo piccolo
trionfo.
La donna non disse niente, gli fece cenno di seguirlo e lo
accompagnò nel corridoio, uno stretto ambiente in fondo al
quale si apriva una scalinata di marmo e sul quale affacciavano solo
due porte.
Il passaggio dallo sfavillio dell'ingresso al buio del corridoio
segnava davvero il punto di non ritorno, oltre il quale le maschere dei
signori ora raccolti nella sala forse cadevano una volta per tutte,
insieme ai vestiti delle ragazze.
Erik si costrinse a continuare a camminare verso la seconda porta,
quella più vicina alla scala.
«È qui, vi aspetta» sussurrò
Madame Fantine con la voce bassa e cauta che si usa quando si parla in
una chiesa.
Erik bussò alla porta.
La stanza, elegante e ordinata, era tappezzata di azzurro. Sulla parete
a sinistra era disposto gran parte del mobilio, un armadio, uno
scaffale con – incredibile a dirsi – diverse decine
di libri e un tavolino da toeletta. Sulla parete di destra c'era un
piccolo scrittoio, una chaise longue di velluto blu e un paravento con
i pannelli di tela a righe colorate.
Erik si sentì terribilmente estraneo, un intruso in un mondo
che non gli apparteneva, che gli sembrava quasi di violare.
Lucia era seduta davanti allo specchio, si alzò appena lo
vide entrare e restò a fissarlo con uno strano sorriso.
«Buonasera, signore» gli disse. «Non
credevo sareste venuto».
Erik notò il suo sorrisetto indecifrabile e
arricciò le labbra.
«Non capisco se la cosa vi diverta o vi arrechi
disturbo» ammise ritrovando tutto il suo temperamento algido
e distaccato.
«Nessuna delle due, potete credermi». C'era una
strana, soave dolcezza nel tono che aveva assunto la voce della
ragazza. «Ad ogni modo, potete venire avanti, il tappeto non
vi morderà, ve lo prometto».
Alla fine fu lei ad avvicinarsi e allungò una mano verso di
lui. Erik fissò quella mano con un'espressione che doveva
davvero sembrare ostile.
«Voglio solo aiutarvi a togliere la giacca»
sospirò infatti Lucia. «Non mi sembrate
particolarmente avvezzo a questo genere di cose».
Sentì una morsa allo stomaco, non quella sensazione
sgradevole di agitazione che provava con Graziana, né il
fastidio che sentiva quando si trovava da solo a dover parlare con
altre persone, ma non gli piacque comunque... non gli piaceva la voce
che nella sua testa rideva di lui e che gli intimava di lasciar cadere
anche le sue maschere. No, non la maschera che portava sul viso, ma le
altre, tutte le altre...
Erik dovette fare uno sforzo immane per mettere insieme quelle parole,
ma la consapevolezze delle cose in comune che sapeva di avere con la
ragazza gli aveva fatto capire in quel momento che non avrebbe potuto
nasconderle certe cose. E poi, lei era abituata a trattare con gli
uomini, avrebbe certamente capito anche se lui non glielo avesse
detto...
«Se vi dicessi che non sono
affatto avvezzo a
questo genere di cose?» disse.
Lucia ristette, poi scrollò le spalle come se fosse davvero
una cosa di poco conto. Erik sentì lo stomaco fare una
capriola.
«Direi che rende la cosa solo più
interessante» concluse lei.
L'uomo ebbe uno scatto, una scintilla dell'antica furia gli
attraversò il cervello e si ritrovò a muoversi
verso di lei e afferrarle il braccio in una presa salda e violenta.
«Vi prendete gioco di me?!».
Ecco... lo sapeva, lo sapeva che era stato un errore. Come aveva anche
solo potuto pensare di gestire una simile situazione? Come aveva potuto
pensare che i fantasmi non avrebbero approfittato di ogni sua minima
debolezza per uscire allo scoperto?
Ma se la voce dei fantasmi aveva tuonato tra quelle quattro pareti,
Lucia non sembrava averci fatto caso. La ragazza si limitò
ad appoggiare una mano su quella di Erik e scostargliela via con un
gesto deciso, poi semplicemente gli sfilò la giacca e la
andò a sistemare con cura sulla spalliera della sedia.
«Dicono che noi puttane siamo meravigliosamente capaci di
mentire con gli uomini» disse lei, senza che la sua voce
perdesse un solo grammo della dolcezza di un minuto prima.
«Per quel che mi riguarda, non dico menzogne agli uomini che
non vogliono sentirne. Se non volete menzogne da me vi assicuro che non
ne avrete».
«A volte ho la sensazione che non si possa stare al mondo
senza ricorrere alle menzogne» replicò Erik torvo.
«Signore mio! Questo non è il mondo, questa stanza
è come un confessionale» borbottò Lucia
con una punta di sarcasmo. «È per questo che
ritengo che dovreste fidarvi di me, fintanto che siamo qui
dentro».
Il suono confidenziale e ironico di quelle parole fece sentire Erik
vagamente meno inquieto.
«Tutto ciò ha un che di minaccioso,
signora» rispose con un mezzo sorriso.
«Sciocchezze. Non avreste potuto incontrare persona meno
pericolosa di me».
E tu non avresti potuto
incontrare uomo più pericoloso di me, ragazza...
«Ad ogni modo, mi dicono che in teatro quasi nessuno conosce
il vostro nome» aggiunse Lucia. «Volete dirlo a
me?».
«Se proprio occorre... potete chiamarmi Erik».
«Siete ancora sulla porta, Erik».
L'uomo non se ne era accorto. Si maledisse per quanto doveva esserle
sembrato ridicolo e fece qualche passo verso il centro della stanza,
guardandosi attorno e indugiando a fissare l'ampio letto dall'alta
testata di ciliegio. Faceva dannatamente freddo in quella stanza, anche
se fuori di lì la primavera era già esplosa in un
susseguirsi di giornate miti e soleggiate e le sere erano scompigliate
dal soffio tiepido dello scirocco.
«Volete concedermi un minuto?» chiese Lucia.
«Confesso che non ero preparata al vostro arrivo. Voi intanto
sedete».
«Prendete tutto il tempo che vi occorre» concesse
lui, avvicinandosi alla libreria e scrutando curioso i titoli dei
volumi posati sugli scaffali.
Lucia sparì dietro al paravento, dal lato opposto della
stanza. Erik sentì il rumore della stoffa del vestito
scivolare via, e la tensione gli fece quasi provare un conato di
vomito. Tornò a guardare i libri; pensare a quegli oggetti
almeno lo distraeva.
I volumi erano tutti in italiano, molti di quei titoli li aveva solo
sentiti nominare. Erano tutti romanzi, certo Lucia non doveva essere
una conoscitrice di scienza e filosofia, ma il fatto che leggesse e che
si esprimesse in un modo così corretto la faceva sembrare di
certo un gradino al di sopra delle altre ragazze nella sua stessa
condizione.
«Volete che faccia portare qualcosa da bere?»
chiese la giovane da dietro al paravento.
«Non per me, vi ringrazio»
«Ah, signore, non avete vizi? Allora è vero
ciò che si dice, che vivete solo per la musica».
Se solo tu sapessi,
ragazza. Se solo tu sapessi...
Lucia riemerse da dietro al paravento. Si era tolta il vestito, portava
una camicia da notte di lino bianco e sopra una vestaglia di spesso
cotone allacciata in vita.
Erik la osservò venire verso di lui. Era certamente
graziosa, di quella bellezza semplice e fresca delle giovani donne,
ingentilita maggiormente da quei suoi modi composti, ma il suo aspetto
non aveva niente di particolarmente straordinario, non era tanto
più bella di altre giovani della sua età, di
certo non era più bella di Graziana. L'uomo si
ritrovò a chiedersi cosa l'avesse resa la prostituta
più popolare di Napoli quando era evidente che non era
l'aspetto il suo maggior pregio.
Lucia lo guardò per qualche secondo, sembrava un po'
impensierita e forse si stava chiedendo che cosa fare.
«Dunque, rammentatemi quali sono le condizioni» gli
disse poi.
«Ce n'è una sola, e la conoscete
già» rispose Erik. Non le avrebbe chiesto niente
se non di non togliergli la maschera, ed era certo che lei non sarebbe
venuta meno a quest'unico desiderio, dopotutto, come aveva detto, aveva
anche lei qualcosa che non voleva che le venisse tolta.
«Ditemi piuttosto quali sono le vostre».
Lucia sorrise tranquilla,
«Spero vorrete essere così gentile da lasciare la
mia camicia da notte esattamente dove si trova, lì ad
altezza delle spalle» concluse.
Alla fine, si voltò con noncuranza e si diresse verso il
letto, si mise a sedere con la schiena contro la spalliera, cingendo le
gambe con le braccia.
«Venite qui, non mordo, proprio come il mio
tappeto» aggiunse, battendo una mano sul posto vuoto accanto
a sé.
Erik si andò a sedere nell'angolo opposto del materasso e la
fissò. All'improvviso Lucia sorrise in un modo strano, fu il
sorriso più tenero che lui avesse mai visto sul viso di una
donna... un sorriso che sarebbe potuto comparire solo sul viso di una
donna perché era un sorriso di una madre, di una sorella e
di un'amante nello stesso tempo.
«Parlatemi» gli disse con voce tranquilla.
«Parlatemi della Francia...».
*
Il sole entrava timido dalla finestra alla destra del letto. Erik
aprì gli occhi e considerò che doveva essere da
poco sorta l'alba, non era troppo in ritardo per la sua passeggiata in
riva al mare ma non riusciva a muoversi. Non sapeva se era bene
svegliare la ragazza o semplicemente sgattaiolare via prima che lei si
destasse. Probabilmente per lei non avrebbe fatto molta differenza, ma
l'uomo era quasi certo che se si fosse mosso l'avrebbe svegliata e
sentiva su di sé tutto il goffo imbarazzo di chi non
è abituato a dividere il letto con un'altra persona, motivo
per il quale si era ritrovato a dormire nell'angolo di materasso
più distante possibile da lei.
Voltò piano la testa a spiare Lucia stesa su un fianco,
girata nella sua direzione. Dormiva così tranquillamente che
Erik si chiese se quella giovane donna non fosse abituata ai fantasmi
più di quanto lui potesse immaginare. Dovevano esserne
passati tanti in quella camera evidentemente, i fantasmi che ogni uomo
si porta dentro, forse meno tremendi dei suoi, ma comunque capaci di
urlare e dibattersi nel tentativo di soffiare il loro gelo sopra il
calore di un abbraccio, di una carezza, di un bacio...
Perché lei lo aveva baciato. Il ricordo più
nitido della sera precedente era proprio quel primo bacio tenero,
paziente, quasi discreto per un contatto così intimo. A
dirla tutta, ogni singola azione della ragazza era stata permeata di
tenerezza e pazienza ed Erik aveva sempre immaginato che era
così che dovessero essere le donne nel profondo, tutte le
donne.
Lucia scivolò piano di lato, finendo stesa supina con il
viso che affondava nei cuscini. La camicia da notte si
scostò appena rivelando una linea scura e irregolare sulla
pelle della spalla sinistra, il segno di un'ustione chissà
quanto profonda, chissà quanto estesa. Erik non lo voleva
sapere, non avrebbe dovuto vedere, faceva parte del patto. Con estrema
delicatezza, prendendo con due dita il bordo della veste,
ricoprì la spalla scoperta e sospirò.
D'accordo, doveva andarsene da lì. Doveva...
«Buongiorno».
La voce di Lucia era impastata dal sonno, per poco non lo fece cadere
dal letto. La ragazza si voltò tirandosi le coperte fin
sotto al mento e gli lanciò uno sguardo ancora annebbiato.
«È usanza comune rispondere a un saluto»
lo informò sarcastica.
«Scusate... buongiorno» borbottò lui.
«Va già meglio». Lo guardò
ancora qualche istante, poi sorrise in quel suo modo assolutamente
indecifrabile che faceva contorcere lo stomaco di Erik come uno
straccio. «Andrebbe notevolmente meglio se non aveste
quell'espressione smarrita».
«Non mi siete di aiuto se vi burlate di me»
«Invece credo che se foste un po' meno serio e severo con voi
stesso vi aiutereste benissimo».
Erik non rispose, Lucia gli lanciò un ultimo sorriso e si
alzò dal letto recuperando la sua vestaglia. Lui non era in
animo di mostrarsi bellicoso con quella ragazza, non dopo che le aveva
lasciato abbattere quasi tutte le sue difese. Che poi, non è
che glielo avesse lasciato fare, era semplicemente successo e lui non
era stato in grado di opporsi. Tuttavia, non gli sembrava tollerabile
il fatto che lei ora fosse così sfacciata; non aveva bisogno
dei suoi consigli.
L'uomo osservò per qualche secondo la ragazza che si muoveva
per la stanza, raggiungeva lo specchio e si pettinava i capelli.
C'era un che di assurdo in quella situazione e cominciava a maledirsi
per l'essere rimasto lì a dormire. Non aveva intenzione di
farlo, ma aveva semplicemente preso sonno senza accorgersene, non si
era mia sentito così stanco.
Notò i suoi vestiti piegati ordinatamente sulla seduta della
sedia accanto alla finestra. Si era svegliata nel cuore della notte e
li aveva piegati lei?
Lucia si voltò a guardarlo.
«Dunque, vi lascio solo. Dietro al paravento troverete tutto
quello che vi serve» disse, poi gli si avvicinò e
gli depose un bacio sulla tempia sinistra lasciata scoperta dalla
maschera.
Non attese risposta, perché probabilmente sapeva che non ce
ne sarebbe stata una e lasciò la stanza.
Una volta uscito dalla palazzina, Erik trovò ad accoglierlo
il silenzioso vuoto della piazza. La locanda Notte 'e vierno era
chiusa, sedie spaiate erano appoggiate alla rovescia sul tavolo e gli
unici rumori che arrivavano ovattati e distanti erano quelli degli
scuri delle finestre che venivano aperti e dei portoni che si
richiudevano alle spalle di chi usciva per andare a lavoro.
Affrontare Madame Fantine all'uscita era stato quasi penoso, quella
donna lo guardava con aria vagamente indispettita. Forse non era
abituata a non essere messa al corrente di cosa sceglievano di fare le
ragazze della sua casa. Era stato penoso anche pagarla per la notte
trascorsa lì, era una cosa che andava contro ogni suo
principio... o almeno così era stato, una volta. Ma appena
si era chiuso il portone della palazzina dietro di lui, Erik aveva
avuto la sensazione che ogni cosa fosse tornata al suo posto.
Aveva camminato tranquillo fino al lungomare e si era poggiato alla
grossa ringhiera che costeggiava la strada.
Il mare era calmo, piatto come una tavola, e faceva da specchio alle
forme delle rade nuvole che si rincorrevano nel cielo scintillante di
azzurro. Il rumore delle onde era appena percettibile, ma ben presto,
quel suono lieve coprì ogni altro suono, ogni rumore della
città che alle sue spalle cominciava a mettersi in moto,
diventando quasi ipnotico e facendo riaffiorare nella mente di Erik i
ricordi della sera precedente.
Respiri... respiri che
si inseguono in una corsa sempre più frenetica. Per lunghi
secondi non c'è nient'altro. Il bisogno d'aria si fa
così pressante che copre tutto, anche i brividi che salgono
improvvisi, anche quelle ondate piacevoli che sono quasi fitte di
dolore.
Il mondo è un
rettangolo di luci fatue fuori dalla finestra, stelle e lampioni che si
fanno concorrenza, molto lontano da lì.
Nei pensieri dell'uomo
all'improvviso c'è solo il rumore di vetri rotti. Poi tutto
precipita e c'è di nuovo solo respiro. E lei gliene porta
via un pezzo, posando le labbra sulle sue. La sente sorridere contro la
sua bocca. Sente tutti i sorrisi che non ha mai avuto in quel caos di
sensazioni nuove, e lui si sente in bilico tra la tenerezza e la
violenza, serra un lembo di lenzuolo tra le dita e si china a cercare
ancora le sue labbra soltanto per sentire se c'è ancora il
sorriso su di loro. E si sente così alla deriva,
così arreso mentre il freddo della stanza si infrange come
un'onda contro la sua pelle nuda... arreso più a se stesso
che a lei.
Ed è
esattamente come deve essere, è solo umanità
nella sua forma più giusta e lui di giustizia ne sa
così poco, e forse è per questo che gli viene da
chiedersi come mai, dopotutto, fa così male.
La ragazza scioglie
l'abbraccio, ora le sue mani affondano tra i cuscini e i suoi occhi
sono aperti, due pozze nere. Forse è per questo che fa
male... o forse c'è luce lì in fondo, da qualche
parte...
Certo che c'è
luce! Una luce che esplode e poi si spegne sulla punta delle dita tese
ad afferrarla. Nella sua scia luminosa restano solo respiri spezzati
che tentano di tornare regolari.
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Avviso:
La prossima settimana non ci sarà
l'aggiornamento perché, cause di forza maggiore, quasi
sicuramente sarò senza computer. Anche per la settimana
ancora successiva non prometto niente, ma per la fine del mese dovrei
riprendere ad aggiornare regolarmente.
Intanto, spero che il capitolo non vi abbia fatto venire il diabete
e ne approfitto
per augurare una buona Pasqua a chiunque passi di qui in questi giorni.
... your obidient
servant.