barbara
Barbara
Via del Campo, una stradina
stretta e tortuosa nel cuore di
Genova, appartiene a quella rete di vicoli dove mai e poi mai puoi
incontrare
la Gente.
Con
Gente mi riferisco agli altolocati, agli aristocratici,
e a tutti coloro che storcono il naso e voltano la vista quando uno
straccione
pulcioso qualunque gli passa accanto.
Loro ignorano e vanno oltre,
guidano le loro autovetture e
la mattina, appena svegli, fanno colazione sfogliando un quotidiano con
gli
amici.
A loro il pane non manca mai,
hanno domestiche in divisa che
svolgono ogni sorta di servizio, mentre le loro mogli, bellissime dame
ricoperte d’oro e di vestiti all’ultima moda, li
accompagnano per le strade,
nei teatri e nei più suntuosi ristoranti con quel sorriso
meraviglioso e
perenne stampato sul volto.
E perché mai
dovrebbero confondersi con noi, la Gentaglia?
Quelli che tirano avanti giorno
per giorno, che mangiano
pane duro e raccolgono le molliche sotto il tavolo, quelli che dormono
il più
stretti possibile, non per affetto, né per amore, ma per il
freddo che ogni
notte entra nelle ossa e fa tremare i cuori.
Ogni figlio che arriva porta
nuove braccia per lavorare, e
se la povertà cresce oltre, diviene anch’esso una
maledizione.
E questa è la
Gentaglia, vestita di stracci e miseria, che
si sente a suo agio solo dove il sole non batte, dove l’aria
è spessa e carica
d’odori.
Ed io ne faccio parte, con i
miei sedici anni e gli occhi
già troppo stanchi, di una vita ricca di dolore, perdita e
povertà.
Provengo da una famiglia umile
e quel poco che resta di essa
siamo mia madre e me.
Viviamo alla giornata, tirando
avanti con poco di quello che
riesco a racimolare, il resto serve per le medicine. Mia madre si
ammalò poco
dopo la morte di mio padre, ha bisogno di cure e di affetto, eppure
nemmeno
quelli riescono a bloccare o arrestare l’avanzare della
malattia.
Così a dodici anni
ho dovuto porre fine all’età dei giochi,
dove è permesso perfino
sognare.
Ho abbandonato Nancy, la mia
bambola di pezza e ho smesso di
andare a scuola.
Sulle mie spalle da bambina, da
allora, grava la
responsabilità della mia famiglia.
Prima della morte di mio padre
non ho mai conosciuto cosa
realmente fosse la miseria, non abbiamo mai navigato nell’oro -certo- eppure lui
spezzandosi la vecchia schiena
da muratore ci ha sempre garantito un tetto sopra la testa, il pane in
tavola e
nelle giornate di festa un po’ di manzo di seconda scelta con
un po’ di vino
annacquato. Mi sono sempre vestita degli stracci usati di mia sorella,
ogni
buco ed ogni macchia sono segni indelebili degli anni trascorsi. A
dieci anni
ricevetti da Emilia, mia sorella più grande, una camicetta
blu. Qualche giorno
dopo si sposò e da allora la vidi sempre più
raramente, quando ci veniva a
trovare, fra un turno e l’altro in lavanderia. Mi
raccontò con un certo rossore
sulle guance che quella stessa camicetta blu fu testimone del suo primo
bacio,
dato al figlio della lavandaia che dopo pochi anni chiese la sua mano a
nostro
padre.
Ricordo la mia invidia, lei
felice e innamorata aveva
coronato il suo sogno d’amore, e sposandosi con
l’uomo che amava si era
conquistata la libertà, lasciandosi dietro quella casa
piccola e ammuffita.
Quanto mi sbagliavo.
Ma come biasimarmi, ero solo
una bimba ignara del mondo fuori
quelle quattro mura che mi avevano visto nascere e crescere.
Cosa ne sapevo degli stenti e
delle fatiche necessari a
tirare avanti una famiglia?Dei debiti, del lavoro, della miseria?
Neanche per Emilia è
una vita facile, passa le ore fra il
lavoro e le cure domestiche, passava a trovarci ogni fine mese per
contribuire,
con quel poco che riusciva a mettere da parte per se stessa, alle cure
mediche
per la mamma. Ma si tratta ormai di qualche anno fa.
Iniziò pian piano a
stancarsi della situazione, insistette
per rinchiudere nostra madre in un centro anziani statale credendo che
ciò avrebbe
reso migliori le vite di tutte e tre.
Ma io non volevo, ho sempre
saputo che dietro quella
facciata da donna vissuta, appassita, stanca e apatica, c’era
ancora quella
dolce e meravigliosa creatura che mi aveva sempre donato tutto
l’amore di cui
era capace.
Sapevo anche cosa si dice di
quei centri, dove gli anziani
vivono affollati e abbandonati, dove vengono fatti morire di fame,
umiliati e
derisi. Conosco persone rinchiuse la dentro e morte dopo pochi mesi.
Forse ciò che sento
dire di questi luoghi sono sciocche
dicerie, forse quelle persone erano ormai senza speranza, eppure ho
considero
il dubbio e ho tenuto mia madre stretta.
Con quale cuore avrei potuto
abbandonarla?
Emilia e suo marito, Piero,
minacciarono di non aiutarci più
e dopo qualche tempo ci abbandonarono a noi stesse. Ma come biasimarli?
Fra il bambino che stava per
nascere e i debiti per mettere
su casa erano con l’acqua al collo, e di conseguenza io e mia
madre eravamo
l’ultimo dei loro pensieri.
Avevo solo quattordici anni e
più nessun appoggio esterno al
nostro piccolo dramma familiare.
Ho dovuto rimboccarmi le
maniche, ma nessun lavoretto poteva
permettermi di sostenere me e mia madre, né potevo
affaccendarmi tutto il
giorno lasciandola sola.
Così ho seppellito
la bambina casta, pura e piena di sogni
in un angolino remoto del mio essere, e ho fatto l’unica cosa
che mi avrebbe
consentito di tirare avanti nella mia situazione.
Non ho scelto chi diventare, ma
ho dovuto esserlo per colpa
di un destino ingiusto e crudele.
Avrei iniziato a vergognarmi di
me stessa, ad abbassare gli
occhi di fronte a qualsiasi altro pezzente incontrato per strada e
disonorato
il mio nome.
E cosa peggiore, non avrei mai
conosciuto il vero amore, chi
avrebbe perso più del tempo dovuto con una donnaccia? Non
avrei, forse, mai
conosciuto quel nobile sentimento puro e sincero di cui mia sorella mi
aveva
tanto parlato.
Dovetti così vendere
il mio corpo, divenire poco più di un
oggetto.
Ma
cos’altro potevo fare?
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