CONFETTI
A COLAZIONE
Era
il 1940 e la pioggia
ticchettava rumorosa contro il vetro della mia camera, non vi era suono
più
dolce in quel momento, nessun rimbombo in lontananza, solo quella
melodia
regolare che accompagnava il mio dormiveglia. Quella, come anche tutte
le altre
notti passate a vegliare il cielo attraverso una finestra, non era una
semplice
notte, era l’ultima. L’indomani avremo dovuto
lasciare l’albergo e partire alla
volta di Berlino.
Quando
mia madre mi svegliò il
mattino seguente, il sole era già alto nel cielo ed i suoi
raggi invadevano il
mio letto in una sorta di danza esortativa per farmi alzare. Mi misi
seduta sul
letto, mentre mia madre usciva dalla stanza raccomandandomi di scendere
al più
presto per la colazione nella sala grande dell’albergo.
Osservavo i miei piedini
ciondolare nel vuoto e lontano il pavimento di legno con occhi
minacciosi
cercava di attirarmi a sé, non volevo partire.
Il
nostro viaggio fino a Berlino
fu accompagnato dallo sbuffare del treno che con un leggero ritardo
arrivò
nella stazione di quella grande città, non vi ero mai stata
prima di quella
volta.
Mi
ricordo una cosa in maniera
vivida, anche se mio padre mi rimproverò la mia malsana
immaginazione, ma io
vidi degli spettri, erano come ombre di ragazzi e ragazze che vagavano
all’interno della stazione in cerca di un posto tranquillo
dove stare. Alcuni
di loro erano poco più che adolescenti. Uno di questi
spettri venne verso di
me, io sussultai leggermente, ma tanto bastò ad attirare
l’attenzione dei miei genitori
che mi guardavano incuriositi. Mio padre fu quello che mi sorprese di
più, tirò
fuori dal taschino del suo spolverino dei foglietti e
cominciò a fare delle
annotazione che ai miei occhi parvero casuali, come se stesse scrivendo
un
elenco della spesa, senza pensarci troppo su.
Lo
spettro aveva un nome che ora
non riesco a ricordare ma lo so perché lo sentì
nella mia testa, era una
sensazione strana, la mia mente sembrava essere aperta e recettiva di
tutti gli
stimoli di quell’ambiente. Era l’ombra o meglio
l’anima di una bambina con le
guance paffute e un sorriso angelico, se non fosse stata una torbida
visione le
avrei chiesto di giocare con me con le bambole, era una bambina che
ispirava
fiducia. Il suo sguardo si posò su di me e poi lentamente si
voltò verso i miei
genitori e il suo volto si trasformò, diventò
cattivo, contorto dalla rabbia e
da una sorta di risentimento. Risuonò nella mia testa in
quel momento un ”non
ti fidare” appena sussurrato, una comunicazione di quel
flebile spirito o la
mia fervida immaginazione non saprei dirlo, ma quello fu
l’ultimo istante della
sua presenza davanti a me prima di fluttuare lontano, uscendo
lateralmente
dalla stazione.
Sono
passati molti anni da
quell’avventura nella stazione di Berlino, ora sono una donna
e mi ciondolo davanti
ad un noioso programma Tv di intrattenimento per famiglie aspettando di
vedere
le notizie del giorno. Non me sono più andata da Berlino, ed
ora è il 1977, ne
è passato di tempo dalla prima volta che ho messo piedi in
questa città con la
mia famiglia. I miei genitori non ci sono più, la guerra li
ha portati via con
sé, ho poche informazioni sulla loro morte. Un ufficiale
dell’esercito tedesco
che si ferì ad una gamba appena all’inizio della
guerra mi disse che aveva
conosciuto mio padre nel reparto sanitario di un caserma a est di
Berlino, non
era un dottore ma un chimico, stava facendo esperimenti su pazienti
oramai
inabili al servizio come lui. Gli faceva prendere degli strani confetti
colorati e poi annotava gli effetti che producevano sugli individui
scelti come
lui. Mi raccontò che aveva delle allucinazioni ogni volta
che ne assumeva una
dose per le seguenti 3 o 5 ore, dipendeva se era a stomaco pieno o
meno. Mi
disse che un giorno aveva visto degli spettri anche lui, ma di animali
e uomini
deformi che si aggiravano su un terreno brullo e desolato dopo una
forte
esplosione. Era convinto di aver visto il futuro perché poi
ci fu la bomba
atomica di Hiroshima e le scene che erano le stesse delle sue
allucinazioni.
Sicuramente ne aveva mangiati troppi di quei confetti, più
di me. Si perché mio
padre ne aveva dati anche a me quel giorno a colazione prima di
prendere il
treno per Berlino, tutti i nodi tornavano al pettine, per questo non ho
più
pensato a quegli spettri e a quella ragazzina dal volto angelico che ho
sempre
sperato di rincontrare. L’ufficiale concluse la sua visita
nel collegio dove
ero stata costretta a vivere dicendomi che gli studi di mio padre
avrebbero
portato alla creazione di potenti droghe da impiegare in guerra e per
questo
era stato giustiziato e mia madre come sua complice ugualmente
processata e
condannata.
A
distanza di anni penso spesso a
quegli spiriti spauriti nella stazione e vorrei poter avere di nuovo il
mio
confetto colorato a colazione per poter parlare con lei, ma
è un illusione, un
artificio, non è una realtà come io credevo. Il
tempo aiuterà a dimenticare. Il
mio flusso di pensieri si interrompe repentinamente per
l’inizio del
telegiornale, la sigla di apertura risuona nella stanza ed io mi
concentro sul piccolo
schermo.
Penso
che siano solo pochi attimi
e poi la vedo, è Lei, la bambina dal volto angelico appare
sullo schermo, è
morta ieri sera e le cause sono ancora da accertare. Si vocifera sia a
causa
della droga che riempie ogni anfratto della città ma non
è importante, l’ho
ritrovata, è reale come nei miei sogni.
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