Quello che gli occhi non vedono
QUELLO
CHE GLI OCCHI NON VEDONO.
Vorrei
parlarti
di un amore, un amore un po’ strampalato per noi pazzi
sognatori.
Vorrei
parlarti di un amore, un amore che di
fine non ne ha.
Vorrei
parlarti di un amore, un amore un po’
strano sorella,
stringi
la mia mano e ascolta le parole di chi,
ora,
scrive con l’anima tra le dita.
Dita
che parlano, mani frenetiche che vogliono
urlare al mondo il mielato sussurro dei pensieri più
nascosti. L'intensità di
uno sguardo, la luce di un viso, il tuo bellissimo sorriso.
Ammira
il volo delle farfalle sorella, quelle
che ora regalano un dolce tepore al nostro stomaco.
Vorrei
parlarti di un amore, un amore che va ben
oltre due labbra che combaciano.
Vorrei
parlarti di un amore, un amore un po'
strano in questa terra di stranieri.
Vorrei
parlarti di un amore, un amore che vive
invece di emozioni.
Vorrei
parlarti di un amore, un amore da cui è
difficile scappare.
Chi
vorrebbe far uscire dalla sua vita un pezzo
di felicità?
Chi
non vorrebbe esser cullato dalla dolce
sinfonia di milioni di cuori che ne formano uno?
Emozioni
che non si spiegano,
emozioni
che se toccano l’anima giusta vi
entrano e la sfregano dentro.
Urli
liberatori,
urli
in questa stanza vuota piena di essi, mani
che percepiscono il freddo metallo di una triad.
Tocchi
delicati che sfiorano le corde di una
chitarra e quelle del tuo cuore,
al
di là dell’eterna primavera che avviluppa la
loro appariscenza.
Pelle
rovente,
sguardi
invadenti,
è
questa
la
vita
degli
animi incoscienti.
Carezze
indiscrete,
voglie
bramose,
è
questa
la
sorte
degli
animi freddi.
Passioni
assetate,
mani
che stringono,
ma
il tratto di orizzonte
è
ancora
indistinto.
Cadono
i
petali,
appassiscono
i fiori,
è
tempo
che
la giovinezza
si
consumi nei luoghi.
1995,
autostrada di New Jersey. 9.00
p.m.
Piove forte.
Osservo le goccioline creare disegni irregolari sul finestrino della
macchina
del mio papà,
la pioggia mi mette sempre tristezza ed ho paura, perché
dopo arrivano sempre i
fulmini.
Preferisco di gran lunga il sole perché quando è
bel tempo
la mamma mi porta spesso a mangiare un gelato.
Mi raccomanda sempre di non esagerare, altrimenti mi viene male al
pancino.
Voglio tanto bene alla mia mamma e anche al mio papà.
Quando mi chiedono a chi voglia più bene non so cosa dire,
rimango in silenzio e rispondo loro che non lo so.
Mi hanno regalato la tartarughina che ora stringo nelle manine,
l’ho chiamata Francis ed è la mia migliore amica.
“Jessica, amore”
“Si, mamma?”
“Siamo quasi arrivati”
Sbuffo.
“Non voglio andare a casa dei vostri amici, sono
antipatici”
Incrocio le braccia e metto il broncio, cominciando ad osservare fuori.
Ride insieme al mio papà che mi guarda dallo specchietto
della macchina.
“Cucciola, ti prometto che domani andiamo al Luna Park, ma
stasera fai la
brava.”
“Va bene, mamma! Ma voglio lo zucchero filato rosa!”
Dico alzando le braccine, come sono felice!
Ridono di nuovo scambiandosi un bacio pieno di amore, ma subito dopo la
macchina ha
uno scossone.
“M-mamma?”
“Amore, amore della mamma!”
Un altro scossone, perché la macchina non smette di girare?
Comincio a
piangere, mamma ho paura, ho tanta paura. Che succede, papà?
Un forte stridio, delle urla, le urla dei miei genitori.
E poi il buio.
1998, spiaggia di Los Angeles. 5.30 p.m.
Pum
pum.
Pum pum.
Pum pum.
Dove sono?
Mamma? Papà?
Sento una voce, una bellissima voce.
Muovo le mie gambine ricoperte da una vestina di seta,
i morbidi boccoli biondi incorniciano
le guance velate di
un rosso pallido.
Pum pum.
Pum pum.
Pum pum.
Questa melodia, questo contorcersi di emozioni mi stanno rubando
battiti di
cuore, eppure non apro gli occhietti. Preferisco godermi il momento,
queste
note che creano un abbraccio perfetto sono molto meglio degli urli dei
miei
genitori e dei piatti che vanno a frantumarsi sul pavimento. Non
ricordo quando
mi sono addormentata.
“A simple fear to wash you away.
An open mind canceled it today”
Non fermarti.
“A silent song that’s in your words.
A different taste that’s in your mind”
Melodia, pura melodia.
Emozione,
pura emozione.
Chi sei? Da dove provieni? Sei un angelo forse, mamma mi parla sempre
degli
angeli.
Mi racconta sempre che papà è un angelo a cui
hanno spezzato le ali, ma sai una
cosa?
Quando me lo dice non mi guarda negli occhi, e se
c’è una cosa che la mia
mammina mi ha insegnato
è che una persona mente quando abbassa lo sguardo.
Una folata di vento dolce e profumata
accarezza i miei capelli ed aprendo gli occhi un sorriso prende vita
sul mio
viso.
La spiaggia di Los Angeles sembra quasi infinita,
la sabbia tiepida sfiora le parti di me che non sono coperte dalla
vestina.
Alzo il busto e porto le mani al cielo, dietro la testa.
Il
cielo.
Contenitore di sogni e promesse mai mantenute.
Distesa azzurra e mistica del mondo, dell’universo.
Regno dei disincantati che accoglie la Luna, il Sole, le stelle.
Pum pum.
Pum pum.
Pum pum.
Questa dannata melodia mi sta succhiando l’anima,
vorrei per sempre vivere in questa vita fatta di cose dannate.
“Marta? Marta?”
Un’altra voce, più lontana e quasi ultraterrena
sta urlando il mio nome.
Non l’ascolto, non voglio andarmene.
Preferisco rimanere qui ad ascoltare il mio angelo custode.
Preferisco asciugare le mie lacrime riempendo l’anima di lui
e non ascoltando
i miei genitori litigare tra di loro, sputare i loro pensieri
più infidi e
cattivi tra
le urla dei loro pensieri repressi nella notte.
Sono scappata di nuovo, questa volta non la passerò liscia,
ma ne vale la pena.
Volgo lo sguardo al mare.
Solo ora mi accorgo di quanto sia bello, questa canzone oscura la
bellezza
della natura del mondo, illuminando il mio cuore, facendo capolino come
l’arcobaleno dopo la tempesta.
Faccio forza alzandomi sulle gambine e mi avvicino alla battigia,
bagnandomi i
piedini.
“This is the life on mars.”
Questa è la vita su Marte.
Pum pum.
Pum pum.
Pum pum.
Se dovessi spiegare l’infinito di questa frase dovrei
prenderla e allargarne le
lettere.
Se dovessi spiegare l’effetto che mi sta provocando dovrei
strapparvi il cuore,
riempirlo d’amore.
Non so cosa mi stia succedendo, sembra quasi che una distesa di polvere
rossa
stia prendendo il sopravvento
sul paesaggio marittimo.
Una volta papà mi raccontò di Marte.
È
l’unico ricordo bello che ho di lui.
Comincio a camminare, il cuore detta la direzione mentre mi spoglio di
ogni mia
angustia, di ogni ferita incisa dalla delusione.
Decido di tornare indietro ma…
...
…
…
Il cuore si è fermato.
Quei capelli scuri e lunghi, illuminati dal caleidoscopio di colori che
gli regala
il sole al tramonto.
La curva perfetta tra la fronte e il nasino
all’insù, che lascia spazio a due
labbra sottili e semichiuse.
La chitarra stretta al petto nudo, il sorriso che mi sta rivolgendo.
Quanto vorrei reincarnarmi in quel sorriso, meraviglia del mondo.
Perché
il tuo sorriso si pianta nei meandri del cuore, nel profondo
della
schiena.
Un
sorriso che non è un sorriso, ma un sorriso soltanto,
prende
continuamente forma nei volti degli sconosciuti.
Eppure
solo il tuo mi rende felice, che sorridi anche nelle iridi
innocenti.
“Allora ti sei svegliata, finalmente! Pensavo che non volessi
più aprire gli
occhi”
Afferma con un risolino, guardandomi negli occhi.
Comincio ad osservarlo nelle sue gemme preziose,
negli zaffiri che hanno preso il posto delle iridi.
Non gli rispondo, non ho niente da dire.
…
Anzi, ci sarebbe una cosa in effetti.
Mi siedo accanto a lui, cingendogli un braccio con le mie piccoline.
“Grazie, signore”
Ride, ancora più forte.
“Signore?”
Rido anche io mostrandogli la linguaccia, ma dopo qualche secondo la
sua
espressione si indurisce
e i suoi occhi diventano più freddi del ghiaccio.
“Stavi piangendo”.
Non è una domanda, ma un’affermazione.
Rimaniamo alcuni minuti nella totale quiete,
il cantico dei gabbiani che riempie il silenzio.
“Sai”
Insinua.
“C’è posto”
“Posto? Dove?”
Lo guardo con aria interrogativa mentre con un pollice mi accarezza la
guancia.
“Su Marte”
Sorride,
offrendomi la mano. L’afferro di rimando.
Perché il tuo sorriso si pianta nei meandri del
cuore, nel profondo della
schiena.
Un
sorriso che non è un sorriso, ma un sorriso soltanto,
prende
continuamente forma nei volti degli sconosciuti.
Eppure
solo il tuo mi rende felice, che sorridi anche nelle iridi
innocenti.
…
…
…
“Marta?
Marta? Svegliati!”
…
…
…
Molti
anni dopo, Los
Angeles. 7.30 a.m.
“Marta?
ti prego svegliati, sono le 7 e mezza!”
– tutto quello che ricevette fu un cuscino che la
colpì in pieno petto e
qualche minaccia intonata da una voce impastata dal sonno.
Jessica
si avvicinò alla finestra e con un
sorrisetto malizioso stampato sul viso spalancò con fin
troppa foga le ante
bianche, affinché i caldi raggi del sole illuminassero per
bene la stanza
dell’amica. La luce creava un magnifico caleidoscopio di
colori sui capelli
miele di Marta, intenta a grugnire e a coprirsi gli occhi castani per
l’improvviso chiarore che le creava un fastidioso bruciore
alle iridi ancora
assonate, alcune lacrime incastrate tra le ciglia per i ricordi che a
volte
affioravano attraverso i sogni.
“Hai
due secondi per alzarti…1…” - nemmeno
il
tempo di terminare la conta che un mormorato ronfare si diffuse per
tutta la
camera, incrementando il nervosismo della giovane che, presa da uno dei
suoi
soliti attacchi di irritabilità, tolse le coperte di dosso
alla dormigliona che
non si accorse nemmeno del gesto della ragazza. Lei a sua volta si
strinse
nelle spalle continuando a russare e si voltò dando le
spalle alla coetanea.
“Ah, quindi dovrò riuscirci con le cattive
maniere”- cominciò a frugare
freneticamente nella borsa, un insieme disordinato di cianfrusaglie
varie che
ogni volta si prometteva di sistemare, e tra uno sbuffo e
l’altro ne fece
uscire un Ipod rigorosamente di ultima generazione. Si
assicurò indossando le
cuffiette di mettere la canzone giusta, e completata
l’operazione le
infilò con non poca noncuranza all’interno
delle orecchie di Marta,
avvicinandosi cautamente al letto per non inciampare in qualcosa.
Alzò al massimo il volume, tanto da poter sentire le note di
Attack e la voce
di Jared risuonare nell’aria.
“3…2…1..”
– “AHIA”. Gli scream funzionavano
sempre. Non poté trattenere una risata sentendo il tonfo
dell’amica caduta dal
letto. Si guardava attorno confusa e frastornata, completamente
intontita dal
sonno. Si accorse di Jessica piegata in due per il ridere e le
lanciò
un’occhiataccia assassina, puntandole un dito contro.
“TU” – insinuò . “Ma
un
modo decente per svegliarmi NO?” – Andò
incontro l’amica e cominciò a farle il
solletico, conscia della sensibilità di Jess. La
osservò ridere a crepapelle
mentre si faceva rossa in viso per l’aria mancante, decise
allora di staccarsi
sedendosi di nuovo sul letto con un sorrisetto beffardo stampato in
volto,
portando l’altra a braccetto con sé.
“No,
ti prego! Non riaddormentarti, devi andare
a lavoro cretina” -
Disse,
rialzandosi da terra e riacquistando un
colorito normale.
Marta
sbadigliò senza nemmeno mettersi la mano
davanti alla bocca, si passò una mano nei capelli
già abbastanza aggrovigliati.
La finezza fatta persona.
“Lo
so, lo so. Che palle, non mi va di star ad
ascoltare il capo-cameriere! Al posto della voce ha qualcosa che
somiglia di
più allo starnazzare di un’oca e le sue storielle
sulla propria giovinezza
hanno per me lo stesso interesse che provoca un comodino
dell’ Ikea” - affermò,
alzandosi e portando gli occhi al cielo. “Ti prego Marta, non
ricominciare!–
mormorò, ultimando la frase con una smorfia. “Dai,
dopo andiamo a mangiarci un
bel gelato” – esclamò con un sorriso.
Non ricevette risposta, i versi
d’approvazione dell’amica lasciavano trasparire la
decisione appena presa. “Sei
sempre la solita. Basta che vedi qualcosa da mangiare e potresti anche
andare
in capo al mondo per averla” – si portò
una mano sul fianco finché sentì i
passi dell’amica dirigersi nel bagno con la bava alla bocca.
“Cibo..” –
mugugnò, prima di chiudere la porta.
Erano
le 16 quando le due ragazze lasciarono il
loro nuovo appartamento di Los Angeles. Jessica indossava un pantalone
di lino
bianco e una maglietta verde acqua, mentre l’altra un
pantaloncino di jeans con
una maglietta a mezze maniche azzurra , ai piedi le converse
rigorosamente
dello stesso colore. Decisero
di uscire e
di andare nel grande parco giusto per fare due passi. Il sole, che
stava
raggiungendo la sua vetta più alta prima di mezzogiorno,
faceva capolino nel
cielo come l’arcobaleno dopo la tempesta. Il dolce vento
accarezzava i capelli
rossi di Jessica e quelli biondo miele di Marta, rubandone i pensieri
per
trasportarli in un mondo lontano, familiare, adagiandoli sulla terra
rossa di
Marte.
Ebbene si, al collo portavano due triad.
Si
conoscevano fin dall’asilo e dopo 20 anni, tra
litigi e risate, avevano rafforzato il
rapporto che le legava come non mai, riuscendo a creare quel filo
indissolubile
che univa i loro cuori e quelli di un milione di altre persone. Prima
di
entrare in quella rete di emozioni che si contorcevano creando una
danza
meravigliosa, non avevano mai provato l'incredibile sensazione di
stringere la
mano afferrando l'aria e non sentirsi per niente sole. Alle due piaceva
pensare
che quell'esile soffio di vento che sentivano tra le dita passasse sui
visi
degli altri Echelon, che quell'incredibile sensazione potevano provarla
solo
loro.
Ed era così.
I mars avevano salvato le loro vite, avevano dato loro una marcia in
più per la
realizzazione dei loro sogni. Avevano sempre visto la vita come un
estenuante
pista da corsa. Vi erano gli avversari da combattere, gli ostacoli da
superare
e quella sottile linea d’orizzonte che simboleggiava il
traguardo dei loro sogni.
Peccato che quest’ultima diventava sempre più
lontana, era tutto un circolo
vizioso, una lotta continua e complicata; ma loro erano sempre li, con
il
sorriso dipinto sul volto anche nei momenti più bui della
loro vita.
Chi erano gli altri per dire stop ai loro sogni?
Chi erano, se non persone ipocrite che non vedevano il mondo come lo
facevano
loro?
Avevano
raggiunto Marte, Marte aveva aperto loro
i cancelli.
Eppure, nonostante tutto l’amore che provavano per loro,
non avevano mai avuto la fortuna di incontrare i loro idoli, se idoli
si
potevano chiamare: la loro famiglia.
Solo Marta, tanti anni fa, aveva potuto provare la sensazione di un
battito
rubato conoscendo un angelo proveniente da Marte.
Solo una volta aveva avuto la possibilità di abbracciarlo,
di sentire il suo
profumo e di ascoltare la sua voce dal vivo.
Solo una volta lo aveva incontrato, e quella volta era bastata per
farle capire
che ormai non aveva più scampo.
Scampo dalla sua voce.
Dalla sua anima.
Dal suo cuore.
Da dolce e piccola bambina che era, mentre era in vacanza a Los
Angeles, lo
aveva stretto in un abbraccio.
Da allora il suo sogno più grande era quello di
rincontrarlo, poterlo vedere in
compagnia di Shannon e Tomo.
Ma era passato troppo tempo.
Ed
ora eccole qui, a Los Angeles, giovani, belle
e desiderose di vivere la vita al meglio.
Si stesero sull’erba verde e soffice , le fronde degli alberi
le riparavano dal
sole pomeridiano.
Marta cominciò ad osservare la volta celeste, era sempre
stato il suo colore
preferito.
Alzò le braccia in alto come quel pomeriggio del 1998 e le
portò dietro la
testa.
Sospirò, un sospiro di rimpianto, di tristezza.
Una lacrima scese dal viso perdendosi nell’infinito azzurro.
In quella lacrima vi erano Shannon, Tomo, Jared.
Vi era Marte.
Casa.
Jessica in quel momento le accarezzò una guancia con il
pollice, come fece lui.
“Stai piangendo” - disse, sentendole la pelle
umida. Anche questa non era una
domanda.
“E’ troppo tardi Jess! Da poco ci siamo trasferite
a Los Angeles ed è passato
troppo tempo dalla loro ultima…” – venne
interrotta dall’amica che rotolò verso
di lei e la strinse in un abbraccio.
“Mai perdere la speranza, Marta! L’hai sempre detto
anche tu” – sorrise
cercando di consolarla, ma in cuor suo anche lei stava soffrendo. Dopo
essersi
ritirati i 30 seconds to mars giravano per il mondo, girava voce che
solo
pochissime volte tornassero a casa. Le due ragazze non provenivano da
famiglie
molto benestanti e solo dopo tanti anni avevano finalmente racimolato i
soldi
necessari per trasferirsi nella città dei loro sogni.
Appena poteva la ragazza dai capelli biondi ritornava alla spiaggia in
compagnia della sua sua amica, il suo sguardo vagava da persona a
persona,
sconosciuti sul cui viso non si formavano dei sorrisi, ma dei sorrisi
soltanto.
Solo il suo, lo specchio della sua anima, si piantò nei
meandri del cuore e nel
profondo della schiena. Solo il suo sorriso la rendeva felice, che
sorrideva
anche nelle iridi innocenti. “Hai
ragione…”- sussurrò volgendo gli occhi
alla
ragazza. “Ti voglio bene, Jess” –
“Anche io, Marta. Tantissimo, e lo sai”.
Spiaggia
di Los
Angeles, un anno dopo.
La
sabbia sfiorava i
miei piedi nudi, il
rumore delle onde
fungeva da balsamo a quella che le persone chiamano malinconia. Avevo
la sua
foto tra la mano destra e il petto, la stringevo forte tra le mie dita
come se
volessi donarle vita propria.
Vorrei
conoscere il segreto della morte, ma
come? Un gufo dagli
occhi notturni
non può
svelare il mistero della luce,
perché cieco ad essa. In quel momento sentivo
il suo spirito che mi
abbracciava, mi attanagliava in una morsa fredda. Come il fiume e come
il mare,
come la notte e le stelle, la vita e la morte sono una cosa sola. La
mia anima
non aveva più speranza, laddove giaceva al di là
si trovava la muta conoscenza
di ciò che è oltre la vita.
Cos’è
morire, se non stare nudi nel vento e
disciogliersi nel sole?
E
dare l'ultimo respiro, che cos'è se non
liberarlo dal suo flusso inquieto, affinché possa involarsi
finalmente e spaziare
disancorato alla ricerca della pace eterna? Abbassai la testa, poggiai
la mia
fronte sulle ginocchia. Non so quante ore fossero trascorse, le lacrime
rigavano il mio viso e bruciavano la pelle come acido, come veleno che
scorreva
nelle vene e riempiva la mia anima di dolore.
Mi alzai, seppur faticosamente, da terra e decisi di avviarmi a casa.
Afferrai le
mie cose ma…
“Ahi” . “Oddio, mi scusi tanto signore!
Non volevo.. Io…”
Sconosciuto
pov.
Osservai
la ragazza dai capelli rossi, si guardava intorno
confusa.
“Di nulla, scusi lei. Osservavo il mare e non vedevo dove
stessi andando” –
risposi gentilmente e con un risolino. Le raccolsi la borsa e feci per
dargliela ma lei continuava a guardare fisso in un punto, come se non
esistessi. Fu allora che mi accorsi della triad e…del
bastone bianco che le era
caduto ai piedi.
Quella voce. La sua voce.
“Oh mio dio” – Non ci potevo credere.
Pum pum.
Pum pum.
Pum pum.
Sentivo il cuore battere forte, battere come il suo quel pomeriggio di
tantissimi anni fa.
Ce l’ho fatta, Marta. Ce l’abbiamo fatta. Come
vorrei che tu fossi qui con me,
ora.
Come lo vorrei amica mia. Mi è rimasta solo la tua foto, non
la posso vedere
ma la porto sempre con me. Maledetto sia il giorno in cui
quell’incidente in
macchina da piccola portò via la mia vista, dannato sia
quello in cui mi hanno
portato via te.
È morta, signorina. Ci
dispiace,
abbiamo
fatto il possibile.
Potevo sentire i suoi occhi scrutarmi, contemplare ogni mia singola
lacrima
scavasse il mio viso.
Potevo sentire il mio cuore urlare di gioia dopo così tanto
tempo.
Potevo sentire il sangue scorrermi nelle vene, sentirmi viva.
“Ma tu…” – annuì
intuendo immediatamente la sua domanda.
“Sai, J-Jared” – tentennai a pronunciare
il suo nome, a dargli del tu. Ma lo
sentivo così…Vicino.
“è frustante, tutto questo. A volte la gente ride
di me, mi prende in giro
davanti a tutti con gesti che non potrò mai vedere
né capire. Le persone sono
cattive, sono menefreghiste ma bisogna sempre andare avanti a testa
alta e lo
dico perché sono così vuote, non sanno quello che
ho passato e che sto
passando. Ma sai una cosa?” – continuai, non
essendo a conoscenza del reale
motivo per cui gli stessi dicendo quelle cose, “grazie a lei,
grazie a voi…
I-io…Mi sono sentita viva. Voi siete v-vita per me, non fa
niente se non potevo
contemplare tutto ciò che mi circondava, poter constatare
coi miei occhi la vostra
bellezza, perdermi nelle tue iridi per le quali il cielo prova invidia.
Mi bastava
poter sentire. Ascoltare voi.” Mi accarezzò la
guancia destra con il pollice,
rimase in silenzio. Prese le mie mani e persi un battito quando le
portò al suo
viso.
Sfiorai i suoi capelli, non sapevo di che colore fossero.
Erano morbidi al tatto ed emanavano un buon profumo. Scesi con le dita
fino alla
fronte, delle piccole rughette d’età segnavano il
suo viso. Delineai il suo
nasino all’insù, le sue labbra sottili, le braccia
e il petto che non tardai ad
avvolgere con le mie braccia. Ero a casa, ero su Marte.
Forse vi ero sempre stata. Con il tocco più delicato che
potesse esistere mi
sfiorò le mani, le stesse
che
avevano sfiorato il
suo bellissimo viso.
Mani che avevano stretto un mp3.
Mani gelose, frenetiche, che avevano sempre cercato nelle piccole cose
un
qualcosa che appartenesse a loro. Ed ora lo avevano trovato.
“Shhh, non piangere piccola mia.” - lo sentii
sorridere e darmi un tenero bacio
sulla fronte. “La riconosci?” – gli
mostrai la foto di Marta, la tenni in aria
finché non l’afferrò.
Autore
pov.
Eccome
se la riconobbe. A Jared venne un sussultò, le immagini di
una piccola bambina
dai riccioli biondi le riaffiorò nella mente. Era uguale, bella come in quel tramonto
del 1998.
Lo sapeva che era speciale, lo era come la ragazza dai capelli mogano a
cui
qualcuno aveva tolto la vista, ma aveva donato un grandissimo cuore.
Non chiese cosa fosse successo a Marta, e mentre sentì Tomo
e suo fratello
chiamarlo da lontano le prese di nuovo la mano, mentre con
l’altra si torturava
i capelli brizzolati, più grigi che neri.
“Sai”
Insinuò.
“C’è posto”
“Posto? Dove?”
Lo guardò con aria interrogativa mentre con un pollice le
accarezzava la
guancia.
“Su Marte”
Sorrise
offrendole la mano. L’afferrò di rimando.
“C’è
sempre posto”- disse
sorridendo, sperando che la ragazza dai capelli d’oro avesse
raccontato la
scena alla sua amica.
Jessica sorrise, era felice.
Poteva
quasi sentire lo spirito della fanciulla
trastullarle intorno, rideva con lei, era felice con lei.
“Marta, è sempre bello come una volta?”
– Chiese sussurrando tra se e se. Fu
allora che il vento le scosse dolcemente i capelli, che fu quasi certa
di aver
sentito tra il rumore delle onde un: “è mai
importato qualcosa, Jessica?”
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