Ognuno di noi è una luna:
ha
un lato oscuro che
non
mostra mai a nessuno
Il vecchio allungò una mano callosa e tremante verso i due
giovani dalla faccia dipinta. Afferrò il sacchetto di foglie e ritrasse subito
il braccio, senza nemmeno avere il coraggio di guardarli negli occhi: erano
elfi Dalish, conosceva le storie sul loro conto.
«Potresti almeno ringraziarci vecchio», proferì Teras, infastidito più dal
comportamento scostante dell’uomo che dal fatto di respirare la sua stessa
aria. Non odiava gli umani, almeno non più di quanto avrebbe odiato qualsiasi
altro essere che avesse osato lo stesso atteggiamento nei suoi confronti; non
più di quanto odiasse il fatto che la sua gente fosse stata schiava di un
popolo che li aveva sempre temuti.
L’uomo alzò gli occhi opachi su quelli neri e lucenti dell’elfo, due pezzi
d’ebano incastonati nel marmo di una pelle opalescente. Una creatura di un
altro mondo, nelle cui vene, probabilmente, scorreva lo stesso sangue che aveva
macchiato la spada dei suoi avi, durante la rivolta degli elfi.
Infatti, in un tempo non molto remoto, gli umani avevano ridotto in schiavitù
gli abitanti della natura, illuminati dal volere indifferente del loro
Creatore.
«Ci devi una ricompensa» annunciò all’improvviso l’altro Dalish, lasciando
l’impronta di un pugno sul bancone polveroso. Il vecchio tornò alla realtà.
Tamlen non aveva cattive intenzioni, ma era poco avvezzo alla cordialità con
gli umani: li odiava per tutto ciò che avevano fatto passare ai propri avi e
per tutto quello a cui ancora li costringevano, nonostante la conquistata
libertà.
I Dalish, infatti, vagavano nel regno come reietti, puniti per colpe che non
avevano commesso; se non quella di essere protagonisti delle più terribili
leggende. Erano continuamente in movimento, senza poter mettere radici nemmeno
nella propria terra: la foresta.
«Cosa volete?» domandò l’umano, nascondendosi dietro un nastro di luce
polverosa proveniente dalla finestra.
Tamlen fece scricchiolare il collo e gli si avvicinò, con un baleno di sfida
nello sguardo; afferrò il vecchio per la collottola ingiallita dal sudore, e,
alitandogli in faccia, proferì «Tu cosa daresti per aver salva la vita?»
Il vecchio strabuzzò gli occhi, mentre una goccia di sudore freddo gli
scivolava sul pomo irsuto; s’irrigidì al punto da mollare la presa sul
sacchetto, che gli cadde a terra.
Appena udito il tonfo sordo di quell’oggetto, Teras, fino a quel momento
rimasto indifferente, decise di intervenire. «Tamlen!», richiamò l’amico
poggiandogli una mano sulla spalla foderata di pelliccia. «Non siamo qui per
fomentare le dicerie sul nostro conto».
«Lo so, volevo solo mostrarmi per come ci vedono.» Sfoderò una smorfia in
direzione dell’umano che spinse contro lo scaffale alla sue spalle, urtando le
numerose ampolle di vetro e liquidi sconosciuti.
Teras non aggiunse altro al suo rimprovero, capiva fin troppo bene lo stato
d’animo dell’amico, ma, a differenza di quest’ultimo, riteneva più giusto
restare al proprio posto. I guerrieri Dalish hanno l’onere di difendere i
deboli; anche gli umani avrebbero difeso, se necessario. Tuttavia, se mai
avesse dovuto, lo avrebbe fatto in silenzio: non avrebbe giovato della
riconoscenza di chi, al contrario, lo avrebbe lasciato morire.
«Nel caso servissero altre radici elfiche, avete il permesso di chiedere»
concluse, raccogliendo da terra il sacchetto e porgendolo allo speziale, che a
stento si issò dal pavimento. «Andiamo Tamlen: è ora di tornare
all’accampamento».
«Grazie» balbettò il vecchio, ancora più tremante.
Tamlen rivolse all’umano l’ultima smorfia intimidatoria; si coprì il capo con
un gesto automatico e si gettò in strada, scontrandosi con la figlia dello
speziale appena apparsa sull’uscio.
«Padre!» La donna, dai capelli biondi raccolti in una crocchia di trecce,
poggiò lo sguardo preoccupato sull’elfo prima, sull’anziano poi, come a
interrogarlo silenziosamente riguardo la situazione: i Dalish non promettevano
mai nulla di buono.
«È tutto a posto, Giordie: sono qui per affari», la
informò l’uomo, conficcando le unghie ingiallite nel sacchetto.
«Ma state tremendo» riprese la giovane, attraversando la stanza per accorrere
in aiuto del genitore. «Se gli avete fatto del male, io…»
«No, figliola, non è successo nulla di grave.» Il vecchio si affrettò a
precisare, bloccando la frase sul nascere: la tensione era soffocante e sarebbe
stato da stupidi minacciare un Dalish i cui nervi erano stati già urtati.
Teras rivolse all’uomo un cenno di saluto, ignorando, invece, la nuova
arrivata; si coprì anch’esso il capo e raggiunse l’amico all’esterno della
bottega.
Lo trovò seduto su di una botte di legno, con il volto completamente oscurato
dal cappuccio, dondolando una piccola ampolla davanti alla faccia, sulla quale
formava delle strane ombre colorate.
«Dove l’hai presa quella?»
Il biondo scivolò dalla botte, fingendo di non aver sentito la sua domanda.
«Non mi piace non poter sentire il sole sul viso» disse invece.
Tra gli umani è necessario, pensò
Teras, ma tenne per sé la risposta: era scontato che fosse così. «Affrettiamoci
a tornare» asserì, anch’egli desideroso di sentire il bacio del sole sulla
propria pelle diafana e glabra.
I Dalish non erano mai i benvenuti tra gli umani; poiché dai tratti facilmente
riconoscibili, erano indotti a nascondersi sotto un mantello di pelle di lupo.
Almeno quelle poche volte in cui la Guardiana concedeva loro di avvicinarsi
alle città di pietra.
Si trattava per lo più di piccole commissioni, come consegnare radici, unguenti
o pellicce; giusto per quel tanto che bastava a mantenere buoni rapporti con
gli abitanti limitrofi. Era, tuttavia, un equilibrio precario: quella
cordialità forzata diventava sempre più difficile da mantenere, soprattutto tra
i giovani Dalish. I quali, manchevoli della saggezza degli anziani, erano
facili alle risse con l’altra razza, percependo nei loro occhi colorati
soltanto disprezzo, anziché terrore.
«Guardali,Teras; osserva la loro indifferenza al mondo che li circonda» disse
l’elfo dai capelli biondi, allargando le braccia con fare teatrale.
«Sono creature strane» osservò l’altro, pensando a quante persone potessero
abitare la case ai lati della strada; gli vennero in mente le laboriose
formiche, sempre intente a raccogliere il cibo,
ignare del mondo in cui vivevano.
«Solo strane? Sono rivoltanti » precisò Tamlen, spostando con la punta del
piede un ubriacone assonnato su una catasta di legna.
«Ognuno è libero di scegliere la vita che vuole», sentenziò Teras.
«Già, ma come può aver fatto un popolo così a ridurci in schiavitù? Voglio
dire: ci temono, inventano leggende sul nostro conto, influenzano anche la
nostra libertà!» continuò l’altro con enfasi, bloccando il passo davanti a una
locanda.
Teras lo affiancò, riflettendo un istante su quelle parole, dure quanto vere.
«Anche tu combatteresti ciò che temi» rispose conciso all’arringa dell’altro,
che poteva vedere soltanto di striscio, per colpa dei bordi del cappuccio.
«Quindi, se non ci avessero temuto, ci avrebbero lasciato stare?»
In quel momento un umano uscì dalla locanda barcollando, e un profumo
d’arrosto, proveniente dall'interno dello stabile, portò i due guerrieri al
silenzio.
«Sono stufo di aver la pancia vuota!» Esclamò Tamlen, dopo aver
assaporato avidamente quell’odore invitante . «E sono sicuro che quell’umano
potrà aiutarci, con i suoi pezzi di metallo!»
«Tamlen!», Teras lo afferrò per un braccio, avendo percepito la sua mala
intenzione.«Credi che sia giusto?» lo rimproverò.
«Che loro hanno tutto e noi niente?»
I due amici si guardarono in cagnesco.
Fu Tamlen il primo a distogliere lo sguardo: Teras non si riferiva a quello e lo
sapeva. Si liberò dalla sua presa e silente raggiunse la strada per la foresta.
Nessuno dei due parlò fino all’accampamento del clan.
Appena raggiunta la propria tenda, Teras sospirò sollevato: alla fine era
andata bene. Sfilò il mantello e si accasciò sul proprio giaciglio ma non per
stanchezza, semplicemente per riordinare le idee, nel caldo abraccio del
proprio silenzio.
I raggi del sole filtravano attraverso la stoffa fibrosa della piccola alcova,
creando un sipario di minuscole stelle sopra la sua testa. C’era odore di
muschio e di paglia, l’unico che potesse distendere i suoi nervi; il primo
sentito e forse anche l’ultimo, che gli avrebbe percorso le membra nel giorno
della sua morte.
Aveva conosciuto altri umani, oltre allo speziale; infatti era certo che, la
prossima volta, quel vecchio li avrebbe accolti più cordialmente. Gli altri che
avrebbe incontrato, però, avrebbero inscenato lo stesso teatrino: dapprima
impavidi e provocatori, poi, tremolanti come foglie d’autunno. Anche la figlia
dell’umano si era comportata così, ma aveva deciso di ignorarla: che credesse a
ciò che voleva! Detestava dover sempre, tutte le volte, tranquillizzarli sul
loro conto… E Tamlen aveva ragione, dannatamente
ragione! Come aveva fatto un popolo così inetto a comandarli per secoli?
Non c’era, inoltre, motivo per cui gli umani avessero tutto, o quasi. Un
Dalish, devoto ai propri dei non dovrebbe invidiare degli essere tanto lontani
da essa, eppure in cuor suo non poteva che chiedersi perché.
Condivideva l’ideologia della propria stirpe, come la devozione per le creature
del bosco e per gli alberi, ma talvolta la fame era davvero troppo grande da
sopportare; e chissà se gli uomini l’avevano mai sentita, la fame. Loro, a cui
bastava scambiare qualche moneta per evitare di mettere in pericolo la propria
vita nei boschi, per procacciarsi un pasto decente senza dover sentire in bocca
il sapore del proprio sangue.
Teras si strinse il volto tra le mani fino a farsi male: non doveva pensare
quelle cose, si vergognava di se stesso. In fondo, non era nemmeno tanto sicuro
che fossero vere.
Possibile che uno stomaco vuoto avesse il poter di far cedere la sua coscienza?
Nelle narici aveva ancora l’odore di quell’arrosto; aveva evitato che Tamlen si
macchiasse la coscienza per pochi pezzi d’argento, derubando quell’umano.
Tuttavia, se l’amico non l’avesse ascoltato, se non avesse preso la strada per
la foresta, lui avrebbe avuto la forza di farlo desistere di nuovo? Sì… forse.
La verità era che l’aveva fermato semplicemente per un blando ideale di
giustizia; blando, sì. Perché quell’odore invitante lo aveva chiamato a sé,
assopendo persino la sua ragione.
Il guerriero si addormentò, riempiendo la testa di tali pensieri.
«Non ho intenzione di dividere quel poco che abbiamo con un orecchie
piatte!»
«Tamlen! E’ un nostro fratello quanto te.»
«Fratello? Se così fosse, avrebbe i segni della natura. Sentite il suo odore:
puzza di umano.»
Teras si destò al suono vibrante di quelle parole iraconde. Non impiegò
molto a capire cosa stesse accadendo, così si precipitò all’esterno per calmare
l’irascibile compagno d’infanzia.
«Cosa sta succedendo?» chiese, alla volta degli elfi radunati intorno a un
focolare, strizzando gli occhi poiché ancora non abituati alla luce.
«Ma come, non senti il suo fetore?» asserì l’amico, ispirando l’aria
disgustato.
Era vero; i polmoni di Teras si impregnarono del profumo del fuoco, misto a un
disgustoso olezzo fin troppo familiare.
«Tieni a freno la lingua, Tamlen » lo richiamò uno degli altri, alzando
un pungo minaccioso.
«Altrimenti?» lo provocò il ragazzo, il quale fu bloccato, per la seconda volta
nell’arco di una giornata.
«Calmati, fratello.» L’amico lo reggeva per le spalle, con i suoi capelli in
bocca.
Tamlen lo guardò paonazzo e, avendo ormai perso la propria lucidità, si
divincolò malamente: era ingiusto! «A noi non è permesso andare liberamente
nelle città di pietra, eppure ad alcuni di noi è concesso di andare e venire,
giovando del meglio di entrambe le razze.»
Il discorso era riferito a Gad’esh,
l’orecchie piatte da poco giunto nel clan, oggetto di quell’ostinato diverbio.
Egli era cresciuto presso gli umani, ma nato da genitori elfi; i quali facevano
parte di quelli che avevano preferito stanziarsi in città, piuttosto che
onorare le proprie tradizioni, come i Dalish.
Tuttavia, non pochi erano i pentiti: molti “orecchie piatte”, elfi di città,
riconoscibili per l’assenza di tatuaggi, avevano ripercorso la strada delle
origini.
Teras ruotò incuriosito le pupille su Gad’esh.
Sembrava uno di loro. Appunto, sembrava: aveva addosso i segni del proprio
sangue spurio e nessun tatuaggio ad onorare gli dei, magari non aveva mai
nemmeno dovuto cacciare, avendo in città ciò che gli umani chiamavano “empori”.
E i suoi occhi non erano neri.
Tamlen approfittò dell’esitazione dell’amico per balzare addosso al nuovo
arrivato e in un attimo fu accerchiato dagli altri elfi, che giustamente
cercarono di sedare la rivolta. Uno contro quattro.
Due contro quattro. Teras si fiondò in aiuto del compagno: non era sicuro di
condividere le sue idee, ma lo avrebbe difeso ugualmente.
«Cosa ti eri messo in messo di fare?»
La Guardiana si piazzò di fronte a Tamlen, livida in volto. Indossava degli
abiti silvestri e i suoi capelli bianchi la rendevano molto più eterea che
vecchia.
Non approvava la violenza tra i suoi “figli”.
Il giovane fuggì il suo sguardo velato dalla saggezza degli anziani, e lo
abbassò sul pavimento di terra battuta. Tamlen abbaiava continuamente, ma alla
fine sapeva tornare al proprio posto.
«Sono davvero delusa, dal’en; dovresti professare il rispetto per tutte le
creature, non lasciarti avvelenare dal risentimento, soprattutto contro un tuo
fratello!»
I fumi delle cortecce, bruciate a mo’ d’incenso, formavano fili sottili e
densi, spezzandosi sul tetto della capanna di sterpi.
Il guerriero trovò in quell’incenso un balsamo per la propria ira.
«Vorrei che tu capissi che il clan ha già abbastanza problemi: non vorrei se ne
creassero di nuovi», riprese l’anziana.
«Capisco, madre; vi prego di perdonarmi.»
La donna corrugò la fronte dipinta di verde; esitò sulla sua figura ancora
qualche istante, prima di dargli le spalle. Si avvicinò ad uno dei nodosi rami
della parete, sul quale era cresciuto un tenero bocciolo verdastro; dopo averlo
accarezzato, annunciò: «da oggi mangerai da solo, tornerai a dividere i pasti
con gli altri quando avrai imparato dalle tue azioni. Inoltre...» fece un passo
verso il ragazzo, se credi che ciò che abbiamo non sia sufficiente, provvederai
tu stesso a sfamarci tutti, da solo.»
«Madre!»Teras, fino ad allora rimasto in silenzio, s’intromise nel discorso.
«Sì, dal’en?»
«Non sarà da solo, merito anch’io la stessa punizione!»
La donna sorrise dolcemente. «La tua devozione ti fa onore, Teras.»
«Non è devozione» la corresse repentino, gesticolando animatamente. «Credo solo
che sia una punizione ingiusta.»
L’espressione dell’anziana cambiò, accartocciandosi in una smorfia. «Ingiusto è
insultare un fratello; ingiusto è insultare ciò che abbiamo»
«Ma anch’io ho partecipato alla rissa.»
«Solo per proteggere me» precisò Tamlen: si sentiva già abbastanza in colpa
senza che un suo fratello patisse per colpa sua»
«Non dovresti pagare sofferenze che non hai causato»
Il rosso scosse la testa poiché meritava quella punizione quanto lui: in cuor
suo serbava gli stessi pensieri che avevano fomentato la lite. Doveva essere
punito, per non essere stato sincero con se stesso; per non aver ancora
raggiunto la saggezza di un Dalish.
«I Dalish non nascono saggi» proferì la Guardiana, come se gli avesse letto nel
pensiero. «Tamlen, tu puoi andare.»
Il biondo annuì, lasciandoli da soli, pieno di comprensione verso Teras.
«Madre, io…»
La donna lo zittì. «Credi forse che io non conosca i miei figli, dal’en?»
Teras rimase in silenzio: non occorreva rispondere.
«So bene quanto sia difficile accettare alcune condizioni: gli dei a volte ci
pongono davanti a delle scelte e non sempre è facile fare quella giusta. Ti
turba che avresti potuto compiere lo stesso sbaglio di Tamlen, non è così?»
Il ragazzo alzò la testa davanti a quella scomoda verità. L’aveva creduto:
tornato dalla città aveva ammesso che avrebbe derubato l’uomo, se l’amico
avesse insistito; persino il focolare, davanti al quale era scoppiata la
discussione, avrebbe potuto illuminare il suo rancore nei confronti di Gad’esh. Se solo fosse riuscito a
farsi avanti.
Tuttavia, non avevo fatto nessuna delle due cose.
«La verità è che avresti potuto, ma l’hai evitato» continuò la donna.
«Ciò non toglie che ho pensato le stesse cose di Tamlen: sono stato vile a non
esternarle.»
«Per questo credi di meritare una punizione? La saggezza va costruita:
scegliere di fare la cosa giusta, nonostante non la si condivida, è già un
piccolo passo verso di essa.» L’anziana lo accompagnò alla porta. «La
cattiveria può nascondersi anche dietro la verità: Tamlen deve ancora
impararlo. Ora va’, dal’en. Se vuoi potrai accompagnare tuo fratello durante la
caccia».
Nda: perché sto prendendo tanto
a cuore questa storia non lo so, probabilmente perché alcune scene di essa mi
martellano in testa e non avrò pace finché non l’avrò finita di scrivere.
Tuttavia, so perché ho deciso di cancellarla (sarei una pazza se non lo sapessi
xD) e di riproporla riveduta e corretta.
Per prima cosa non ero del
tutto soddisfatta, non come lo sono ora, della sua riuscita J Si tratta di una storia che ho abbondato per anni e ripreso
dopo tanto tempo, forse troppo. Per cui molti degli indizi che avevo lasciato
tra una riga e l’altra sono andati perduti nei meandri della mia mente bacata xD.
Secondo, non amo scrivere
male e non sono mai pienamente soddisfatta quando si parla forma e di grafica
(eh sì, anche l’occhio vuole la sua parte! Soprattutto il mio :P) per questo ho
deciso di rivolgermi a qualcuno, il fantasmagorico beta reader,
affinché i mie capitoli avessero la correttezza da me tanto ricercata J Per questo ringrazio di cuore chi ha svolto e sta svolgendo
questo lavoro di correzione. Grazie infinte! :D Alle mie beta per essere tanto
gentili, brave e pignole.
Terzo ed ultimo motivo, non
mi piacciono le cose rimediate. Quindi, in tutta onestà non mi piaceva l’idea
di scambiare i vecchi capitoli con quelli nuovi e corretti e lasciare gli
altri, non corretti, al loro destino, finché non avessi modificato anche loro.
Dunque, trovandomi davanti alla scelta, cancellare tutta la storia e
riproporla, fino all’arrivo dei capitoli inediti e mai pubblicati; o modificare
i vecchi lasciando metà storia corretta e metà no, ho deciso per la tabula rasa
e ricominciare dall’inizio.
Prima che mi tiriate qualcosa
contro per questo sproloquio, vorrei informare i vecchi (e i nuovi lettori se
mai ci saranno) che i capitoli inediti verranno ripubblicati non appena i
vecchi saranno belli e (quasi :P ) perfetti. Detto questo, ringrazio tutti
coloro che avevano apprezzato la mia storia nei tempi addietro e che avevano
avuto la voglia di lasciare un commento: thewhitefool, per tutte le belle
parole che mi ha sempre rivolto e l’incoraggiamento che ne ho tratto, e spero
di leggere ancora di Willard, il suo personaggio; Giulz87 e Yori, che dal fandom di Dragonball Z mi hanno seguita fin qui; Artemis-sama per le recensioni lasciate; Zafrina con la
quale credo di condividere la passione per Morrigan xD;
e infine ringrazio Justinian, il quale se non mi ha ucciso fin’ora,
credo lo farà presto dopo questa mia ultima trovata! Ma non temere Matthew, i
capitoli nuovi arriveranno presto e sono già in cantiere xD
tanto ora non hai tempo per leggerli u.u.
Finisco col rigraziare la Sister che ha
iniziato a leggere la mia storia.
Un saluto e un abbraccio a
tutti voi, alla prossima!^w^