Sono estremamente affezionata a questa shot: le sono
debitrice.
Spero che possa colpire chiunque la leggerà.
Le voci
L’ultima cosa che ricordo fu il lampo accecante dello scoppio e
il fragore che ne seguì.
Mi risvegliai giorni dopo e a darmi la notizia della mia cecità,
ricordo che fu un giovane dottore dal tono molto professionale.
Sapevo che il mestiere della giornalista è uno dei più
pericolosi al mondo, specie per chi, come me, sceglie di fare l’inviata speciale
in tempo di guerra.
Ma non immaginavo che potesse succedermi una cosa tanto banale e
contemporaneamente tanto incredibile quanto rimanere viva dopo un esplosione
devastante come quella di Baghdad.
Ci furono 372 morti e 160 feriti. Tra i feriti vi ero io e il
mio cameraman. Tra i morti vi era la mia traduttrice.
Non la conoscevo più di tanto. Il suo nome era Fatimah, e si era
laureata in lingue anche senza il consenso dei suoi genitori. Voleva diventare
la traduttrice dei politici, diceva, come una spia di cui non sapeva neanche il
nome.
Per caso, qualche anno dopo, un amico mi descrisse delle foto di
una rivista con alcuni buoni reportage sulla guerra in medio oriente. C’era una
foto di lei, o almeno di quello che ne restava.
"Gli occhi spalancati – diceva il mio amico con la voce calma e
leggera – di un verde dei più brillanti. La bocca come una rosa, i capelli color
della terra"
Splendida anche nella morte, pensai. Sperai che il mio Dio
avesse un posto di rispetto per lei nel cielo.
Che non vada sprecata tanta bellezza nelle fiamme
dell’Inferno.
Quanto a me, l’Inferno cominciò quel giorno.
Non avevo mai messo in conto di diventare cieca a soli 21 anni e
poco ci mancò che cadessi nel baratro più profondo della depressione.
La vista era uno degli elementi fondamentali del mio lavoro,
della mia vita. Tutti i sensi lo erano e non riuscivo a sopportare l’idea di
aver perso il più importante.
Il medico disse che nell’esplosione entrambi i nervi ottici si
erano bruciati e che il danno era irreversibile, almeno per il
momento.
Prima di uscire, sulla porta, lo sentì voltarsi e mi disse che
anche l’iride era stato danneggiato.
Aveva perso il suo pigmento.
Allora, avevo gli occhi castani.
Ora chi mi fissa negli occhi può soltanto descrivere i miei
occhi "bianchi".
Quando i cicli di flebo riuscirono a risanare il mio corpo
malridotto, i medici mi permisero di cominciare l’istruzione visiva, la
preparazione per riuscire a condurre una vita quantomeno normale, almeno
indipendente per riuscire a conservare un minimo di dignità. E per far si che il
mio incredibile orgoglio non ne risultasse incrinato, avrei dovuto metterci
tutto l’impegno possibile.
Intanto, mentre ero ancora incatenata a quel letto così scomodo
e così dannatamente inamidato al tatto, avevo capito quanto gli altri sensi
cercassero di acuirsi il più possibile per supplire alla mancanza
dell’altro.
L’udito e l’olfatto, ad esempio.
Avevo imparato a distinguere le infermiere e gli inservienti dal
suono dei loro passi e riuscivo a capire cosa le cucine stessero preparando per
l’ora di pranzo o di cena, benché quei locali fossero molto lontani dalla mia
camera.
C’era un’infermiera, giovane per quanto la voce potesse dirmi,
che aveva il passo che produceva lo stesso suono del battito d’ali d’una
farfalla.
La sua voce e il suo tocco erano così gentili che mi ricordavano
la mia piccola sorella in Italia.
La pelle delle mani delicata e la voce era come l’acqua di un
torrente di montagna. Limpida e cristallina.
Era una gioia sentirla ridere, perché sembrava che tutta la
stanza si riempisse di quel suono come l’acqua piovana fa nelle fontane dei
giardini.
Tutto sommato, fu uno dei pochi ricordi piacevoli della
degenza.
La prima volta che mi misero in mano il bastone bianco, lungo e
dal largo manico, scoppiai a piangere senza controllo, come non facevo più da
quando ero bambina.
Me ne vergognai così tanto che ci vollero due giorni prima che
permettessi a qualcuno di metter piede nella mia stanza.
Era come se mi trovassi nella notte più nera della mia vita,
soltanto che quella notte sarebbe diventata la mia vita e io non potevo
reggere questo pensiero.
Come avrei fatto a scrivere?
E a fotografare?
E a scorgere negli occhi delle persone le loro bugie?
Come avrei fatto?
La sveglia aveva suonato le 7 di sera del mio tredicesimo giorno
d’ospedale, quando nella mia vita entrò lui.
Non ebbi mai un’idea precisa di come fosse fatto, precisamente
che aspetto avesse.
Ma quando una sera facemmo l’amore, gli toccai il viso e scoprì
i suoi zigomi un po’ troppo sporgenti, le palpebre dalle corte ciglia, le labbra
sottili. Quando feci scendere le mani sulla sua schiena, incontrai i suoi
capelli raccolti e glieli sciolsi e godetti nel passare le mie dita tra i suoi
lunghi capelli lisci, più di quanto una donna può godere quando il suo compagno
entra in lei.
Il suo nome era Ismael e adoravo il suono della mia voce quando
lo pronunciavo.
Quando lui chiamava me invece, lo pronunciava quasi come se
fosse un nome greco.
Lui era il medico che si sarebbe occupato della mia
riabilitazione. Era un medico, psicologo, presidente di non quale associazione
di non vedenti e molto altro, ma oltre a molte cariche che lui mai mi disse era
ricco di buone virtù.
La tenacia, la pazienza, e la capacità di riuscire a trapassare
il mio orgoglio senza farmi alcun male. Anche se si divertiva molto nel vedermi
imbarazzata e silenziosa.
Lui disse sempre che grazie all’orgoglio riuscì a tirarmi via
dalla mia camera, ma non fu proprio la verità. Era stata la sua voce ad
attirarmi, perché era una voce che parlava di promesse e di fiducia.
Una voce pericolosa certo…ma la voglia di rischiare non se ne
era andata via con la vista. E la mia arroganza si era fatta sempre più
pungente.
L’avrei schiacciato, oh si, l’avrei fatto.
Ma non avevo messo in conto il potere delle voci.
E fu la sua voce e le sue mani sul mio corpo a darmi nuova
vita.
La sua voce, che era come l’unione di mille.
Il sussurro di due compagni di giochi sperduti per le vie di
Alessandria, la voce squillante di un mercante di stoffe di Islamabad, la voce
roca dell’amante più lascivo, la voce ispirata ed estatica del poeta che
compone, l’urlo rabbioso di un padre che cerca vendetta, il canto di un uomo di
notte per la propria sposa che si leva tra le mura dei palazzi di Istanbul, il
fragore delle onde contro le scogliere di Algeri, il vento tra le palme di
Sharm.
C’era tutto l’Oriente nella sua voce.
Nella sua voce c’erano tutte le voci del mondo.
E quando parlava io potevo vedere.
Io potevo vedere, immaginare, o forse solo ricordare quei posti
che i miei occhi avrebbero mai più contemplato.
Quando imparai a muovermi con l’ausilio del bastone, del cane (
un adorabile collie che chiamai Uakhput, affinché mi guidasse attraverso le
tenebre) e riuscì a leggere e scrivere perfettamente in Braille, Ismael mi disse
che il suo compito era terminato.
In quella notte io mi donai a lui.
Non so se lo feci per la disperazione, per seguire qualche
rituale nella mia testa o solo perché avevamo entrambi un asfissiante bisogno di
noi stessi, ma quando l’indomani mi spostai sul letto e non lo trovai, non me ne
meravigliai.
Mi aveva parlato con i sussurri del vento prima di
addormentarsi, e io sapevo che le voci non mentono mai.
E lui, quella notte, mi fece un dono.
Proprio quel dono che a lui era stato fatto tempo
prima.
Mi aveva donato la capacità di possedere le voci, la capacità di
scorgere un guida anche nel mare più nero, di trovare il mistero, di trovare la
strada, di trovare la via verso Est, di custodire ancora il segreto del suono
della vita.
Mi aveva dato la voce più preziosa.
Quella della speranza.
Fine
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