Titolo: “Achilles’ Heel”.
Genere: azione, sovrannaturale.
Pairing:
Wincest.
Rating: arancione.
Warning:
slash, lemon.
Contesto:
fine seconda stagione/terza stagione.
Note: Dopo mesi di
tentennamenti, ce l’ho fatta. Amo Supernatural,
amo alla follia Sam e Dean, e se vi sembra che stia
bestemmiando e/o stuprando i Winchester ditemelo e cancello tutto.
Ringrazio Marghe, di cuore, che ha
letto e corretto. Senza i suoi commenti e il suo appoggio molto probabilmente
non mi sarei mai decisa.
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Un anno.
Un pugno contro il muro.
Un ruggito spezzato in gola.
Un rumore sordo che cercava di
coprire il silenzio della morte.
La mano ferita iniziò a tremare,
il sangue arrivò subito. Ma il dolore, quello no.
Ancora non arrivava. E, accasciandosi contro il muro, Dean si chiese se
l’avrebbe mai fatto. Se ci fosse mai stato spazio, per un dolore che non fosse lui.
Si prese la testa tra le mani,
sperò che potesse esplodere. Strinse i denti, e alla fine lo guardò.
Un’altra volta, un’altra ancora.
Sdraiato su un materasso spoglio,
sporco, abbandonato. Un materasso che non era il suo.
Niente letto, niente lenzuola
pulite, niente luce. Solo sporcizia, buio e
solitudine.
Un istante che sembrava
fotografare le loro intere vite. Un ironico segno del
destino, che per l’ennesima volta si prendeva gioco di loro.
Gli aveva intrecciato le mani,
gliele aveva posate sul petto. Sopra quella camicia e
quel giubbotto che l’avevano accompagnato per
un’infinità di giorni e notti. Giorni passati sul sedile dell’auto, notti ad occhi chiusi disteso su qualche sconosciuto letto di uno
sconosciuto motel. Camicia e giubbotto sporchi e logori. Anche quelli. Anche
loro.
I capelli erano spettinati,
alcuni gli ricadevano sulla fronte. Si avvicinò con una mano alzata, pronto a
sistemarli. Pronto a prendersi cura del suo Sammy.
Perché era quello che doveva fare, quello che voleva fare.
L’unica cosa che gli era sempre riuscita. Ma poi gli
vide la bocca: una linea immobile stampata su un viso pallido. Non c’era un
sorriso, non c’era una smorfia. Non si apriva per parlare, per prenderlo in
giro, per chiamarlo. Erano labbra scure, fredde… morte. Adesso, sconosciute
anche quelle. Non le sapeva riconoscere e si impaurì,
proprio lui che non aveva mai paura di niente.
Tornò ad accasciarsi contro il
muro.
La voglia di voltarsi, dargli le
spalle, cercare la bottiglia di whisky e svenire scordando il dolore era tanta.
Troppa. Ma si sforzava di restare, di calmarsi, di
pensare. Trovare una soluzione. Perché una soluzione c’era. Ci doveva essere.
Perché poteva sopportare tutto, tutto.
Una vita senza sua madre, senza suo padre, senza amici. Una
vita da nomade, schiacciato dai sensi di colpa, trascinato da una città a
un’altra. Poteva sopportarlo, lo sapeva. C’era abituato, era
addirittura… bravo.
Ma
questo no.
Sam morto e freddo davanti a lui,
perso e impotente.
Questo no.
Mai.
E fu proprio questo che gli dette
la spinta per alzarsi, fu questa la molla. Ancora una
volta la sua forza fu lui: suo fratello. La convinzione che senza di lui non ce l’avrebbe mai fatta. La consapevolezza che, senza Sam,
lui non poteva vivere.
Sentì una lacrima – una
soltanto – bagnargli la guancia. Si passò la mano sulla faccia e la
cancellò.
Controllò i documenti che gli
servivano, recuperò il cappotto e la pistola.
Si avvicinò alla porta stringendo
i denti così forte che si sarebbero potuti spezzare da un momento all’altro.
Prima di andarsene, si voltò un’altra volta. E, un’altra volta, lo guardò. Uno
sguardo non corrisposto, pieno di promesse sull’orlo della disperazione.
Un pensiero, una supplica, due
parole: lui no.
Sam sentì l’aria risucchiata dai
polmoni, sbarrò gli occhi e fu subito seduto. Gli girava la testa, le gambe
sembravano addormentate, una fitta di dolore gli spezzava la schiena. Cercò di
respirare regolarmente, si sforzò per fare luce sulla confusione che sembrava
circondarlo.
Alzò la testa e la prima cosa che
vide furono i suoi occhi verdi, incassati da due occhiaie scure. Era accasciato
su una sedia, lo guardava sbalordito e incredulo. Proprio come ogni tanto aveva
guardato i fantasmi che erano stati costretti a combattere.
“Sam.” La voce, rauca, uscì a
malapena. Sembrava che non parlasse da giorni.
“Che è successo?” fu l’unica cosa
che riuscì a dire. Traballando lasciò il materasso, cominciò a guardarsi
intorno, confuso. “Dean?”
Suo fratello non rispose, ma si
alzò. Lo afferrò per le spalle, lo guardò negli occhi e lo strinse a sé. Si aggrapparono l’uno all’altro. Un abbraccio che agognava
eternità, che sapeva di casa.
“Sammy.”
ripeté, grato di poterlo chiamare ancora.
Si allontanarono, Dean si schiarì
la voce per nascondere l’emozione. “Eri ferito.” disse.
“Ferito?”
“Sì, ma ora
stai bene. Sei in gran forma, giusto?” provò a
sorridere.
Sam aggrottò le sopracciglia,
continuò a guardarsi intorno. “Dove siamo?” Sentì ancora una volta la fitta
lancinante tra le scapole, provò a toccarsi per capire quale fosse il problema,
mentre una piccola luce iniziava a schiarire la memoria. “Che mi è successo
alla schiena?”
“Te l’ho detto, eri ferito.”
rispose bruto, il sorriso forzato era sparito.
“Stronzate!” urlò Sam, sempre più
cosciente. “Dimmi la verità, Dean. Non
mentirmi!”
Suo fratello gli voltò le spalle,
era il momento giusto per recuperare quella bottiglia di whisky. Sam era vivo,
il patto aveva funzionato, il resto non era un problema. Non fece in tempo ad
arrivare al tavolo, Sam lo afferrò per una spalla e lo costrinse a voltarsi.
“L’ultima cosa che ricordo è Jake che mi pianta un coltello nella schiena.” disse. “E un
dolore mai sentito prima.”
Dean lo guardava, con occhi
vuoti. Non aveva intenzione di rispondere, voleva soltanto godersi quello che
per lui era un successo.
“Sono morto?” chiese, a bassa
voce, impaurito dalle sue stesse parole. “Sono morto, non è vero?”
“Sei vivo!
Stai bene, sei qui con me. Ora sdraiati un po’, ti devi
riposare.”
“Dean!” urlò. “Che hai fatto?”
“Quello che andava fatto.”
sentenziò, con un tono che non lasciava spazio a repliche.
“Dean!” Sentiva la disperazione
prendere il sopravvento, si sentiva gelare man mano che la consapevolezza di
ciò che aveva fatto diventava sempre più chiara. “Rispondimi!”
Scosse la testa, si passò una
mano sulla faccia, sorrise amaro mentre si arrendeva alla tenacia di suo
fratello. “Ho cercato un incrocio,” sbuffò. “Ho
sotterrato quella maledetta scatola, ho evocato il dem-“
Non ebbe il tempo di finire la
frase, di precisare ciò che ormai era ovvio. Sam l’afferrò
per la camicia e lo schiacciò contro il muro.
“Come hai potuto?” gli urlò in
faccia. “Come hai potuto farmi questo?”
Dean gli posò le mani sulle
spalle, spinse, lo costrinse ad allontanarsi. Vide il fastidio del dolore
passare sul volto di suo fratello e subito si pentì della sua irruenza.
“Avresti fatto la stessa identica
cosa, Sam.” disse, calmo. “Lo sai.”
Lo vide digrignare i denti,
premere le dita sugli occhi per nascondere le lacrime. Poi i respiri iniziarono
a calmarsi, lentamente riprese il controllo di sé. Si fece animare da
quell’ardore che entrambi conoscevano fin troppo bene: la forza dei cacciatori.
La forza di chi è abituato a non fermarsi mai, a trovare soluzioni che non
sembrano esistere, a strappare demoni dall’Inferno pur di uscire dal baratro.
Ormai calmo e cosciente, Sam disse ciò che ogni cacciatore avrebbe detto: “Abbiamo dieci anni per capire come fregarli.”
E Dean non ebbe il coraggio di
ucciderlo di nuovo con la verità.