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“Buona sera a tutti i gentili telespettatori, questa sera
nella nostra rubrica, abbiamo deciso di trattare l’argomento
del mangiare sano! Ma prima vediamo il servizio sulla rapina in villa
avvenuta l’altro ieri! I colpevoli non sono ancora stati
identificati, ma la polizia…”
La voce acuta e
fastidiosa della cronista riempie la stanza, ormai accendo la TV solo
per non sentire il silenzio, non faccio quasi caso a ciò che
dicono.
Seduta davanti al
fuoco, con il cane sdraiato ai miei piedi ed il gatto addormentato
sulle ginocchia, fisso le fiamme, tentando di rilassare la mente,
lasciando vagare nel nulla i miei pensieri.
Sono passati sette mesi
dall’ultima volta che ho sorriso sinceramente, sette mesi di
finzione, risate che non arrivavano al cuore, e non sfioravano nemmeno
gli occhi. Eppure sono diventata brava, una campionessa nello schivare
gli sguardi, nel cambiare argomento, nell’impegnare il mio
cervello in mille faccende, in modo che non abbia tempo per ricordare.
Ma questi momenti di noia sono inevitabili, e non posso fare niente per
far virare i miei pensieri in un’altra direzione,
è tardi, ormai le prime immagini di quell’incubo
stanno già riaffiorando. L’ospedale, il pallore
della pelle, le analisi, le varie ipotesi, una peggiore
dell’altra, e poi il responso definitivo, come un macigno
sullo stomaco; impossibile da digerire. Metastasi, questione di
settimane, non possiamo fare niente, morfina. La vista si appanna
immediatamente, la forza di volontà non può fare
tutto, certe emozioni sono troppo devastanti per essere frenate dalla
cocciutaggine.
Il fiume di ricordi si
abbatte nuovamente su di me, riportando alla luce vortici di parole,
immagini e gesti che non potrò mai dimenticare. Ma il
ricordo più frequente è la mia voce, la mia voce
che urla, che grida, ma che non esce dalla gola, che resta dentro al
mio petto, a guardia del dolore che ormai ho trasformato in rabbia.
Rabbia cieca ed implacabile che brucia dentro di me, sempre pronta a
scatenarsi, una furia che tengo nascosta il più possibile,
per evitare che investa tutti coloro che mi stanno attorno.
Sette mesi fa si
è spento in un letto d’ospedale l’uomo
più importante della mia vita, l’unico uomo che
credevo non mi avrebbe mai abbandonata, mi è stato strappato
via, senza preavviso, senza possibilità di salvarlo. Aveva
solo 52 anni, io 19, non è giusto che a 19 anni mi sia stato
portato via, non è giusto.
Chi mi
abbraccerà il giorno della laurea? Chi mi
accompagnerà all’altare? Come farò
senza il mio papà?
Ormai le lacrime
solcano le mie guance, e i singhiozzi scuotono il mio corpo. Dicono che
il tempo guarisce tutto, ma non è vero, il tempo aumenta la
pena ed il dolore, aumenta il senso di solitudine, aumenta la nostalgia
di quei sorrisi e quelle battute che capivamo solo noi, aumenta tutto.
So che ci sono persone
che soffrono più di me, gente che ha perso i propri genitori
in modo ancora più tragico, ma non posso fare a meno di
essere egoista, di pensare che nessuno stia soffrendo come me, di
credere che il mio dolore e la mia rabbia siano i più grandi.
Il tumore non aveva
dato tempo di agire, era comparso e si era portato via tutto, in un
mese tutto il mio mondo era crollato.
Basta, richiamo i
pensieri all’ordine, mi concentro su altro.
L’università, l’imminente esame, cane e
gatto devono ancora mangiare, che ore sono? Perché mia madre
non è ancora tornata?
Mi alzo, tenendo in
braccio Pepe, il mio micio, e salgo le scale. Appena arrivo in cucina
mi sciacquo il viso dal pianto, lavando via le tracce lasciate dalla
mia debolezza di poco fa. Sono le otto, non manca molto al rientro
della mamma, e non posso farmi vedere così, capirebbe
subito, e non ha bisogno di una frignona al suo fianco adesso. So che
piange anche lei, ma non si fa mai vedere, è il nostro modo
di aiutarci, ogni una con il suo dolore, ogni una con il suo modo per
superarlo. Lei dorme ancora sul divano, io sono arrabbiata con il
mondo, lei non vede me piangere, io non vedo lei, fine della storia.
Servo la pappa ai miei
animali, li ho presi entrambi pochi giorni dopo la morte di mio padre,
avevo bisogno di qualcuno a cui dare amore, a cui pensare e che mi
tenesse la mente impegnata, e cosa c’è di meglio
di un cagnolino salvato in canile e un micino di pochi mesi?
Mentre loro mangiano la
Tv continua a ciarlare di prodotti di bellezza, regali di pasqua,
programmi sensazionali, grandi eventi in anteprima mondiale. Non mi
interessano, li ignoro, ma non la spengo.
Ricontrollo
l’orologio, sono passati appena cinque minuti.
Aspetterò in camera, non ho voglia di restare in sala, e poi
con il computer posso fare qualcosa che mi distragga, oppure avrei
potuto leggere, sempre per distrarmi. In questi mesi oltre ad essermi
gettata a capofitto negli studi universitari avevo letto a
più non posso, ed avevo rispolverato vecchie serie TV che
non avevo mai avuto voglia o tempo di finire. In particolare avevo
deciso di riprendere ONE PIECE, era l’ideale,
un’avventura lunga ma allo stesso tempo leggera, o almeno
così avevo pensato quando avevo iniziato a guardarlo, dalla
puntata numero uno. Ormai l’avevo finito, tra lacrime e
rabbia, ed attendevo i nuovi capitoli. Perché tra lacrime e
rabbia? Perché ovviamente mi ero appassionata
all’anime, ed adoravo un personaggio in particolare, che mi
somigliava molto a mio parere, indovinate chi è?!
Ovviamente
l’unico che viene assassinato, a cui sono dedicate le puntate
più emozionanti e struggenti di tutto l’anime,
tanto perché non ne avevo abbastanza della rabbia e del
dolore che mi attanagliavano nella realtà, pure nella
finzione dovevo cercare di farmi del male.
Portuguese D. Ace,
detto pugno di fuoco, ecco il mio personaggio preferito di tutto
l’anime. Fin dalla sua prima apparizione l’ho
adorato; arrogante e sfacciato, ma dolce, premuroso e con un dolore
dentro di se, che nascondeva con il suo immancabile sorriso.
Sospirai e mi avviai
verso le scale, quando la voce alla TV attirò la mia
attenzione.
“Interrompiamo la
normale programmazione per un’edizione straordinaria del
nostro Telegiornale. Un avviso ufficiale da parte delle
autorità giapponesi, ci ha appena informato di una
pericolosa fuga di radiazioni dalla centrale nucleare di Genkai. Si
tratta di un evento scioccante per la popolazione giapponese, in quanto
pare che le radiazioni si siano diffuse per almeno duecento chilometri!
Gli abitanti delle città che rientrano nel raggio
d’azione delle radiazioni sono state completamente isolate,
le autorità assicurano che la centrale è
già stata disattivata e che le radiazioni non vengono
più emesse, ma bisognerà comunque fare dei
controlli a tappeto sulla popolazione, per verificare eventuali danni
alla salute! Non sappiamo a cosa potrebbe portare
quest’ennesima catastrofe nucleare!”
Maledizione, ogni
giorno ne salta fuori una nuova; guerre, catastrofi, errori umani,
crimini, mai una giornata in cui non avvengano fatti di cronaca.
Sbuffando spengo la TV
e scendo in camera, non ho nemmeno voglia di mettermi a studiare, mi
infilo nel letto e tento di dormire. Non sento mia madre rientrare, non
sento più niente fino alla mattina successiva.
Un’altra notte vuota è passata, ma non
potevo immaginare che sarebbe stata l’ultima, nessuno poteva
immaginare che da quella sera la mia vita sarebbe cambiata, che una
fuga di radiazioni in un paese dall’altro capo del mondo,
potesse avere risvolti così netti nella mia vita. nessuno
poteva immaginarlo, eppure successe.
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Eccomi
qui, dopo tanti mesi di silenzio con la mia prima FF su One Piece... in
questo capitolo non c'è che un accenno, però
giuro che nei prossimi capirete tutto! ^_^
Tenterò
di aggiornare costantemente, puntualmente e soprattutto spero di
mantenere questi propositi! :-)
fatemi
sapere cosa ve ne pare, e se vi fa piacere ditemi, qual'è il
vostro personaggio preferito?
Alla
prossima!
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