mi chiamano tizia.

di Vvorth
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Quando misi il piede sulla strada di quella città, capii fin dal primo istante che non era il posto adatto a una, che come me, ama giocare a calcio.
Una ragazza che gioca a calcio non si è mai vista nel mio piccolo paese, figuratevi qui, a Milano.
“Papà, io qui non ci sto. Nemmeno se mi dai tutto l’oro del mondo. Io come te non amo scappare via dai ricordi, ma amo inseguirli. Come inseguo i miei sogni. La mamma è un mio sogno, e non perché è morta, io non inseguirò ogni suo ricordo. Riportami a casa, qui non duro nemmeno un giorno. A scuola mi prenderanno tutti in giro, non voglio nascondermi dietro un’altra me, voglio semplicemente essere me stessa.”
Papà rimase zitto a lungo.
Cominciavo a pensare che dopo la morte della mamma fosse di colpo diventato egoisto da fregarsene di me e del piccolo Josh. Chi si sarebbe occupato di lui quando io sarei andata a scuola? Forse lo considera come la causa della morte di mamma ma è pur sempre un piccolo essere indifeso.
“Piccolo, mi prenderò io cura di te, promesso” gli sussurrai baciandolo delicatamente sulla guancia come faceva mamma.
“Papà, guarda i suoi occhi. Sono uguali a quelli di mamma.”
“Mamma, mamma e mamma.. è l’unica parola che sai pronunciare Maci?”
“Si. Perché io al contrario tuo penso a tutto e a tutti, non faccio l’egoista.”
“A casa non ci ritorni.”
“E il piccolo Josh? Non ci hai pensato a lui? Quando tu andrai a lavoro e io a scuola a lui chi ci pensa?”
“Lo porteremo ad un asilo privato.”
“Parlare con te mi distrugge. Io vado in camera. Ops, già, io qui non ho una camera. Non ho un bel niente. Esco che è meglio.”
Parlare con mio padre mi rende acida e nervosa. Prima era stupendo parlare con lui. Mi metteva felicità. Ora no, ora non c’è più modo per conversare con lui.
Lo odio e gli voglio bene allo stesso tempo.
Come può portarci qui? Come può portarmi via dagli amici e dal mio mondo? Io qui non ci vivo, non resisto nemmeno un giorno.




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