I
just haven't met you, yet.
#2.
Di
lei sapeva che le piaceva uscire sotto la pioggia ed alzare gli occhi
al cielo, allargando le braccia, ma solo se non vista. Forse la
seconda cosa che sapeva di lei era appunto che della gente aveva
vergogna, o forse paura, o semplice imbarazzo, chissà.
Sapeva solo
che lei, la gente, non l'amava. Quale fosse il motivo non gli era
dato saperlo.
Credeva
che a lei piacesse indossare cose dentro cui, volendo, sarebbe potuta
entrare due volte. L'aveva più volte vista con felpe che le
arrivavano a metà coscia e ciabatte enormi – forse
del padre. E
sapeva che del padre le piaceva l'odore – di questo era
certo. Gli
rubava giacche e magliette e sciarpe, anche le sciarpe, ed inspirava
profondamente per poi annotarsi chissà quali emozioni e
sensazioni e
immagini – gli sarebbe piaciuto saperlo.
Sapeva
anche che della sua macchina fotografica era innamorata, o
dipendente, e che amava scattare fotografie ad impensabili dettagli a
cui lui non avrebbe mai appunto pensato, e che forse le piaceva poi
descrivere i suoi risultati, perché lui non lo sapeva cosa
scrivesse
su tutti quei fogli che riempiva seduta sul muretto davanti casa con
gli occhi rivolti al fiume, ma li riempiva. Li riempiva e li
rileggeva spesso, concentrata, aggrottando a volte la fronte e
correggendo qua e là qualcosa. Gli sarebbe piaciuto leggere.
Di
sé stesso sapeva poco, ultimamente, ché lui era
convinto che la
bellezza stesse tutta in un bel culo e due tette, e ne era tanto
convinto che la prima volta che aveva associato a lei, che avendola
sempre vista nascosta in chilometri di stoffa non sapeva quante tette
e che culo avesse, la parola “bella”, c'era stato
un uragano
tanto distruttivo, dentro di lui, che s'era dovuto sedere, sdraiare,
addormentare. Al mattino aveva realizzato che, fino ad allora, non
aveva capito un cazzo.
Quindi
di lui sapeva soltanto che voleva conoscerla. Con una qualsiasi
scusa. Gli bastava parlarle, anche se in fondo a lui sarebbe piaciuto
conoscerla a fondo, conoscere il perché di ogni singolo
gesto, e poi
un giorno, magari sotto la pioggia, baciarla, gustare il sapore delle
sue labbra che lui immaginava tanto simile a quello delle ciliegie, e
stringerla. Forse a stringerla non avrebbe rinunciato.
Era
per parlarle, quindi, che quel giorno s'era infilato le sue scarpe
fortunate, quelle che gli avevano fatto prendere la patente senza
neanche un errore, ed era sceso.
Per
raggiungerla gli sarebbe bastato attraversare il ponte, ma aveva
preferito fare il giro lungo.
Studiava,
nel frattempo, un modo per parlarle senza fare la figura dell'idiota.
D'iniziare il discorso con un “ciao” non se ne
parlava neanche.
Ci aveva già provato, in precedenza, passando davanti a lei
del
tutto casualmente – in fondo è tutto
un caso, no? Anche le intenzioni, no? – e probabilmente aveva
pure
fatto la figura dell'idiota, perché lei se n'era accorta,
che lui la
stava fissando – aveva una sorta di sesto senso, lei.
Aveva
quindi dovuto, in quell'occasione, biascicare un saluto, a cui lei
aveva risposto con un sorriso a metà, ma bellissimo.
Quella
volta comunque aveva altri progetti. Voleva qualcosa di grande,
qualcosa ad effetto, qualcosa che creasse nel suo cervello le sinapsi
giuste, qualcosa che le facesse pensare “Io questo me lo
sposo”.
E
sul “me lo sposo” lui arrivò davanti a
lei, a neanche cinquanta
centimetri, non seppe neanche se lei se n'era accorta della figura
che le stava davanti mentre lei ancora scriveva con i Three Days
Grace che cantavano nel suo cellulare, prima che lui, con molta
semplicità, le chiedesse: «È una
storia?».
La
vide sussultare e quasi gli venne da ridere, perché un'altra
cosa
che di lei aveva scoperto in tutto quel tempo passato ad osservarla
fumando appoggiato al davanzale era quanto lei fosse espressiva, ed
in quel preciso istante gli occhi della ragazza gridavano. Gli venne
quasi il dubbio che l'avesse pronunciato, quel
“Vaffanculo”.
Fu
educata, comunque. Lo sorprese. «Non esattamente.
Cioè, è una
storia, ma la mia. Stavo per dirti “Sono le mie
memorie”, ma fa
molto vecchia depressa che fa testamento prima di morire e legge
tutto ai suoi gatti».
Aveva
un tono di voce che gli ricordava terribilmente Neruda, non sapeva
neanche perché, dato che lui, la voce di Neruda, neanche
l'aveva mai
sentita. Aveva la voce roca, come se si fosse appena svegliata, ma
era lì in strada da due ore e mezza, quindi, lì
per lì, non si
spiegò il perché. Eppure, nonostante questo
dettaglio, vi era una
certa melodia, come se parlasse a dodecasillabi.
«Hai
gatti?» le domandò.
Corrugò
la fronte, ma col sorriso. «No. Ho un pesce rosso, ma mi fa
paura».
«Come
fa a farti paura un pesce rosso?». Aveva appena scoperto che
aveva
paure assurde, e gli si mosse qualcosa nello stomaco. Sperò
che non
fossero le uova.
«Perché
fate tutti questa domanda?». Strinse la bocca e
sbuffò. «I pesci
rossi sono brutti, ed hanno gli occhi inespressivi. E poi puzzano. Ed
ho letto da qualche parte che non hanno le orecchie. Non so se sia
vero, ma se non sentono niente non possono mai aver sentito il rumore
dell'acqua, quindi non sanno cosa sia la pace».
Aveva
paure assurde che non erano poi così assurde, se uno ci
pensava
bene, e ragionava in modo contorto. Quella cosa fece una capriola
nella sua pancia. Non le uova, per favore, non
le uova.
Si
limitò ad annuire, temendo di pronunciare ad alta voce il
suo
mantra, e si concentrò. Doveva fare le domande giuste,
niente più
istinto. «Comunque, avendo appurato che non hai gatti, se
vuoi
potrei starle a sentire io, le tue memorie. Mi piacerebbe
ascoltarle»
ascoltarti.
Lei
rise. «Non credo ti piacerebbe. Scrivo male».
«Leggimi
una frase».
Cambiò
colore. Impallidì e le sue pupille si dilatarono.
«Come?».
«Mi
leggeresti una frase?» ripeté, aggiungendo
«Se ti va».
Si
schiarì la voce e corrugò la fronte, aprendo
appena la bocca, le
gote come un estintore che avrebbe potuto spegnere il fuoco che lei
stessa aveva acceso in lui, ma non successe perché, non si
spiegò
bene come, quell'incomprensibile voglia di stringerla che l'aveva
spinto a scendere in strada quel pomeriggio aumentò alla
vista di
quel rossore diffuso. Lei era timida, questo l'aveva prima intuito ed
in quel momento scoperto, e tutto ciò che riuscì
a pensare, in quel
preciso istante, fu per favore, non andare via, non
nasconderti,
ti voglio vedere, e vedere tutta, anche la parte di cui ti vergogni,
sarà meravigliosa comunque, lo so.
«Non
so cosa leggerti» mormorò.
Avrebbe
voluto, in quel momento, fare spallucce e dirle che non era
importante, gli sarebbe andata bene qualsiasi cosa, anche la lista
della spesa, perché gli bastava conoscerla e rispondere ad
un paio
delle domande per cui la vista, per quanto attenta, non bastava
– e
poi stringerla, ma non era quello il punto – ed invece le
sorrise
tentando di essere rassicurante e buttò lì un
«Leggimi l'ultima
frase» che sembrò una scelta casuale, ma
significava che a lui ciò
che premeva di più era quel che lei era a quel punto della
sua vita;
per l'antefatto c'era tempo.
Un
sospiro. «“Mi manchi un po' come all'Africa forse
manca l'America
del Sud, immagina quanto erano belle unite e capirai cosa intendo,
perché mi piacerebbe poterti raggiungere con un passo e
invece tra
di noi c'è l'oceano, quello Atlantico, che tutto sommato
è bello
perché ci sono le correnti del Messico e del Labrador, ma
insomma se
non ci fosse sarebbe forse un po' meglio; lo prendi un aereo dal
Perù
che ti porti fino al Congo, se io prometto di aspettare il mio
papà
come quando ero piccola, di aspettarti e non lasciarmi
cadere?»
lesse, con la voce tremolante, un po' rotta, ma bellissima.
In
pochi minuti scoprì che il padre le mancava anche se lo
vedeva ogni
giorno, e questo gli fece ricollegare i pezzi – i vestiti,
l'odore,
le sciarpe.
Scoprì
che usava metafore insolite ma d'effetto, che era fragile esattamente
come sembrava e che di geografia era piuttosto brava. Scoprì
inoltre
d'avere una passione particolare per i periodi lunghi collegati con
una così intricata alternanza di asindeti e polisindeti.
«È...»
pensò ad una parola che di solito non pronunciava, di quelle
che gli
s'incastravano in gola e non uscivano mai, e completò la
frase: «È
bellissima».
Gli
venne da ridere al pensiero che in effetti riusciva a dire
perfettamente “promiscuominescienziosamente”, senza
balbettare
neanche un pochino, e invece l'aggettivo “bello”
non gli riusciva
proprio, non perché v'incespicasse sopra ma
perché semplicemente
s'emozionava. A lei avrebbe voluto dirlo, “Sei
bella”, ma più
avanti, dopo averla conosciuta bene, perché doveva sapere
quanto
quelle parole fossero uniche.
Lei
lo guardò negli occhi, forse un po' più sicura.
«Mi chiamo
Marysol», ma con il sorriso, e come se fosse un segreto.
La
guardò come se l'avesse intuito. «Io sono
Adam».
«Adam».
Lei lo ripeté e lui sentì un brivido.
Iniziò a sospettare che non
fossero le uova. «Non fare come quello della canzone dei
Blink, mi
raccomando».
Risero.
«Se proprio devo prendere un 'Adam' come modello, preferisco
Adam
Gontier».
«Approvo
in pieno».
Erano
le diciotto e diciotto di un giorno di fine aprile in cui faceva
caldo ma c'era vento, e lei indossava una camicia bianca che le
arrivava a metà coscia e dei pantaloni stretti, mentre lui
una
t-shirt della Marvel – gli stava bene – e dei
jeans, ed insieme,
seduti a parlare su quel muretto, erano bellissimi, e mentre il cielo
si tingeva di rosso creando strane – bellissime –
sfumature sui
loro capelli, impararono un sacco di cose l'uno dell'altro, senza mai
doverle chiedere. Poesia.
Sì,
ehm... c'è ancora qualcuno, qui? *passa
una balla di fieno*
Come
sospettavo.
Ecco
la seconda shot. Non doveva esserlo, in realtà, ma ho
rivoluzionato
completamente la mia scaletta, e non è che poi a voi ve ne
freghi
qualcosa.
Non credo ci sia molto da spiegare, se non che Adam
Gontier è il cantante dei Three Days Grace, per chi non lo
sapesse,
e nella canzone dei Blink 182 Adam si suicida.
Okay, bòn, basta.
Fatemi sapere qualcosa, se vi va, e come sempre rinnovo l'invito ad
aggiungermi ovunque vogliate tramite i link che trovate nel mio
profilo.
Pace
e amore a tutti. *lancia margherite*
Un
abbraccio,
Human_ (che
a quest'ora dovrebbe essere a studiare ma fottesega)
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