Bene,
bene. Questa è la prima fanfiction che pubblico in questo
fandom, che non è un modo per dire "vogliatemibbeneh" ma
solo, ehm, portate pazienza, le prossime andranno meglio. Non
è propriamente una Destiel anche se immagino traspaia la mia
opione su questa, ahn, amicizia.
Quindi…
Una specie di missing-qualcosa tra l’episodio 11 e il 17
della
settima stagione. Perché Cas c’è anche
quando non c’è, se si
tratta di Dean.
Piccole
precisazioni: il dialogo finale della fanfic è tratto
direttamente
dall’episodio 17, mentre la citazione che apre la storia
è ©
della mia demente amica Cia’, cui va imputata ogni
responsabilità
per la nascita di questa mia.
Not
available?
Un
angelo sulla spalla è come un diamante: per sempre.
Qualche
volta, di sera, dopo che Sam aveva già preso sonno e dormiva
col
respiro pesante nel letto accanto, Dean rimaneva con lo sguardo fisso
sul soffitto buio. Ascoltava l’aria entrare ed uscire dai
polmoni
di suo fratello e stava lì fermo senza quasi riuscire
nemmeno a
deglutire: immobile, fino a quando la sensazione angosciante del
bisogno assoluto di muoversi e smettere di pensare diventava
totalizzante.
Allora
sgusciava fuori dal letto e silenziosamente scivolava verso la
finestra, verso la debole luce esterna, vinto dalla
necessità di
vedere qualcosa, anche solo il profilo della casa, di ritornare nella
realtà e nel presente. Poi veniva l’impellenza di fare qualcosa,
una cosa qualunque, anche piccola, anche dolorosa. Spesso si limitava
a chiamare un numero di telefono che nessuno usava più e ad
ascoltare la segreteria telefonica meno riuscita della storia
del mondo e della galassia,
prima e dopo l’Apocalisse.
“ Non
capisco. Perché vuole che dica il mio nome?”
Scoppiava
a ridere tutte le volte, anche se l’aveva già
sentita
all’infinito. In silenzio, per non disturbare Sam, si
abbandonava a
uno scroscio di risa con la tristezza nei polmoni, immaginando
l’espressione del viso di Castiel nel sentirsi chiedere dalla
voce
registrata come si chiamasse, la piega aggrottata delle sue
sopracciglia e la vaga confusione nel suo sguardo.
Qualche
volta, quando l’ansia non se ne andava, usciva pian piano,
attento
a non far rumore con la porta, e scendeva fin dalla sua bambina. Le
accarezzava distrattamente la carrozzeria e apriva il bagagliaio
nell’oscurità, tendendo le dita alla cieca per
afferrare il
fagotto che era stata la peculiare divisa di un angelo. Lo tastava
cercando di ignorare le macchie di sangue sul tessuto sdrucito, ogni
tanto infilava persino le mani nelle tasche come nella speranza
insensata di trovare qualcosa che fosse stato lasciato per lui, un
altro amabile resto che gli appartenesse.
Una
volta, pochi giorni dopo la morte di Bobby, si infilò
persino quel
vecchio trench brutto e rovinato e se ne rimase lì per
più di
un’ora a stringerselo addosso, chiedendosi quando avrebbe
smesso di
sentirsi così male e di perdere nel modo peggiore tutte le
cose non
troppo schifose che aveva. Lisa, Ben, Castiel, Bobby. Nel giro di
pochi mesi tutto quel che gli rimaneva erano Sam e il suo cervello a
un dito dal baratro, un’ancora così poco
rassicurante che gli
faceva venire le vertigini.
Soltanto
pochi mesi prima non era così. Aveva un fratello sano di
mente, un
padre putativo dal carattere atroce ma sempre pronto a farsi in
quattro e un angelo sulla spalla. Gli rimanevano uno psicolabile, un
buco vuoto al posto di Bobby e l’impronta di una mano sulla
spalla
sinistra, una cicatrice incisa nelle fiamme dell’Inferno. La
sagoma
di cinque dita, al posto della sicurezza di avere un bambino
immortale sempre disposto a correre in suo aiuto.
E
un trench rovinato, e una segreteria telefonica che era
l’ultimo
segno tangibile della presenza di Castiel, la sua voce.
Di
solito si rimetteva nel letto che già quasi
s’intravedeva
l’aurora. Non aveva mai dormito molto e ora si limitava solo
a
dormire ancora meno. Continuava a fare il suo lavoro, ossessionarsi
sui Leviathans e cercare risposte come aveva sempre fatto, sentendosi
solo un po’ più solo. Sempre più solo.
Finché una notte,
appoggiato alla portiera dell’Impala, dopo aver composto il
solito
numero non interruppe la chiamata ma rimase così, col
telefono
appoggiato all’orecchio e il segnale acustico che lasciava
posto al
silenzio. Si schiarì la voce senza nemmeno pensarci su.
“ Ehi,
ehm, Cas, sono io. Volevo solo… Niente. Che
idiota.”
Si
infilò il telefono in tasca di fretta, con la sensazione di
essere
molto stupido e molto patetico, e ritornò velocemente in camera quasi
avesse fatto qualcosa di sbagliato e dovesse sparire. Si
rifiutò di
pensarci per tutta la giornata, mentre Sam fronteggiava le sue fobie
indagando in mezzo a clown e giocattoli. Si ripromise di non
richiamare più.
Lo
rifece due sere dopo. La stessa segreteria, lo stesso segnale.
“ Sono
di nuovo io. Sono in un motel e sto pensando che sei il più
grande
figlio di puttana della storia. Volevo solo che sapessi quanto mi hai
deluso e quanto ce l’ho con te, e quanto mi dispiaccia
l’idea che
non te lo perdonerò mai e che non riuscirò a
lasciarmelo alle
spalle per quanto ci provi. “Sbuffò amaro.
“Mi fidavo di te. Io,
Sam, Bobby. Ah, a proposito, Bobby è morto. Leviathans.
Quelli che
tu
hai portato qui. Ovunque ti trovi ora, spero che la pagherai
cara.”
Si
sentì meglio, questa volta, scaricato di un peso. Si
addormentò più
presto del solito, sempre furioso come stava vivendo da settimane o
da anni, non lo sapeva più, ma con un placebo tutto nuovo
e così
funzionale che telefonò di nuovo la sera dopo. In ogni caso,
quei
messaggi non li avrebbe mai sentiti nessuno.
“ Ehi.
Stiamo andando ad occuparci di un vecchio caso che sembra si stia
ripresentando. Forse non avevamo finito il lavoro e sai
com’è, a
differenza di altri a noi piace sistemare il nostro casino e mettere
a posto le cose. Ah, dimenticavo anche che noi siamo onesti.”
Studiò per un paio di secondi la ghiaia e la ruota
dell’Impala.
“Ci stavo pensando l’altro giorno, sai, di tutte le
schifose
creature che ho incontrato nella mia vita, e credimi sono un bel
po’,
la peggiore di tutte sono gli angeli. E mi fa veramente incazzare
l’idea di aver riposto tanta fiducia in una porcheria del
genere.”
La
mattina dopo incontrò la prima difficoltà. Si era
appena svegliato
quando Sam, rotolando nel letto, sbadigliò sonoramente e lo
guardò
incuriosito.
“ Con
chi parlavi?” chiese perplesso.
Dean
lo guardò senza capire, infilandosi una scarpa.
“ Quando?”
“ Stanotte,
al telefono. Mi sono svegliato e ti ho visto nel parcheggio con il
telefono all’orecchio,” spiegò Sam
stropicciandosi la testa.
Dean
trattenne il fiato per un paio di secondi.
“ Oh,
quello,” rispose con lo sguardo fisso. “Niente,
ascoltavo dei
vecchi messaggi.”
Lasciò
perdere per qualche giorno. Era già tutto abbastanza
preoccupante
senza diventare un pazzoide che parla con un morto e far preoccupare il
suo fratello minore sull'orlo della psicosi sul fatto che stesse
andando fuori di testa anche lui.
Poi
Sam smise di dormire. Lucifer lo teneva sveglio, e anche Dean smise
quasi completamente di risposare per l’angoscia. Beveva
parecchio, in
compenso, e c’era una storia di una ballerina senza piedi su
cui
lavorare. Cercava di pensare che tutto restava sotto controllo, ma
dopo il tramonto era difficile mantenere l’equilibrio e la
lucidità
sulle cose. Sam annegava e lui era ancora sempre più solo.
Faceva
una paura fottuta e faceva infinitamente rabbia, una rabbia che si
sommava a tutta quella accumulata ma che bisognava sfogare e gettar
fuori in qualche modo. Scelse il meno pericoloso per se stesso e per
gli altri: il telefono.
“ Ehi,
Cas, sempre io. Ci sono novità,” barrì
una mattina mentre Sam
andava a caccia di caffè. “Hai presente mio
fratello, quello a cui
hai tolto il muro mentale? Beh, ben fatto. È andato, gli si
sta
fottendo definitivamente il cervello. Quindi grazie, angelo salvatore
e redentore dell’universo tutto, brutto bastardo infame,
vorrei
tanto che sulla ruota ci finissi tu, e che restassi lì a
essere
fatto a pezzi per l’eternità.”
Successe
davvero. Ospedale psichiatrico, l’ultima fermata prima della
morte
cerebrale. Dean vide soltanto la faccia disfatta di Sam e il suo
sguardo rassegnato nel momento della lucidità, pallido,
quasi grigio
di occhiaie. Non riuscì più a percepire
nient’altro. Telefonò a
tutti i cacciatori che poteva trovare, chiunque, metodicamente,
lasciando messaggi che probabilmente sarebbero rimasti senza
risposta, sempre più sconfortato, sempre più a
pezzi. Chiamò
persino un numero saltato fuori dal portafoglio di Bobby, e aveva
fatto tante di quelle telefonate che a un certo punto fece anche
l’ultima.
“ Beh,
Cas, di bene in meglio. Sam è internato, e probabilmente
non ne
uscirà mai più. Quindi,
ehi…” Si morse le labbra cercando di
mantenere la calma e la voce ferma, anche se aveva la vista
appannata. “…Beh, grazie. Di tutte le tue porcate
questa è la
peggiore. E non so perché vorrei lo stesso che fosse come
prima e tu
fossi qui a dare una mano e sistemare le cose. Potresti. Avresti
potuto, dovevi solo fidarti di noi. Quindi vai al diavolo,
letteralmente, e se almeno tu fossi qui…”
Buttò
giù di violenza, quasi scagliando via il telefono. Non era
sano. Non
serviva a niente. Suo fratello era perso, non sapeva cosa fare, Bobby
non c’era più e lui parlava con un angelo morto,
che non era un
buon modo per superare la cosa ma tanto in definitiva non ci
riusciva. Era abituato a superare lo schifo, ma non quello.
C’era
qualcosa di freddo e malinconico che glielo impediva.
Ma
nessuno lo poteva aiutare, e in fondo Dean lo sapeva da solo. Non
esistevano magici stregoni che potessero salvare suo fratello,
nessuno poteva più aiutare Sam e nemmeno aiutare lui. Era
così
disperato che ritelefonò la mattina successiva semplicemente
per il
bisogno di dire di nuovo a voce alta quant’erano tristemente
finiti, aspettandosi la segreteria telefonica.
“ Siamo
spiacenti,” annunciò invece in modo profondamente
irreale una voce
femminile registrata, “il numero da lei composto è
inesistente o
inattivo.”
Dean
rimase per qualche secondo aggrappato al telefono contro il suo
orecchio. Quello stronzo era così stronzo che il suo numero
di
cellulare si era disattivato nella settimana più brutta
della sua
vita. Cercò di respirare, per qualche secondo, mentre
pensava che non
rimaneva nulla, adesso, soltanto lui e Sam che moriva piano, non c'era
nemmeno
più la voce, di Castiel, nemmeno più un alito di
esistenza, soltanto un vuoto immenso e nero fatto di rabbia e
nostalgia. Lo
odiava, aveva bisogno di lui, non c’era più niente.
Rimase
in uno stato penoso per quasi tutto il resto della giornata. Non
uscì
nemmeno dalla stanza e si sentiva così disperato che a un
certo
punto, preso dallo sconforto assoluto, cominciò a cercare
recapiti
di ciarlatani su internet in caccia di qualche magico curatore. Stava
scrutando vacuo la pagina del fantastico “Amazing
Grace”,
l’ennesimo gruppo di ladri travestiti da santoni, quando il
suo
cellulare squillò.
“ Dean,”
rispose meccanicamente.
“ Malckey,”
annunciò la voce dall’altro capo. “Ho
sentito il messaggio. Ehi,
mi spiace per Bobby.”
“ Sì,
anche a me,” rispose lui, cercando di non pensarci realmente.
“ Senti,
a proposito di quello per cui hai chiamato… Potrei avere
qualcosa
per te. C’è questo tizio, si fa chiamare Emanuel.
Uno che gira. Ho
sentito dire un paio di mesi fa che cura gli ammalati e fa rinsavire
i matti. Ovviamente la cosa mi puzzava alla grande. Avevo sentito che
il modo migliore per contattarlo era tramite sua moglie Daphne, in
Colorado. Così ci vado. Dico che sto diventando cieco.
E’ vero, il
mio occhio destro era fottuto. Lei mi dice di tornare a casa e che
lui verrà. Quindi ci vado e preparo trappole di ogni genere,
come da
manuale.”
“ Avrei
fatto lo stesso,” commentò Dean, ansioso di
arrivare al punto.
“ Emanuel
arriva, le passa tutte indenne. Non c’è niente di
strano in quel
tizio, tranne… Che lo fa davvero.”
Dean
trattenne il fiato per un secondo.
“ Cosa
intendi?”
“ Mi
ha toccato e il mio occhio è guarito.”
Dean
riprese a respirare veramente per la prima volta da giorni.
Emanuel.
L’ultima speranza.
|