Les mains de la Gilda
Storia terza classificata al contest "Il sonno e... l'Inchino" indetto da Harriet_Myres su Original Concorsi.
Titolo: Les mains de la GILDA
Tipologia: one-shot
Lunghezza: 4350 parole
Genere: fantascienza, introspettivo, mistero
Avvertimenti: lime
Rating: arancione
Credits: ci sono alcuni riferimenti alla cristalloterapia
Note dell'autore: questa storia
è il seguito ideale della mia “Indaco Café”,
ma può essere letta a prescindere da essa.
Introduzione alla storia: È
notte fonda sulla città di Namur. Nel silenzio gelido della casa
dell’antiquario Van Der Elst, si agitano pensieri. Pensieri
gloriosi, sensuali, risentiti, di morte.
Quando aprì gli occhi, gli aloni dorati dei lampioni a gas
velavano ancora i vetri della finestra, oltre la sottile crosta gelata
che li decorava. La notte indugiava sopra i tetti della città,
scura e silenziosa. Namur poltriva ancora, accoccolata sonnolenta sulle
sponde della Mosa e del Sambre che scorrevano pigri fra le sponde
orlate di ghiaccio.
Una carrozza passò da qualche parte lungo la strada: le ruote
stridevano sul selciato e un misterioso marchingegno borbottava
affannato mentre la spingeva chissà dove. Una voce rauca
lanciò quelle che potevano essere imprecazioni.
Si mosse lento sotto le coperte, sentendo l’aria fredda della
stanza passargli sulle guance. Prese un profondo respiro, sistemandosi
meglio e stiracchiando il collo. Il tepore che l’avvolgeva era
talmente piacevole da rendere sopportabile il distacco dal regno di
Morfeo. Tepore che si mescolava alla certezza di una presenza al suo
fianco.
Ascoltò il suo respiro calmo, regolare, man mano che gli occhi
si abituavano alla poca luce. Cominciò a riconoscere gli spigoli
dei muri, la massa scura della tenda di velluto, il profilo
arzigogolato degli arredi.
Quando finalmente riuscì a distinguere i contorni del mondo,
sollevò un poco le coltri, scrutando al di sotto con malcelata
malizia. Lavinia dormiva tranquilla, i ricci scuri le sfioravano le
spalle, disegnando un’aureola arruffata sul cuscino. Nella
penombra ambrata, la sua schiena nuda e deliziosamente inarcata
sbiadiva nelle ombre che contornavano la rotondità delle
natiche. Il contrasto della pelle liscia e dorata dell’italiana
con le lenzuola stropicciate era sempre uno spettacolo piacevole,
stuzzicante. Talvolta la sfiorava con un dito, lievemente, per poter
assaporare in segreto quel misto inebriante di tepore e morbidezza.
Sospettava che lei lo lasciasse fare, che fosse a conoscenza di
quell’innocente vizio, ma se fosse stato così, si era ben
guardata dal dirglielo.
Fra i loro corpi c’era uno spazio di due spanne abbondanti.
Lavinia non si raggomitolava mai contro di lui, né cercava con
insistenza il suo abbraccio: soddisfatta dall’orgasmo e dalle
poche parole sussurrate ancora preda della libidine che scemava, si
voltava sul fianco sinistro infilando un braccio sotto al cuscino e
lì restava, senza muoversi, fino a mattina. Hendrik non se ne
dispiaceva, abituato com’era ad una limitata quantità di
contatto fisico. Anzi, apprezzava enormemente quel vuoto nella loro
intimità, che permetteva ad entrambi di non sentirsi troppo
coinvolti in quella relazione. Nessuno dei due desiderava averne una
nel senso stretto del termine, sebbene molti li additassero come una
felice coppia di piccioncini un po’ fuori età.
Condividevano qualche interesse, al di là del sesso, amicizie ed
un rapporto lavorativo. Solo questo, nient’altro. Sapevano di
poter contare l’uno sull’altra, riconoscendo il valore di
ciascuno, e di non essere indispensabili all’altrui
felicità.
Voltò la testa e lo sguardo assonnato intercettò
l’angolo di una busta che si ergeva pallido sullo scrittoio.
Quella vista cancellò rapidamente la beatitudine dei primi
attimi del risveglio.
Quando la sera precedente aveva sentito bussare alla porta del negozio,
aveva pensato ad un cliente ritardatario. Il buio era già sceso
sulle strade e i lampionai stavano terminando il consueto giro di
accensioni. Aveva avuto giusto il tempo di mettere sotto chiave una
collezione di minuscole statuette d’avorio, prima d’essere
investito da questioni più pressanti.
Il ragazzino che accompagnava Lavinia – o meglio, che lei aveva
accompagnato – gli aveva consegnato una busta con
l’inconfondibile sigillo della GILDA1:
una catena spezzata da una piuma. Si era chiuso nello studio,
decodificando il messaggio attraverso un cifrario. Era stato un lavoro
nel lavoro: parole di banale formalità assumevano toni foschi e
imperiosi attraverso il filtro del codice, ricomponendosi in una
domanda precisa.
Hendrik si alzò, deciso ad approfittare della quiete che
aleggiava nella stanza per riflettere un’ultima volta sul da
farsi.
Scivolò fuori del letto, sentendo la pelle coprirsi di brividi.
Prese la veste da camera dall’appendiabiti, silenziosa sentinella
accanto alle ordinate pile di vestiti e crinoline lasciate lì
dalla sera precedente.
Fitte sottili come aghi percorsero il braccio destro, lì dove
terminava nella piastra metallica, poco sopra la metà
dell’omero. Lo massaggiò, le dita che finivano spesso ad
accarezzare il vuoto in una vana ricerca. Pur essendo trascorsi
più di vent’anni dall’incidente, soffriva ancora
della fastidiosa sensazione che i medici chiamavano “sindrome
dell’arto fantasma”.
Sulla poltroncina davanti al caminetto trovò la protesi, insieme
alle cinghie di sostegno ed al motore biodinamico che l’azionava.
L’arto era molto elegante, dimensionato secondo le proporzioni
del portatore; era rivestito di placche brunite e finemente decorate,
con bordi arrotondati, studiati per assicurare movimenti fluidi ed
evitare strappi negli abiti.
Gettò distrattamente uno sguardo alle custodie gemelle accanto
allo scrittoio. Contenevano un’altra coppia di braccia
meccaniche, di un genere ben diverso.
Aprì la busta che Rat gli aveva consegnato.
Era preoccupante pensare che missive tanto pericolose gravassero su
spalle così fragili. Al tempo stesso però era
confortante: Eugène, o meglio, Rat, lavorava già da
alcuni anni per la GILDA e ciò poteva solo significare che fosse un tipo in gamba.
Smosse le braci morenti nel caminetto, deponendovi un paio di ciocchi
per ridare vigore alla fiamma. In pochi attimi, sottili lingue
scarlatte presero ad accarezzare il legno ed un vago tepore raggiunse
le sue gambe. La luce aumentò lentamente, contenuta dai pannelli
di legno e maiolica che ornavano la bocca del focolare.
Si spogliò di nuovo, armeggiando con le strisce di cuoio che
sostenevano il braccio. Indossare l’imbragatura non era
un’operazione semplice da eseguire con una sola mano a
disposizione, tuttavia gli anni di pratica gli consentivano una
discreta autonomia. Fissate le cinghie principali, passò alla
parte più sgradevole.
Ruotò la ghiera alla sommità dell’apparecchio,
facendo emergere una serie di perni e appendici dentate. Li
accostò alla piastra, facendoli combaciare con i fori su
quest’ultima e spinse. Non appena gli innesti scattarono nella
carne e nel metallo, bloccò in posizione l’articolazione
ruotandola di novanta gradi. Seguirono fastidiosi secondi durante i
quali i nervi si tesero fino ad allacciarsi ai circuiti in rame e
timidi impulsi elettrici cominciarono a fluire nei conduttori. Al primo
spasmo delle dita, Hendrik accese il motore ausiliario che
iniziò a ronzare.
Mentre aspettava che i meccanismi entrassero pienamente in funzione,
rilesse il biglietto per l’ennesima volta. Era vergato con una
calligrafia elegante ed ampollosa, svolazzante, inclinata verso destra.
Nonostante l’aspetto lezioso, l’arcano significato lo
privava di ogni raffinatezza.
La proposta era chiara: recarsi a Londra, rintracciare la vittima e
ucciderla. Nient’altro, tranne un breve accenno alla persona in
questione.
«Il Prussiano»
meditò. «Studioso di ingegneria, biotaumaturgia e
meccanica dei flussi eonici. C’è di che renderlo un
martire o un tiranno» considerò.
Aveva pensato di terminare il suo servizio entro i successivi due o tre
anni, in base a quali richieste fossero giunte, ma quel biglietto
cambiava tutto. Avrebbe potuto congedarsi con largo anticipo rispetto
al contratto. Certo, in gioco c’erano molti più rischi del
solito – un numero esorbitante di guardie armate, l’ampia
visibilità del personaggio, i luoghi che frequentava, le
conoscenze ed i poteri di cui si presumeva fosse in possesso -,
tuttavia, riuscendo nell’impresa, la GILDA avrebbe potuto ritenersi più che soddisfatta e non avrebbe avuto a che ridire del suo ritiro.
«Congedo. Un cospicuo vitalizio. Immunità diplomatica
garantita per gli anni a venire. Eventuali collaborazioni per formare
le nuove leve» gongolò, immaginandosi dietro una cattedra.
«E poi c’è il negozio. Potrei assumere qualcuno per
occuparsene mentre io vagabondo per il mondo trattando nuovi acquisti,
senza dover ricorrere a subdoli intermediari che pretendono percentuali
vergognose per dell’inutile chincaglieria».
In fondo, l’attività di copertura come antiquario gli era
sempre piaciuta almeno quanto la possibilità di viaggiare come
assassino prezzolato. Perché non renderla la sua sola fonte di
reddito? Un lavoro completamente onesto, alla luce del sole. Avrebbe
avuto comunque a che fare con la morte – quella dei precedenti
proprietari degli oggetti, o degli oggetti stessi quando si trattava di
fossili e mummie -, ma in vesti meno sanguinose.
Dall’altra parte però, una voce dentro di lui tentava di
mettere a tacere l’entusiasmo. Poteva pure essere annoverato tra
i dieci migliori assassini d’Europa, ma quell’incarico
scottava più di una colata in fonderia. Accettarlo poteva
significare correre enormi rischi, non da ultimo quello di lasciarci le
penne. Il personaggio in questione era un uomo astuto, un politico di
spicco della scena internazionale e perennemente al centro di quella
culturale in veste di mecenate. Una figura scomoda per le élite
di nobili e governanti, ma amatissima dal popolo e dagli squattrinati
che prendeva sotto la sua ala. Avrebbe potuto trovarsi invischiato in
una ragnatela troppo grande e complessa, per scorgere in tempo una via
di fuga. O peggio ancora, essere la causa di un conflitto in piena
regola. Un conto era togliere la vita ad una sola persona, un altro era
averne migliaia sulla coscienza, di cui neppure si conoscevano i nomi.
Davanti a cosa doveva chinare il capo, a chi inchinarsi? Alla
possibilità di dare una svolta alla propria vita, certo, ma in
che direzione? Verso pochi anni da dividere tra la morte di un
banchiere e di una moglie infedele, portando l’onta di un diniego
ad una delle più encomiabili organizzazioni al servizio di
sovrani e politicanti? Oppure doveva assentire alla richiesta avanzata,
offrendosi ad un unico, grande, inarrivabile delitto, che avrebbe
potuto scrivere il suo nome in annali destinati al sapere di pochi?
***
Le alte librerie dello studiolo raggiungevano il soffitto, zeppe di
volumi stampati, manoscritti e mappe riservate ai clienti più
esigenti e fidati. Davanti al caminetto c’era un divanetto, da
cui penzolavano le gambe del corriere.
«Eugène» chiamò.
Il ragazzino mugolò, rigirandosi e senza dare alcun segno di
volersi svegliare. I capelli biondi somigliavano a ciuffi di paglia che
sporgevano da sotto il braccio, che teneva ripiegato sulla testa.
«Rat?» insisté, alzando un poco la voce.
Il giovanissimo messo continuò a dormire beato in una posa
improbabile e, all’apparenza, particolarmente scomoda. Pareva
quasi disarticolato, come quei flaccidi pupazzi di pezza che tanto
amavano le bambine.
«Rat!» urlò scuotendolo.
Il corriere scattò a sedere con tanta foga da rischiare di cadere sul pavimento.
Gli occorse qualche secondo per riaversi dallo spavento e capire cosa stesse succedendo.
«Sì, sì, monsieur. Vi sento, vi sento, non sono
mica sordo…» biascicò stropicciandosi un occhio.
Chinò il capo sbadigliando e grattandosi la nuca, allacciandosi una stringa.
Si era addormentato con le scarpe ai piedi, casomai avesse avuto
bisogno di muoversi anche nel cuore della notte. Si domandò
brevemente chi dovesse ringraziare per la fortuna di aver potuto godere
di una via di mezzo tra un pisolino ed una mezza dormita: non capitava
spesso da Van Der Elst. Anzi, quasi mai. Di solito lo faceva trottare
per le strade della città negli orari più improbabili,
neanche fosse un dannato animale da soma senza stalla o un automa privo
di schede perforate. In più di un’occasione aveva
rischiato di addormentarsi per strada, semplicemente appoggiandosi ad
un muro.
«Vai al Quartier Generale» disse porgendogli la lettera di
risposta e allontanandosi di qualche passo. «Dì loro che
facciano presto. Voglio tutti i dettagli entro sera» e
così dicendo gli porse una bottiglia.
Rat annuì stancamente, stropicciandosi di nuovo gli occhi.
Sbadigliò rumorosamente mentre leggeva l’etichetta sopra
il liquido ondeggiante. Gli scappò una specie di sorriso e
cominciò a frugare nella tasca della giacca. Ne tirò
fuori una fiaschetta di metallo, una rozza imitazione di quelle
d’argento che facevano bella mostra di sé nelle vetrinette
di Hendrik. La stappò e bevve una lunga sorsata. Note pungenti
di alcol di bassa qualità si sparsero nell’aria.
«Che diamine stai facendo, marmocchio?» sbraitò l’uomo, strappandogliela di mano.
«Ehi! È mia!» protestò cercando di riprenderla.
«A chi l’hai presa?»
«Non l’ho rubata!» ringhiò, improvvisamente ben sveglio e offeso.
L’antiquario si morse la lingua. Sapeva che Rat riceveva
giornalmente accuse del genere, spesso a ragione, ma si rese conto che
in quel caso avrebbe potuto risparmiarselo. L’insinuazione, per
quanto dettata da sincera preoccupazione, aveva sortito un effetto
indesiderato.
«Ne sono certo» si scusò con tono più pacato,
scegliendo di non indagare sul contenuto. «Da dove arriva?»
chiese allungandogliela.
Lui storse il naso, scrutandolo di sottecchi.
«L’ho comprata» borbottò seccato mentre la
riponeva al sicuro nella giacca. «Al mercatino di Père
Brochard, su, alla Cittadella».
«Buon acquisto?»
«Quel frate è un ladro! Tutto quello che ci metto sa di
ferro. Per cinquanta centesimi poteva darmi la sua. Piena»
soggiunse irritato.
Hendrik sorrise a quell’affermazione. Il religioso era noto in
tutti i bassifondi come una figura assai poco pia e devota ad un tipo
di spirito facilmente reperibile in qualunque taverna o distilleria. Si
favoleggiava della sua abilità nello spillare offerte a
chiunque, ma l’unica volta in cui l’aveva incontrato, era
talmente ubriaco da poter recitare solo un rosario di rutti e bestemmie.
«Su, sbrigati. E vedi di non perdere tempo con Sebastien» lo ammonì.
Rat sghignazzò, infilando il dono nella cintura dei pantaloni.
«Allora gli darò subito la bottiglia, così non
comincerà a scocciare con le sue solite domande».
Il portinaio della GILDA era noto per il suo
caratteraccio e la tendenza a sottolinearlo con le armi che gli erano
state impiantate al posto delle gambe.
Accompagnò Rat fuori dallo studio, raccomandandogli la massima
attenzione e celerità, sentendosi rispondere con
l’abituale cantilena a pappagallo. Ormai il corriere
l’aveva imparata a memoria.
Aveva già appoggiato il palmo sul mancorrente, deciso a tornare
di sopra in cerca di un secondo oblio, quando si sentì chiamare.
«Monsieur?»
Il ragazzino stava un gradino più in basso, calcandosi il berretto sui capelli biondi.
«La prossima volta che vi date da fare con mademoiselle, dovreste
montarla con meno foga. O dovreste pregarla di fare meno baccano. Ho
fatto fatica a prender sonno con tutte quelle urla»
commentò, sgattaiolando rapido giù per la scala, diretto
all’uscita per evitare uno dei memorabili schiaffi del suo
cliente.
Hendrik rimase indeciso se inseguirlo o rimanere dov’era,
allibito dai modi sempre meno da bambino di Rat. Lo conosceva da quando
aveva sette anni e vederlo gironzolare con una fiaschetta di pessimo
jenever2, parlando apertamente di
ciò che facevano gli adulti nascosti dietro le porte delle
camere da letto, era quasi avvilente. Lo faceva sentire più
vecchio di quanto non fosse.
«È l’ultimo» ribadì a sé stesso,
mentre i passi del ragazzino si perdevano fra i muri. «Deve
essere l’ultimo lavoro davvero. Non possono obbligarmi a
continuare».
Tornò di sopra, massaggiando distrattamente la spalla destra.
***
Giunto sul pianerottolo, si fermò per sistemare la cinghia che
correva sotto l’ascella. L’aveva stretta troppo e
cominciò ad allentarla con le dita intirizzite. L’aria nel
resto della dimora era fredda e immobile.
Sperava di trovare Lavinia ancora addormentata, per potersi perdere
nuovamente nella contemplazione delle morbide linee del suo corpo.
Desiderava assentarsi dal mondo per vagare con lo sguardo fra i ricci
bruni che si allargavano sul cuscino, impertinenti e selvaggi. Sapeva
quanto la donna impazzisse per tenerli in ordine con forcine e
fermagli: la moda esigeva che le donne perbene portassero lunghi
boccoli ordinati, non nuvole di piccole spirali dotate di vita propria.
Prima ancora di raggiungere la porta però, la sentì muoversi fra le lenzuola, canticchiando sottovoce.
Entrò comunque in punta di piedi, rivolgendole un sorriso di
scuse. Lei rispose con un cenno del capo, invitandolo a raggiungerla.
Si era voltata sul fianco destro e stava sollevata sul gomito, in
attesa. Le coperte si chiudevano attorno a lei in un abbraccio
seducente ma Hendrik scoprì d’essere ormai del tutto
sveglio ed immune al tiepido richiamo.
«Decisione difficile?» domandò Lavinia, senza tanti preamboli.
Hendrik sedette sul bordo del letto, mordendosi l’interno della guancia.
La guardò, le braccia incrociate sotto al petto prosperoso. Lei
rispose osservandolo senza troppa curiosità, come se già
conoscesse la risposta. Era un altro vantaggio del loro rapporto:
niente discorsi inutili. Bastava uno sguardo, un segno, per capirsi.
Non aveva letto il biglietto, tuttavia poteva tranquillamente indovinarne il contenuto: anche lei lavorava per la GILDA; le sue capacità di metallurga e gemmologa la rendevano indispensabile per chi, come Hendrik, impiegava armi protesiche.
«Dormito bene?» sviò, appoggiando a terra il motore ausiliario.
Lei si stiracchiò voluttuosa, scoprendo le spalle.
«Fino ad un certo punto sì. Ma quando ti sei alzato,
monsieur, ti sei scordato le buone maniere e mi hai lasciata con la
schiena al gelo. Molto poco cortese da parte del padrone di casa,
andare a godersi il calduccio del caminetto, lasciando che
un’ospite rimanga sola e rischi di ammalarsi nel suo letto. Non
trovi?» obbiettò, tutt’altro che risentita.
«Mi dispiace» rispose, aggiustando il morsetto di un cavo di alimentazione del braccio.
Tacquero per diversi minuti, assorti nella contemplazione del
silenzioso torpore che aleggiava sui tetti e nelle strade. Quante
persone potevano essere sveglie, oltre a loro,
nell’oscurità? Qualche gendarme, i ladri, i fornai. Forse
gli operai di qualche officina o delle rotative della cartiera. Il
resto di Namur dormiva.
«È una richiesta molto impegnativa?»
L’uomo si limitò ad annuire.
«Mi pare di capire però, che tu abbia preso una decisione» proseguì.
Lui annuì di nuovo.
«La più difficile che abbia mai dovuto prendere in vita
mia» ammise. «Avrei preferito declinare, ma
l’occasione è troppo ghiotta per perderla. Gloria, denaro,
fama, onori. Tornaconti personali che non sto ad elencarti.
Probabilmente qualche ferita. Il congedo».
Aggiunse quell’ultimo dettaglio scrutandola con la coda
dell’occhio. Vide le sue labbra disegnare una “o”
silenziosa, lo sguardo perso in direzione del caminetto che stava
tornando a spegnersi. Si era aspettato un commento sulla
possibilità che lasciasse l’ufficio prima di compiere
quarantacinque anni come aveva preventivato, ma Lavinia tacque.
Probabilmente stava soppesando quali sarebbero stati gli esiti del
commiato per lei ed il suo lavoro.
«Rat ti fa presente che durante i nostri incontri a letto
dovresti trovare un modo per zittirti. O dovrei trovarlo io. Ha detto
che le tue urla lo hanno tenuto sveglio».
Lavinia sgranò gli occhi, passando esterrefatta una mano fra i riccioli.
«Le mie… urla?» domandò perplessa, mettendosi
a sedere. «Piccolo briccone ficcanaso. Ora non si limita
più a sbirciare dalle vetrine del mio negozio: origlia dietro le
porte. E tu? Che gli hai detto?»
Evitò di dirgli quanto trovasse buffa e surreale la situazione.
Hendrik le aveva fatto notare più volte quanto i suoi sfoghi
vocali fossero degni d’una cantante d’opera, ma non
l’aveva mai tacciata di scatenare l’insonnia. Né
tantomeno si immaginava fonte di tale curiosità per un ragazzino
che già mostrava d’avere un debole nei suoi confronti.
«Niente» rispose, lo sguardo catturato dal languido oscillare dei suoi seni.
La donna non vi fece caso. Era abituata agli sguardi interessati che
molti uomini rivolgevano alle sue forme, anche quando era vestita di
tutto punto.
«Come sarebbe a dire “niente”? Nessuna paternale al
nostro ascoltatore? Nessuna ramanzina sull’educazione in casa
altrui? Sul fatto che un ragazzino dabbene non dovrebbe impicciarsi
delle questioni private degli adulti? Non è da te».
«Era già corso via. Ha uno scatto notevole» osservò, avvedendosene solo in quel momento.
Prima non l’aveva notato per via della sorpresa, ma ripensandoci
a mente fredda diventava disarmante la rapidità con cui
Eugène era scomparso nelle scale.
A quelle parole, lei si lasciò cadere sulla schiena. Rise di
gusto immaginando la scena di uno dei migliori assassini della GILDA lasciato con un palmo di naso.
«Perdi colpi, mio caro assassino. Ti sei fatto giocare da un
tredicenne. Non starai diventando troppo vecchio?» scherzò.
La mano meccanica saettò nell’aria, serrandole la gola e
facendola sprofondare nei cuscini. L’espressione
dell’antiquario era diventata una maschera gelida. Nonostante i
capelli ricadessero sul suo volto, nascondendolo, i suoi lineamenti
spigolosi sembravano taglienti come lame. Era facile immaginare quanto
potesse somigliare all’immagine negli occhi delle sue vittime.
«I pesci piccoli non m’interessano. Tuttavia potrei non
essere così indulgente con una donna che in trentadue anni di
vita ha affilato un po’ troppo la lingua» minacciò,
curvandosi su di lei.
L’orafa non temeva le intimidazioni del sicario, né cadeva
nel banale trucco di ricordarle la sua età. Stavano dalla stessa
parte, non avrebbe avuto alcun beneficio dall’ucciderla. Men che
meno considerando che non c’erano altri metallurghi con le sue
capacità sulla piazza.
«Sei ancora spiritoso per i tuoi quarantatre anni» replicò sarcastica.
Lui decise di cambiare discorso, allentando la presa.
«Ho bisogno che tu faccia qualche modifica alla mia attrezzatura».
«Sono molto stanca, Hendrik. I gioielli che ho creato per Natale
mi hanno sfiancata. Non hai idea di che richieste assurde mi siano
state fatte quest’anno» si lagnò, senza troppa
convinzione.
«Potrei darti un anticipo. Diciamo… un acconto per il disturbo?» azzardò.
«Non ti pagano mai prima del tuo rientro» rammentò laconica, incrociando le braccia.
«Parlavo di un tipo di pagamento alternativo»
ammiccò, lasciando che le dita metalliche scivolassero lungo il
corpo dell’interlocutrice, che rabbrividì.
Pur trattandosi di un insieme di pezzi in fredde leghe metalliche, la
delicatezza con cui l’uomo la usava era prossima a quella di una
mano in carne ed ossa.
«Dubito tu possa fare qualcosa il cui valore raggiunga quello
delle mie indiscusse capacità taumaturgiche» lo
stuzzicò, poggiando la punta dell’indice lì dove
avrebbe dovuto essere il dorso della mano sinistra. «Comunque,
sentiamo: cosa ti occorre?»
Ora era la sua espressione ad essere mutata: stava completamente
abbandonata fra le braccia dell’antiquario, sognante e nel
contempo sofferente, gli occhi chiusi come se dormisse.
Il metallo emise una vibrazione, una sorta di risposta ad un muto
richiamo. L’assassino sentì pizzicare i contorni del disco
d’ottone e percepì movimenti involontari all’interno
del dispositivo.
«Devi cambiare il disegno delle placche, il loro incastro. Ho
bisogno della massima stabilità durante il colpo. Devono
chiudersi alla perfezione, senza sbandamenti, anche nel caso dovessi
prendere la mira molto rapidamente o mentre sono in corsa».
«Sì» sospirò, risalendo lungo il rivestimento, i cui decori tremolavano debolmente al suo tocco.
Le labbra dell’orafa si muovevano impercettibilmente, mormorando parole vaghe e sconosciute.
«Ho bisogno di qualche inserto che aumenti la mia capacità
di concentrazione. Devo pensare con chiarezza, senza distrazioni. Non
posso sbagliare».
«Avventurina3» mormorò.
Il braccio meccanico ebbe una contrazione asincrona, scuotendosi come
una creatura vivente, mentre una scarica di energia dilagava frizzando
nella spalla dell’antiquario.
«E deve prevenire qualunque dolore fisico» aggiunse, mordendosi il labbro per il fastidio.
A quelle parole, Lavinia riaprì gli occhi.
«Agata. E tormalina nera4 per
guarire le cicatrici» concluse sorniona prima di scendere dal
letto. «Avevi bisogno di un po’ di manutenzione. Alcuni
estensori erano piuttosto fiacchi e lo snodo sferico del gomito era
rovinato. Per non parlare delle lamine di rivestimento: hanno una linea
demodé. I decori stile damasco andavano bene qualche anno fa,
ora si opta per grafie giapponesi, come le squame di pesce o i rami di
ciliegio. Ti donerebbero. Saresti l’assassino più alla
moda in circolazione. Ho fatto un paio di esperimenti con il rame e
l’ottone, e li ho trovati piuttosto soddisfacenti»
dichiarò, infilando la camiciola di lino.
«Non crederò mai che tu possa sentirti debole dopo uno dei
tuoi incantesimi» mugugnò Hendrik, scrollando il capo.
«Trasferimento plastico di flusso» precisò
indispettita, cominciando ad infilare lentamente una calza color
caffè.
Lavinia non ammetteva si generalizzasse riguardo le sue
peculiarità. Se ad un atto tecnico corrispondeva una
definizione, pretendeva venisse utilizzata e che lo fosse nella maniera
più appropriata. Le cose dette tanto per dire la facevano
infuriare.
«Hai comunque troppa energia in quella tua linguaccia italica per
essere stanca» la redarguì lui, giocherellando con
l’altra calza che pendeva, simile ad una bandiera, dal bordo del
comodino.
Era l’unico capo di vestiario fuori posto e lo era per ottimi – e seducenti – motivi.
«Sabauda, prego» lo corresse. «Che ore sono?»
«Le sei, credo. Mi fai compagnia per colazione?» propose, facendo scorrere la seta tra le dita.
Lavinia non rispose subito, intenta a posizionare il corsetto attorno
ai fianchi. Prese dalla borsetta un minuscolo marchingegno a molla che
applicò alla base della schiena. Ticchettando, il congegno prese
ad allacciarle il bustino.
«No. Ho appuntamento con un’amica all’Indaco
Café per le otto e sai quanto mi ci vuole per sistemarmi come si
deve. Senza contare che dovrei anche arrivare fin là. Piuttosto,
ti va di venire con me? Avrei bisogno di una mano con quelle, se vuoi
che cominci a sistemartele già oggi» e additò le
due custodie.
Hendrik sospirò, appoggiandosi alla spalliera del letto.
«Sai che quel locale non fa per me. E più ancora, detesto
i discorsi fra voi donne. Di prima mattina, poi… Preferisco
andare alla Galerie de l’Opéra, forse Fabrice potrà
darmi qualche delucidazione sul lavoro. O meglio ancora, potrei
restarmene a letto a riposare. Ho trascorso davvero una pessima
nottata» sbadigliò.
L’orafa stava in piedi, terminando d’indossare il complesso
armamentario di lingerie: camiciola, busto, culotte, ed il loro
intricato carico di lacci, nastri e merletti.
«E tu, da galantuomo quale ti fai passare, vorresti che io
portassi quei catafalchi fino a casa, tutta sola, solo per startene qui
a poltrire?» chiese, rimirando allo specchio l’effetto
delle sue bellezze strizzate dall’austera biancheria.
Lui fece spallucce, come a dire che non avrebbe potuto essere diversamente.
Indispettita, Lavinia si avvicinò e tese la gamba, poggiando il
piede sul ginocchio dell’uomo. Lui cominciò a far scorrere
lentamente la seta scura verso l’alto, scoprendo un ricamo
floreale attorno alla caviglia.
«Per tua fortuna sono una donna che non brama il cavalier
servente, o non esiterei a definirti un mostro»
sottolineò.
«Alcuni mi hanno chiamato così» riconobbe con una punta d’orgoglio.
Appellativi simili facevano parte del repertorio di frasi gridate,
piante o supplicate dall’obiettivo di turno, nel momento cruciale
del loro incontro.
Il suo carnet di omicida era decisamente invidiabile, sia per numero di
vittime che per raffinatezza stilistica, tanto da valergli la stima di
molti colleghi e l’invidia di parecchi altri.
Vide la donna chinarsi, cingendogli il collo con l’altra
giarrettiera e tirarlo verso di sé. Due occhi scuri occuparono
l’intero campo visivo del sicario.
«Peccato non possano ricordartelo, visto che sono tutti morti» sogghignò perfida.
1 Gilda: Guilde Internacionale Label Des Assassins, ovvero Gilda Internazionale Marchio degli Assassini
2 Jenever: liquore olandese a base di ginepro, da cui si è evoluto il gin.
3 Avventurina: in cristalloterapia serve a portare tranquillità interiore, distensione, "sangue freddo".
4 Agata… tormalina nera: in
cristalloterapia, la prima lenisce i dolori muscolari, mal di testa,
crampi e previene disturbi agli occhi; la seconda è utilissima
contro gli stati dolorifici in genere. Previene la formazione delle
cicatrici, riduce le nevrosi e gli stati di tensione.
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