Ho sognato la Biblioteca di Alessandria.
Camminavo in una piana immersa nelle nebbie. In tutte le direzioni era
il bianco e nulla era al di fuori del bianco.
Non saprei testimoniare con precisione ciò che vidi, o credetti di
vedere, giacché la coltre del sonno ottundeva i miei pensieri, come la bruma
che mi circondava annebbiava la mia vista.
Per quanto tempo errai senza meta in quelle lande, non saprei dirlo.
Non avevo smarrito la via, perché non c’era alcuna via. Oscuramente ricordo di
aver avuto il timore di non fare mai più ritorno. O forse temetti di svanire io
stesso nel nulla che mi circondava.
Ma poi, lentamente, quasi per un’oscura alchimia, la nebbia, pur
rimanendo sempre identica a se stessa, in certi punti fu come se si
condensasse, dando origine a immateriali colonne.
Presto mi accorsi –tuttavia- che le colonne non poggiavano sul piano
che io stesso calcavano, ma si inabissavano sotto i miei piedi almeno quanto si
innalzavano sopra il mio capo.
Fu così che mi resi conto di non stare affatto camminando su quello che
credevo essere il suolo.
La mia mente vacillò e con essa i miei piedi che mi trascinarono in una
folle caduta. Come compresi in
seguito il termine non era adeguato, ma in quel momento il terrore non lasciava
posto a simili sofismi.
Ancora una volta, non saprei dire per quanto tempo si protrasse la
caduta. So solo che non finì con quello che di solito conclude una caduta,
ovvero un distruttivo impatto contro una superficie eccessivamente dura.
Del resto, non era questo il solo elemento che la differenziava da una
normale caduta.
Per comprendere questo punto è forse necessario fornire al lettore
qualche altra informazione sulle singolari caratteristiche di quel luogo. Si è
detto che vi era nebbia. Forse chi legge, affidandosi a ingannevoli analogie,
potrebbe supporre che vi fosse anche umidità, o vento, o perlomeno aria, e
tutti quei fenomeni che accompagnano la nebbia nella comune esperienza.
Debbo avvisare fin d’ora il lettore che ogni riferimento all’ordinario
condursi delle cose risulterebbe, in questo caso, non solo inutile ma bensì
fuorviante e illusorio.
Non vi era nulla, in quei frangenti, che potrebbe ricordare un fenomeno
atmosferico. Non vi era umidità, ma nemmeno secchezza, non tirava vento, nè
l’aria opponeva la minima resistenza.
La stessa nebbia non condensava, né si diradava. Sempre uniforme,
avrebbe potuto essere un velo posto davanti agli occhi. Le colonne mantenevano
sempre la stessa forma perfettamente circolare durante la discesa, anche se,
essendo della stessa materia dell’aria che le circondava, si potevano intuire
solo grazie all’ombra che la loro forma creava.
Dunque, alla lunga mi resi conto che non c’era nulla che potesse
testimoniare il fatto che stessi cadendo e ne conclusi che la caduta non poteva
essere altrove che nella mia mente.
In effetti in quell’istante smisi di cadere (o forse smisi di credere
di cadere? – l’alternativa mi avrebbe tormentato a lungo).
Mossi due passi e imparai a vedere
(o a creare?) il pavimento
immateriale della Sala.
Già, perché mi trovavo in una Sala. Non lo venni a sapere perché vidi
pareti (se queste esistevano si trovavano certo a una distanza inimmaginabile)
o un soffitto che non fosse uno degli infiniti piani che potevo arbitrariamente
eleggere a questo ruolo, ma semplicemente lo seppi.
Seppi che quella era la Sala della Biblioteca di Alessandria, la sede
dell’intera conoscenza umana.
Ancora, non vidi alcun libro in quel momento, né il minimo riferimento
che potesse far pensare alla città egiziana, e tuttavia era così, e lo era da
sempre. Lo sapevo anche prima? Da quel momento, non vi era dubbio che sì,
l’avevo sempre saputo.
Avevo sempre saputo anche che la suddetta sala aveva pianta circolare e
all’interno di essa le colonne circolari disegnavano una scacchiera. Scacchiera
era in realtà un termine limitante, perché, a seconda delle dimensioni che
consideravano poteva essere un punto, una retta, un reticolato di cubi e molte
altre cose delle quali, benché ne avessi la perfetta comprensione in quel
momento, il nostro linguaggio non può rendere adeguata testimonianza.
Ad ogni modo, quantunque avessi la perfetta nozione del concetto di
quella struttura, me ne sfuggiva il senso, non comprendevo perché fossi in quel
luogo, né cosa dovessi cercare.
Il nome “Biblioteca” riecheggiava nella mia mente ma, troppo a lungo
ripetuto, si avviava a divenire un mero flatus
vocis, un verso di una poesia arcana scritta in una lingua mai da
nessuno conosciuta.
I ricordi, gli echi, le conoscenze della mia vita da desto, si
attutivano sempre di più e, come attraverso il collo di una gigantesca
clessidra, fluivano, trasmutandosi, all’interno della mia vita da dormiente,
conferendole sempre maggiore realtà e definizione.
Senza più l’appiglio delle mie conoscenze precedenti, potevo affidarmi
solo alle nozioni sempre più precise e ramificate che andavo acquisendo e che
erano tutte riconducibili a una domanda “Che cos’è la Biblioteca di
Alessandria?”.
Mi trovavo nella posizione di certi metafisici d’altri tempi che,
impossibilitati dai loro stessi presupposti a servirsi dei dati d’esperienza
per dare una spiegazione dell’Essere, dovevano dedurne le proprietà interamente
a priori, dal suo stesso concetto.
E dunque era questo l’enigma, questa era la questione, qual è l’essenza della Biblioteca, qual è il centro del problema, da assumere e
assolutizzare a spiegazione di tutto il resto?
Un invisibile lampo attraversò tutta l’immensità della sala nell’esatto
istante in cui formulai questo pensiero… il centro…
ecco la risposta, dovevo trovare il punto esatto dove convergevano tutti i
raggi, il punto esattamente equidistante dalla circonferenza…
Ma negli stessi termini della sua formulazione, il problema rivelava
tutta la sua mostruosa difficoltà.
Come trovare un punto, un
ente senza dimensioni, in un luogo come quello, che di dimensioni ne aveva fin
troppe?
Il proverbiale ago nel pagliaio era una passeggiata al confronto. Lo
sconforto mi fece mancare la terra sotto ai piedi, e di nuovo ebbi la
sensazione di cadere infinitamente. Le colonne si obnubilavano e, man mano che la
mia mente perdeva la speranza di risolvere il problema, tutto minacciava di
essere inghiottito nuovamente dalla nebbia.
Cercare un punto in uno spazio infinito… uno spazio infinito… un
cerchio infinito… ma certo. Improvvisamente compresi. La soluzione era sempre
stata lì davanti ai miei occhi. Il centro era proprio davanti a me. In un cerchio di raggio infinito la circonferenza non
si trova in nessun luogo e il centro è ovunque, giacchè ogni punto è
infinitamente distante dalla circonferenza.
Improvvisamente tutto cambio. In realtà nulla cambio, ma sapevo di
trovarmi nel centro. Ero dentro il fulcro di tutto il complesso, la chiave di
volta di tutto il problema. Mi accorsi rapidamente di essere circondato da
quattro pareti, un pavimento, e un soffitto, che formavano un cubo perfetto.
Quella era l’Origine della Biblioteca, il punto da cui tutto scaturiva
e in cui tutto, come avrebbe presto compreso, si risolveva.
I sei lati del cubo erano di specchio e ripetendosi e rispecchiandosi a
vicenda all’infinito generavano l’intero cosmo della Biblioteca. Il lettore si
potrebbe chiedere cosa rispecchiassero, giacché due specchi posti uno di fronte
all’altro, se non hanno nulla in mezzo non riflettono nulla. O invece sì? Chi
potrebbe dirlo? Se fosse lì a osservare dovrebbe essere lui stesso riflesso
dagli specchi.
Tuttavia quegli specchi non riflettevano nulla, o meglio quel
particolare tipo di nulla che è un punto, un ni-ente adimensionale sospeso al
centro esatto della sfera inscritta nel cubo, che, nell’infinita riflessione di
se stessa, generava linee, scacchiere, colonne, cubi, reticoli e tutto
l’Universo della Biblioteca.
Dai recessi profondi della mia memoria emersero brandelli di parole,
frasi a cui non sapevo, in quel momento attribuire senso alcuno: “Nel suo profondo vidi che s'interna legato con amore
in un volume, ciò che per l'universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor
costume, quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch'i' dico è un semplice
lume.”