Titolo:
Horror vacui
Summary:
«Dove
non c'è immaginazione non c'è orrore, John.»
«Dillo
al mio cervello. Così smetterà di farmi fare fantasie
impossibili.»«
Pairing:
Sherlock/John
Rating:
R
Words:
2437
Disclaimers:
Non miei e “blablablabla!
Lascia stare! Abbiamo detto queste cose centinaia di volte!”
Notes:
Per
la Sherlothon dello SFI sul prompt #5 (“Dove non c'è
immaginazione non c'è orrore.”)
Horror
vacui
“Paura!
La crepa che potrebbe inondare il tuo cervello di luce!”
(Tom
Stoppard)
Gli occhi di John
vagarono a scatti per la stanza. Strinse le labbra e le umettò.
Fece tamburellare le dita sul bracciolo della poltrona di Ella. Prese
fiato.
«E' la prima
volta che racconto la nostra storia a qualcuno. Non lo sa nessuno.
Nessuno capirebbe. E' tutto così difficile. E poi spiegare
qualcosa è impossibile.»
Gliel'avevano detto.
Ripetutamente. Ma lui non aveva voluto ascoltare.
L'amore è un
suicidio, gli avevano detto. (1)
L'amore ci farà
a pezzi, gli avevano detto.
L'amore di per sé
non è abbastanza, gli
avevano detto.
Ci avevano provato ad
avvertirlo. Non li aveva voluti ascoltare. Con quel tepore si era
tappato le orecchie. (2)
«E' stata la
giornata più lunga della mia vita.»
John stava leggendo un
libro, seduto in poltrona. Sherlock era di sopra- No. Non era di
sopra. Perché avrebbe dovuto? No. Era in bagno- No. Era in
camera sua- No. Doveva essere in cucina. Sì. Sì, era in
cucina. A fare uno dei suoi soliti distruttivi esperimenti,
probabilmente.
John stava leggendo un
libro, seduto in poltrona. Sherlock era in cucina. Gli si avvicinò
e si inginocchiò a lato della poltrona. Lo osservò per
qualche minuto, poi gli prese la mano e gliela baciò piano.
Passò al polso e risalì su per l'avambraccio, fino al
collo. Lui lasciò andare il libro, sospirando, e infilandogli
una mano nei riccioli neri, accarezzandoglieli. Glieli strinse quando
sentì i denti chiudersi attorno alla sua pelle. Riusciva a
percepire la sua arteria cozzare contro gli incisivi di Sherlock, a
ritmo della musica sorda del suo battito cardiaco accelerato. Gli
stava prendendo a morsi il cuore. Divertente come fosse una metafora
dell'andamento della sua vita negli ultimi tempi. John lo baciò,
infilandogli una mano sotto la camicia e la lingua in bocca, e-
No. Non era andata
così.
John
non stava leggendo un libro, seduto in poltrona. Era in piedi,
davanti al balcone, la finestra chiusa, l'atmosfera fuori cupa. Aveva
la vestaglia e l'aria persa nel vuoto grigio di Londra. Sherlock era
in cucina, stavolta sì. Ne era sicuro. Sentiva l'odore acre di
un esperimento. Gli si avvicinò, restando alle sue spalle.
John lo spiò nel riflesso del vetro mentre lo osservava. I
loro sguardi indagatori, morbosamente curiosi,
si agganciarono nel vetro - o al di là dello specchio, in
un'altra dimensione – e John trattenne il respiro, come se
fosse stato beccato mentre commetteva un reato. Come se stesse
davvero spiando qualcun altro, come se fosse davvero un voyeur.
Provò a sentirsi colpevole. Dopo, forse, ci sarebbe anche
riuscito. Senza smettere di guardare il suo riflesso, Sherlock si
mise a respirargli nell'orecchio. Il suo fiato era una specie di
spillo nel cervello, che dal timpano mandava brividi giù per
tutta la spina dorsale. Veniva dalla cucina. John gli sentiva l'odore
acre dell'esperimento addosso. E lo guardava. Lo guardava. Non
abbassava mai lo sguardo. E lui, di rimando, non abbassava mai il
suo. Le labbra di Sherlock sfiorarono la parte superiore
dell'orecchio. Alzò la mano destra e con le dita gli sfiorò
il viso, all'attaccatura dei capelli. Le sue dita lunghe che
premevano sulla fronte. John ne seguì il movimento, reclinando
la testa di qualche centimetro, ma senza distogliere lo sguardo dal
suo. Sherlock fece lo stesso, mentre la mano sinistra gli prendeva
l'orlo del maglione a righe. Le dita libere cominciarono il loro
percorso passando piano per la fronte, corrugata appena per
consentirgli di guardarlo, poi per le sopracciglia, entrambe. Si
dilungò sul dorso del naso, prima di arrivare agli occhi. Come
se esitasse, esplorò prima le sue occhiaie, lentamente,
ridipingendole di colori più nuovi. Passando delicatamente
sulle rughe rese più evidenti dallo stress post bellum e da
quello post vado-a-vivere-a-Baker-Street, Sherlock si fermò un
secondo, come se continuare potesse essere pericoloso. L'unica
reazione di John fu quella di alzare il mento ancora un paio di
millimetri. Sherlock la prese come un'autorizzazione, e prese a
sfiorare le palpebre come a volerle chiudere. John assecondò i
suoi pensieri ancora una volta, e l'ultima cosa che vide prima che il
buio lo assalisse fu lo sguardo di Sherlock. Lo guardava in modo
indecente. Indecente.
Quello sguardo lo perseguitò anche ad occhi chiusi. Sentì
nel suo orecchio un sospiro più forte e l'orlo del suo
maglione che cadeva sul lato sinistro attorcigliarsi un po' più
stretto attorno alle dita che lo tenevano. Sherlock trovò
sotto i suoi polpastrelli – John pensava che fossero un po'
ruvidi, ma non in modo fastidioso – le palpebre che rendevano
il loro proprietario ormai cieco al mondo. Provvide a descriverglielo
tracciando la linea degli zigomi, delle guance, arrivando alla
mascella e poi al mento, piano, senza fretta. Il fiato che sentiva
ormai dentro il cervello e lo martellava diventava sempre più
pesante, il respiro sempre più affannoso, aritmico. Le dita
della mano sinistra gli si erano praticamente inchiodate al fianco.
Con la nuca adesso quasi del tutto appoggiata alla spalla di
Sherlock, ne avvertiva chiaramente il petto che si alzava e si
abbassava frenetico, alla continua ricerca di aria. E anche la sua
respirazione non è che fosse messa meglio. Risalendo dal
mento, le dita arrivarono alle labbra e presero a disegnargliene il
contorno. Ne sfiorarono la consistenza. Le aprirono. La mano sinistra
lasciò il maglione e il braccio gli circondò stretto la
vita. John sentì distintamente il palmo della mano destra
premergli contro le labbra aperte, non per farlo tacere, ma come se
stessero controllando che continuasse a respirare, in verticale. Le
dita erano schiacciate contro il suo naso. La bocca spalancata di
Sherlock contro la sua pelle, a metà tra l'orecchio e la
mandibola, mandava e tirava aria come se fosse stato in apnea per
secoli. E John trattava la mano di Sherlock come se fosse stata la
mascherina collegata a una bombola d'ossigeno. Forse erano stati in
apnea entrambi. Il braccio di Sherlock attorno alla vita gli avrebbe
frantumato le costole, e fu forse per il dolore che cominciò a
gemere. Sherlock lo seguì. Il primo suonò come una
liberazione. E più respirava più gemeva più
Sherlock lo teneva schiacciato contro di sé, come se volesse
farli diventare un'unica-
«Se ti
distruggessi in questo momento, tu saresti mio per sempre.» (2)
Affanno. Affanno.
Affanno.
John allungò la
mano tremante sul comodino, cercando a tastoni l'inalatore. Lo trovò,
con uno scatto si alzò a sedere e prese a respirarci dentro.
Inspirare, espirare. Chiuse gli occhi per cercare di
tranquillizzarsi. Inspirare, espirare. Era un ricordo o una fantasia?
Inspirare, espirare. Si aprì una distesa di cielo azzurro
nella sua mente. Inspirare, espirare.
«Io ho tante
cose da fare. Una di queste è forse liberarmi dell'asma.»
Gliel'avevano detto.
Ripetutamente.
Troppo amore ti
ucciderà, gli avevano
detto. (1)
Ci avevano provato ad
avvertirlo.
«O di
Sherlock. Non lo so. E' uguale.»
Non li aveva voluti
ascoltare.
John aveva camminato in
punta di piedi per non disturbarlo. Per non disturbare quella figura
stretta e lunga distante da lui di pochi passi, e che tuttavia gli
aveva lanciato un'occhiata di sbieco nonostante il poco rumore che i
suoi piedi avevano emesso. Per non disturbarlo. Aveva poi alzato la
testa, prendendo coraggio per parlare.
«Buongiorno.»
aveva detto timido.
Lui si era voltato di
scatto a guardarlo, con stupore. «Mi rivolgete la parola?»
«Certo che vi
rivolgo la parola. Non dovrei?»
«Non ci sono
abituato. Difficilmente le persone arrivano fin qui.»
«Credete di
essere molto in profondità?»
«Abbastanza, sì.
Sono protetto, qui. Al buio.»
John aveva fatto un
passo avanti, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso.
«Non sono
d'accordo con voi. Trovo invece che emettiate una luce accecante.»
L'anima sconosciuta si
era voltata finalmente a guardarlo. Lo scrutò nelle profondità
delle pupille, ancora con quello stupore sul viso.
«Voi pensate
davvero questo?»
«Certo che lo
penso. Potrei difficilmente mentirvi. Sono sicuro che lo capireste
subito.»
«Siete
pericolosamente vicino.»
John aveva abbassato
gli occhi e si era accorto che era vero, che aveva camminato senza
accorgersene.
«Mi dispiace. Non
volevo essere invadente.»
«Non lo siete.
Siete solo pericolosamente vicino.»
John lo aveva guardato
negli occhi, fisso. Erano quelli più di tutto il resto che
emettevano la luce straordinaria che vedeva.
«Ho dovuto
fare un riassunto di tutti i motivi per cui lui è...»
«Devo andare.»
«Unico.»
«Dove non c'è
immaginazione non c'è orrore, John.»
«Dillo al mio
cervello. Così smetterà di farmi fare fantasie
impossibili.»
Sherlock era steso a
terra, al centro dell'antro buio. John non si premurò di fare
piano stavolta. Gli si inginocchiò affianco.
«Cos'è che
ti protegge?»
«Come?»
«Mi hai detto che
qui sei protetto.»
«E allora?»
«Gli amici
proteggono le persone.»
«Io non ho
amici.»
«Allora cos'è
che ti protegge?»
«I miei pensieri.
Non li vedi?»
John abbassò gli
occhi e li vide: per terra, intorno a lui, fogli di ogni genere e
dimensione erano sparsi senza un ordine apparente. Ne raccolse uno e
notò che erano post-it. Uno in particolare gli saltò
agli occhi. C'era scritto solo: John. Lo prese e se l'attaccò
addosso. E così un altro, e poi un altro. Sherlock si alzò
a sedere di scatto, fulminandolo.
«Che stai
facendo?»
«Perché?»
«Posali, sono
miei.»
«Alcuni hanno il
mio nome.»
«E allora? Non
puoi venire qui e attaccarti le mie parole addosso! E questo è
privato!» aggiunse strappandogliene uno dal petto.
Raccolse le gambe al
petto e si voltò dall'altro lato, dandogli le spalle.
«Mi hai ferito.»
«Dovevi pensarci
prima di trafugarmi i pensieri.»
«Mi hai ferito
quando hai detto di non avere amici.»
Sherlock alzò la
testa, ma non si girò.
«E' passato molto
tempo. Ci stai ancora pensando?»
«Perché mi
tratti in questo modo?»
Sherlock sbatté
il pugno a terra e lo guardò irato.
«E' così
che tratto le persone, John. E' così che le tratto!
Perché non capisci?»
Incastrò il viso
tra le braccia e le ginocchia.
«Vattene.
Lasciami in pace.»
«Lui si
riempie di fantasmi.»
O forse era lui ad
averne.
«Che si dice
fuori, dottore?»
«Niente.»
(3)
Adesso mi è
tornato l'asma, lo sapevi?
Vorrei che mi prendessi
per mano. Il salto nel vuoto lo farei senza pensarci due volte, o
anche una sola, se ti fa piacere. (3)
«Io lo sto
molestando coi miei desideri, in cui per la prima volta lui non
c'entra assolutamente niente.»
Affanno. Affanno.
Affanno.
Si era nascosto sotto
la scrivania appena l'aveva sentito arrivare. Il vuoto. Prese
l'inalatore preventivamente messo nella tasca del camice e respirò
di nuovo. Inspirare, espirare. Doveva liberarsi dell'asma, non era
più un ragazzino. Inspirare, espirare. L'asma che gli era
tornato. Inspirare, espirare. Il vuoto che era sopraggiunto.
Inspirare, espirare. Aveva un sapore diverso, stavolta. Inspirare,
espirare. Non sapeva di niente, stavolta. Inspirare, espirare. Il
vuoto, il nulla, rappresentato da una stupida mancanza d'aria.
Inspirare, espirare. Che modo simpatico ha la vita di mettertelo in
quel posto. Inspirare, espirare.
«E ha paura.»
O forse era lui ad
averne.
«Fammi capire
bene. Tu immagini l'anima di Sherlock in un antro buio con i pensieri
scritti sui post-it?»
«Prova a
impedirmelo.»
Sherlock era appoggiato
ad un angolo. Lo fissava senza dire nulla. John seduto per terra, a
gambe incrociate, guardava e sistemava i post-it. Aumentavano a
dismisura ogni giorno.
«Mi hai detto che
ti proteggono. Come?»
«Le persone di
solito scappano appena ne leggono uno.»
«Le persone non
arrivano fin qui, giusto?»
«Giusto.»
«E io?»
«Tu non sei le
persone.»
«E cosa sono io?»
Sostenne il suo sguardo
per un momento, poi si staccò dal muro e si sedette di fronte
a lui, per terra. Frugò nell'interno della sua giacca e ne
cacciò una pila di foglietti tutti attaccati tra di loro, in
modo disorganico e disordinato. Li poggiò in mezzo a loro due,
guardandoli con una certa apprensione.
«Cosa sono?»
«Parole. Quelle
che non ho mai detto. La maggior parte sono per te.»
John le guardò
stupito. «Posso toccarle?»
«Se le vuoi sono
tue.»
John sorrise e
lentamente prese un foglio, attaccandoselo addosso. Ne prese un
altro, e poi un altro. Era felice come quando da bambino riceveva a
Natale il regalo che più aveva ambito durante l'anno. Sherlock
lo osservava, le labbra tirate in un sorriso incerto.
Allungò anche
lui la mano e ne prese uno. Aveva l'aria di essere vecchio, o
comunque molto consumato. Come se Sherlock l'avesse utilizzato più
volte, come se se lo fosse sempre andato a guardare. Sopra c'era solo
un punto interrogativo.
Delicatamente, lo posò
sulle labbra di John e passandoci due dita sopra lo attaccò
per bene. Gli sfiorò il viso, con la stessa cura di un
bambino che ha tra le mani il suo giocattolo preferito.
«Sherlock è
una fabbrica di dolore.»
«Non so se
riuscirai a sopportarle, le mie parole, John. Sono pesanti.
Difficili. Non posso proteggerti da loro. Vorrei che tu fossi uno
sconosciuto di cui mi possa liberare. Solo che adesso sei tu che
illumini questo posto buio.»
Gli prese il volto fra
entrambe le mani.
«Se solo tu
potessi vederti, John.»
Toccò con gli
occhi ogni neo, ogni ruga, ogni dettaglio possibile del suo volto.
«Sei perfetto.»
Gli baciò le
labbra coperte dal post-it. Quello non cadde, ma altri sì. Su
uno c'era scritto: sei perfetto.
Baciò il suo
punto interrogativo più volte, e John, impacciato dalla sua
ingombrante presenza, non riusciva a ricambiare come avrebbe voluto.
Infilò le dita tra i capelli e se lo strinse addosso,
facendolo restare attaccato a quelle che dovevano essere le sue
labbra. Sherlock gli afferrò i polsi, premendogli i pollici
sulle vene e percorrendo con questi il loro corso, perdendosi nelle
diramazioni. Non faceva altro che tenere la fronte appoggiata contro
la sua, tanto da fargli male, e respiragli sul viso con la bocca
aperta. John riusciva a sentire il calore del suo fiato che filtrava
attraverso il post-it, e le labbra di Sherlock quasi attorno più
che sopra le sue. Ma non erano ancora uno. John voleva essere
una cosa sola con lui, voleva tenerselo attaccato sulla pelle per
sempre, insieme ai suoi pensieri e alle sue parole mai dette.
«-magari col suo sapore addosso-» Sherlock
evidentemente gli lesse nel pensiero perché lasciò
andare i suoi polsi e alzò gli orli del maglione a righe,
cominciando a infilarselo. Ne raggiunse il collo, lasciando sulla
pancia e sul petto una scia di fiato e saliva. La testa spuntò
bisognosa d'aria e baciò di nuovo, inevitabilmente dato che
erano attaccati, le labbra nascoste di John. Ci respirò
pesantemente contro, il naso schiacciato sul suo. Respirò sul
suo punto interrogativo-
«Vorrei scorrerti
nelle vene.»
«Ha sempre le
mani sporche di sangue.»
«La mano di
Sherlock ti stringe fino a soffocarti. Fino all'infarto.»
Affanno. Affanno.
Affanno.
Era caduto dalla
poltrona e arrancò ansante fino al tavolino. Tremando si
aggrappò alla sedia e trovò l'inalatore quasi subito.
Vuoto. Inspirare, espirare. La realtà l'aveva colpito
in mezzo agli occhi. Inspirare, espirare. Avrebbe dovuto provare a
sparire. Inspirare, espirare. Ma c'è un solo modo per scappare
da qui. Inspirare. Espirare.
Una volta calmatosi, si
alzò e si diresse a passo sicuro verso il bagno. Aprì
il mobile delle medicine e prese il tubetto che stava adocchiando da
giorni. Si guardò allo specchio.
Gliel'avevano detto.
Ripetutamente.
Tutto quello di cui
hai bisogno è l'amore,
gli avevano detto. (1)
Aprì il tubetto.
Il tappo fece un rumore troppo buffo, inadatto alla situazione.
Tutto quello di cui
hai bisogno è l'amore.
Che stronzata.
«E' stata la
giornata più lunga della mia vita.»
Notes, again:
Sperimenti di
scrittura. E' colpa della Sherlothon, che si sappia! Ma parliamo
delle citazioni: i dialoghi in corsivo sono citazioni da Sangue –
La morte non esiste di Libero De Rienzo, praticamente il mio film
preferito; (1) sono varie canzoni che in effetti ci avevano avvertito
sulla potenza distruttiva dell'amore e sono in sequenza: Bodies
degli Smashing Pumpkins, Love will tear us apart degli Joy
Division, Love, in itself dei Depeche Mode, Too much love
will kill you dei Queen e All you need is love dei
Beatles; (2) da Stigma di Kazuya Minekura; (3) autocitazioni
spudorate da Ritorno al crepuscolo e da Nei nostri luoghi;
la citazione iniziale è tratta da Rosencrantz e Guidenstern
sono morti. E direi basta.
Grazie a Sonia, as
usual. ♥ Se c'è bisogno di chiarimenti, io sono qui! XD
Magari non vi risponderò subito, ma in tempi recenti sì!
XD
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