joker3
LADIES AND GENTLEMEN, benvenuti alla
mia nuova fiction.
Sono lieta
di presentarvi la mia terza Joker/Harley. Non so bene come sia venuta,
so solo
che è più lunga rispetto al mio standard. E’ meno romantica e più
angstiosa
delle altre perché è estremamente Joker-centrica, non si concentra
molto sulla
storia tra loro quanto più sul suo passato e sul peso dei suoi ricordi.
Inizialmente doveva essere solo il sequel della mia fiction “Someone To
Come
Home To”, ma poi si è evoluta notevolmente fino a diventare una storia
anche a
sé stante.
Avvertenze:
- Come ben
sapete, Jack Napier è il vero nome del Joker.
- Riguardo
al passato del Joker e all’origine delle cicatrici ho deciso di
attenermi alla
prima delle due storie che lui stesso racconta all’interno del film “Il
Cavaliere Oscuro”: la colpa è del padre, alcolizzato e violento, che in
seguito
ad una lite uccide la madre e sfregia il volto del bambino.
- La parte
centrale in corsivo è un flashback dell’infanzia del Joker.
Prologo:
Il Joker ha
progettato un colpo straordinario, far esplodere l’intero quartiere
ovest della
città per distrarre la polizia, per poi far saltare in aria il Palazzo
di
Giustizia, situato nel lato est. Si è preparato a lungo per questo
colpo, e non
ha assolutamente voluto che Harley andasse con lui, ma l’ha fatta
rimanere a
casa dicendole che sarebbe ritornato entro l’ora di cena.
Buona
lettura. Attendo pareri sia positivi che negativi.
ND
Promises
[
You'd better believe I'm coming
You'd
better believe what I say
You'd
better hold on to your promises
Because
you bet you'll get what you deserve ]
The
Cranberries - Promises
- Il suo quadro
clinico? – esordì la dottoressa, sistemandosi meglio il camice bianco e
raccogliendo i capelli scuri in una pratica coda di cavallo. Era nel
turno di
reperibilità, quella sera, ed era appena stata chiamata; nonostante
avesse
tentato di opporsi, in quanto buona parte della città era esplosa per
mano del
Joker e le strade erano parzialmente distrutte, il direttore era stato
irremovibile: doveva recarsi immediatamente all’Arkham Asylum per un
caso
urgente. Non aveva battuto ciglio quando aveva notato che il suo
paziente
misterioso non era altro che il Joker stesso, catturato dalle forze di
polizia
e trasportato nell’unico luogo che era stato in grado di contenerlo,
anche se
per un breve periodo. In un carcere normale sarebbe evaso nel giro di
qualche
ora, mentre l’Arkham, manicomio criminale, aveva messo in atto notevoli
misure
di sicurezza, che nella maggior parte dei casi riuscivano a dissuadere
gli
psichiatrici malviventi che tentavano continuamente di scappare.
Lo guardava
con occhi curiosi e indagatori: quell’uomo era stato in grado di far
esplodere
l’intero quartiere ovest di Gotham City, per poi concentrarsi sul
Palazzo di
Giustizia, fatto saltare in aria in un tripudio pirotecnico dai colori
meravigliosi. Che genere di mente poteva annidarsi dietro una condotta
simile?
Aggrottò la fronte, mentre lo guardava respirare affannosamente,
sdraiato su di
un letto: polsi e caviglie erano avvolti da cinghie dure e metalliche,
gli
occhi coperti da una benda spessa, i vestiti vagamente strappati e
macchiati di
sangue. Fu proprio quel particolare ad attrarre la sua attenzione: quel
liquido
scarlatto e copioso imbrattava le coperte sulle quali era steso,
abbondante e
inarrestabile, scendendo lentamente ai lati del materasso e
depositandosi a
terra.
- Non.. non
lo sappiamo, dottoressa. E’ per questo che l’abbiamo chiamata. –
sussurrò
l’infermiera alla quale si era rivolta, non riuscendo a sostenere il
suo
sguardo deciso e indagatore.
- Che cosa
significa che non lo sapete? – insisté, a metà fra l’incredulo e il
divertito,
mentre continuava a guardare l’oggetto del loro discutere, separato da
loro da
uno spesso vetro infrangibile.
- Nessuno ha
avuto il coraggio di entrare lì dentro. – bisbigliò in un soffio –
Quell’uomo è
pericoloso. Gli altri dottori si sono rifiutati di occuparsi del caso,
per
paura di eventuali ritorsioni. Lei non è obbligata ad accettare,
l’abbiamo
chiamata solo per scrupolo: se vuole, è libera di andarsene.
- Mi spieghi
una cosa – ribatté, indispettita – Nessuno ha tracciato il suo quadro
clinico
perché da quando è qui non è mai stato visitato?
- Esatto,
dottoressa. – confermò allora, stanca e irritata. Perché le importava
tanto?
- E se
dovesse morire, di chi sarebbe la responsabilità? – disse a voce più
alta,
vagamente alterata.
- Credo che
l’intera Gotham City tirerebbe un sospiro di sollievo alla notizia
della sua
dipartita, specialmente dopo il suo ultimo gesto: nemmeno le forze
dell’ordine
condannerebbero seriamente qualcuno per averlo ucciso. Di rifiuti umani
del
genere non importa a nessuno, almeno questo è quello che credo io. –
mormorò
con una smorfia di disprezzo, lanciando un’occhiata di scherno all’uomo
al di
là del vetro, immobile e silenzioso.
- Non sta a
noi deciderlo. – rispose freddamente la dottoressa, disgustata nel
profondo,
aprendo la porta della cella vuota e luminosa. Avvicinandosi al Joker,
fu
colpita dal pregnante e inevitabile odore di sangue che permeava la
stanza e le
si infilava su per le narici provocandole un forte stordimento. I
faretti
bianchi puntati sul corpo di lui la accecavano, facendole socchiudere
leggermente le palpebre e causandole una vaga sensazione di esposizione
eccessiva e di freddo.
Era strano,
guardarlo così da vicino: lo aveva visto innumerevoli volte in
televisione e le
era sempre sembrato determinato, fiero, ma soprattutto ridente e
divertito:
nella sua espressione erano palpabili il godimento e la gioia per gli
atti che
compieva. Mentre ora, non vedeva altro che un paziente come molti
altri, un
semplice uomo dagli occhi bendati, legato e inerme.
- Chi.. chi
sei? Dove sono? – mormorò il Joker, percependo una presenza accanto a
sé, la
voce bassa e roca, ridotta a un sussurro debole e confuso.
- Sono una
dottoressa dell’Arkham Asylum. Sei stato catturato dalla polizia e
riportato
qui. Non ricordi niente? – domandò, mentre prendeva una sedia e si
accomodava
accanto a lui, tirando fuori dalla sua valigetta un blocco per gli
appunti:
qualsiasi cosa poteva essere utile a formulare una diagnosi.
- No.. niente.
– rispose, affranto. Il Joker si mordeva le labbra, contratte in una
smorfia di
evidente dolore, cercando di trattenere i gemiti che sembravano
accumularsi
copiosi nel suo palato. Nei palmi delle mani stringeva le lenzuola così
energicamente da fermarsi la circolazione delle punte delle dita.
- Soffri
spesso di vuoti di memoria? Veramente non ricordi come sei arrivato
qui? – mormorò
incuriosita, lasciando cadere il taccuino e avvicinandosi lentamente a
lui,
sedendosi su di una sponda del letto. Lo fissò con più attenzione,
allarmata:
il suo occhio clinico le suggeriva che probabilmente l’uomo soffriva
molto. Era
difficile non notare il sudore che imperlava la sua fronte, traboccante
fra i
capelli mossi e sconvolti, ma anche i fremiti del suo corpo, la bocca
impastata
e umida di saliva anche troppo abbondante.
- No. –
ripeté, innervosito, il fastidio e l’ira che intridevano sottilmente
quella
voce bassa e fioca. La mente confusa, scevra di ricordi, gli occhi
forzatamente
chiusi in una tenebra di tessuto, le membra costrette all’immobilità,
caricavano il suo animo di una rabbia profonda e animale, coadiuvata
nella sua
essenza da un dolore insopportabile che gli faceva venire voglia di
urlare,
instabile e tremante, prodotto da continue scariche che gli
attraversavano le
tempie, la nuca, la fronte.
- Dove senti
dolore? Ti hanno sparato? Da dove viene il sangue? – gli chiese,
allora, calma.
- La testa..
la testa.. – bisbigliò confusamente, mentre un senso di nausea e di
vertigine
lo scuotevano, mozzandogli il fiato. La dottoressa lo mise lentamente a
sedere,
facendo attenzione a non fargli compiere movimenti troppo bruschi, poi
gli
sfilò con delicatezza la benda che gli copriva le palpebre,
immediatamente
spalancate. Il Joker mugolò di dolore, non appena la luce fredda e
tagliente
attraversò ferendo i suoi occhi gonfi e rossastri e li richiuse subito.
Ma
quello che sconvolse la dottoressa furono le lacrime incastonate fra le
sue
ciglia lunghe, faticosamente trattenute fra le palpebre serrate.
Non credeva
che un criminale di quel genere potesse piangere. La dottoressa si
accigliò:
per lei tutti i pazienti erano uguali e meritavano la stessa
considerazione. Lavorando
ad Arkham aveva visto tantissimi criminali con problemi psichiatrici, e
aveva
ormai smesso di farsi problemi di giustizia ed etica professionale;
chiunque
aveva il diritto a essere curato, e ormai le sembrava evidente che il
Joker
stesse male sul serio. Ma cosa poteva essergli successo? Non aveva
segni di
spari, gli arti sembravano ancora funzionanti, era ancora in grado di
parlare.
Sembrava stordito, frastornato. Continuò a riflettere, mentre nella sua
mente
cominciava a prendere piede una domanda: come avevano fatto a
catturarlo? Lo
avevano per caso sedato?
- La testa..
– continuava a gemere lui, mentre abbassava il capo per toccarsi le
gambe, in
cerca di sollievo.
- Che cosa è
successo? – domandò lei inutilmente, e mentre gli passava alle spalle
finalmente capì da dove era sgorgato il sangue. I vestiti sulla schiena
erano
quasi completamente strappati, e tramite questi tagli erano chiaramente
visibili grandi cocci di vetro inabissati nella sua carne chiara e
tenue,diventata umida e scarlatta. Ne sfiorò uno con le dita, per
cercare di
capire quanto in profondità era penetrato nei suoi muscoli, provocando
i suoi
lamenti, subito soffocati contro il tessuto scuro dei suoi pantaloni.
Il Joker
sentiva la testa pulsare, girare all’impazzata, diventata
improvvisamente
pesante come un macigno. Una nebbia gli confondeva gli occhi e la
mente, non
riusciva più a vedere nulla di definito di fronte a sé: solo vortici
dal
candore accecante e dal colore purpureo. Cercò di inspirare con più
calma,
tentando di abbassare la frequenza cardiaca alle stelle, inutilmente.
Si tirò
nuovamente seduto e non poté impedirsi di vomitare sul pavimento, in un
susseguirsi di colpi di tosse e di tremori che scuotevano ritmicamente
tutto il
suo corpo. Sfinito, ricadde esanime sul letto, gli occhi semichiusi e
stralunati,
il capo abbandonato su una spalla e le labbra semiaperte.
- Ho bisogno
di aiuto, qui. Non mi interessa se avete paura, il paziente non è in
condizione
di nuocere ad alcuno. – disse fermamente la dottoressa nell’interfono
accanto
al letto, mantenendo il suo abituale sangue freddo – Mandatemi
un’infermiera e
un telefono, subito.
Le sue
richieste furono subito esaudite: ricevette un cellulare funzionante,
mentre
l’infermiera si affrettava a pulire il pavimento. Uscì dalla stanza,
cominciando a percorrere il corridoio adiacente.
- Sono Lane
Whistle, dottoressa dell’Arkham Asylum. Ho bisogno di parlare
urgentemente con
chi ha effettuato la cattura del Joker. Sì, attendo in linea, grazie. –
disse
con fermezza, spinta da una vaga intuizione.
- Pronto, sono
il commissario Gordon, mi hanno riferito che ha qualcosa di importante
da dirmi
riguardo al Joker. E’ suo paziente, giusto? – disse un’ansante voce
maschile,
dopo un lungo periodo di attesa. La riconobbe: non era affatto inusuale
sentirlo
parlare in televisione.
- E’ proprio
per questo che l’ho chiamata. Volevo chiederle.. come avete effettuato
la sua
cattura? -
- Subito dopo
che il Joker ha fatto saltare in aria il Palazzo di Giustizia, Batman è
riuscito ad individuarlo fra la confusione e le macerie e ce lo ha
indicato.
Così noi della polizia lo abbiamo raggiunto e imprigionato. E’ stato
davvero un
colpo di fortuna essere riusciti a prenderlo, se non fosse stato per
Batman non
lo avremmo mai trovato. – spiegò lui, paziente e compiaciuto.
- Questo
l’avevo saputo, buona parte di quello che ha detto è stato riferito dai
telegiornali. La mia vera domanda è come avete fatto nella sostanza a
chiudergli le manette ai polsi, perché si sa che il Joker è molto
difficilmente
avvicinabile. – ribatté seccamente la donna.
- Lo abbiamo
sedato. - confessò l’uomo – Uno dei nostri tiratori scelti lo ha
colpito con
una massiccia dose di farmaci, che lo hanno immediatamente portato allo
svenimento.
- Quali
farmaci? La sua cartella clinica presente ad Arkham dice chiaramente
che il suo
corpo è immune alla maggior parte di quelli esistenti e normalmente
utilizzati.
Nessun sedativo da noi conosciuto potrebbe seriamente avere un effetto
su di
lui. –
- E’ un
farmaco sperimentale che avevamo fatto progettare apposta per lui. Ma,
perché
me lo chiede? Non riesce a risvegliarsi? – sbuffò il commissario,
infastidito
da tutta quella indiscrezione. Non aveva mai conosciuto quella donna,
ma era
certo che non gli sarebbe mai piaciuta.
- Perché
credo non abbia avuto l’effetto desiderato. Oltre al fatto che è
sveglio da
ore, afferma di non ricordare niente dell’accaduto, accusa dolori
fortissimi
alla testa, nausea, vomito, oltre ad essere coperto di sangue. Ho paura
che da
un momento all’altro possa avere un crollo psichico, e volevo
accertarmi di ciò
che gli era stato somministrato in precedenza per agire di conseguenza.
– lo
rimbeccò lei, irritata.
- Senta, io
non so che cosa dirle. Capisco che per lei la salute dei pazienti è la
priorità
ma deve capire che un criminale di quel calibro va assolutamente
catturato ad
ogni costo. Se il farmaco che gli abbiamo iniettato ha avuto effetti
collaterali
inaspettati, sinceramente non ci importa, perché è servito ad impedire
che
continuasse a far saltare in aria l’intera città, capisce? – disse
tutto d’un
fiato, irremovibile.
- Capisco
perfettamente. – confermò lei, di nuovo calma – Volevo solo sapere se
le condizioni
del paziente sono naturali oppure dovute ad un medicinale in
particolare. Ma,
senta, di che genere si tratta?
Non ebbe
tempo di ascoltare la risposta, perché l’infermiera le tolse il
cellulare di
mano intimandole qualcosa di incomprensibile e indirizzandola verso la
cella
del paziente; non dovette nemmeno chiederle spiegazioni perché comprese
da sola
la situazione.
Le urla del
Joker risuonavano, taglienti e strazianti, in tutto il piano,
infilandosi in
ogni anfratto e in ogni orecchio umano: erano grida di dolore e di
disperazione, lancinanti e insopportabili. La sua espressione era una
maschera
di sofferenza, gli occhi ridotti a tenebrose fessure
umide,incandescenti e irate
come quelli di una bestia caduta in trappola. Si dimenava al punto di ferirsi polsi
e caviglie, a furia
di sfregarli violentemente contro le cinghie che lo trattenevano, ormai
vagamente rossastre.
- Devo..
devo andare a casa. – biascicava in un mormorio confuso a causa del
respiro
affannoso, frutto del cuore tachicardico e impazzito.
- Di cosa
stai parlando? C’è qualcuno che dobbiamo chiamare? – gli domandò lei,
indecisa
sul da farsi. Qualsiasi farmaco a sua disposizione sarebbe stato
inefficace sul
corpo temprato e assuefatto del Joker: non sarebbe mai riuscita ad
addormentarlo,
inoltre c’era anche la probabilità di interazione con quello assunto
precedentemente. Non conosceva i principi attivi del sedativo con cui
lo
avevano legato e non aveva alcuna intenzione di correre rischi;
preferiva
attendere ancora, per avere più chiaro il decorso della situazione.
- Non, non
lo so. A casa da chi? Non lo so, non c’è nessuno a casa, forse. O forse
c’è. Ma
nessuno mi aspetta, nessuno mi aspetta. – delirava l’uomo fra le grida,
in
preda ad una crisi isterica, tentando disperatamente di scavare in
quella
memoria improvvisamente desertica ed enigmatica, nella quale non
riusciva ad
individuare nulla di conosciuto. Il dolore alla testa era sempre più
forte,
sempre più martellante, sempre più intenso. I suoi occhi scuri e
prostrati si
annebbiavano sempre di più, inducendolo a sbattere continuamente le
ciglia,
fino al momento in cui si velarono definitivamente.
*
L’ora di
cena era passata da un pezzo e Harley aveva un terribile presentimento.
Il
Joker le aveva impedito di unirsi a lui per quello straordinario atto
criminale
in città, e le aveva detto che sarebbe sicuramente rientrato in serata.
Nonostante ciò, la notte cominciava a oscurare la città e la donna era
ancora
sola, raggomitolata su una delle sedie del tavolo in cucina.
Si accese
impaziente una delle sigarette del Joker, le sue preferite, e si
rilassò per un
attimo nel percepire il fumo caldo che le attraversava la gola e le
riempiva
lentamente i polmoni. Non fumava spesso, non ne aveva l’abitudine, ma
nei
momenti in cui si sentiva sola, lontano da lui, il sentire fra le
labbra il
sapore familiare della sua bocca aveva sempre il potere di
tranquillizzarla.
Harley godette di quella sensazione calda e confortevole per un attimo,
per poi
rivolgere di nuovo la mente alla preoccupazione precedente.
Aveva
evitato fino a quel momento, fiduciosa e persuasa che tutto sarebbe
andato
secondo i loro piani, ma non riuscì più ad impedirsi di accendere la
televisione. Pallida e fremente, ancora circondata da bluastre volute
di fumo,
cercò il telegiornale e si mise in ascolto, le orecchie inevitabilmente
tese e
pulsanti.
- Il
bilancio dei morti al momento è all’incirca mezzo migliaio, i dispersi
si
aggirano intorno alle due o tre migliaia. Le macerie al momento
ricoprono buona
parte della città e ci vorrà molto tempo anche solo per controllare la
presenza
di eventuali superstiti. Ma l’operazione di recupero è appena iniziata,
siamo
fiduciosi di riuscire a salvare molte persone. – diceva un poliziotto
al
giornalista che lo intervistava, attorniato da una folla visibilmente
spaventata e scossa dagli avvenimenti.
-
Indiscrezioni che sono giunte affermano che dietro tutto questo ci sia
il
pericoloso criminale denominato Joker, che si dice abbiate già
arrestato. Tutto
questo corrisponde alla verità? –
- Io non
posso rivelare nulla – ribatté con un largo sorriso – Ma almeno per un
po’ di
tempo siamo certi che Gotham City starà al sicuro.
Il
giornalista e la folla si sciolsero in timidi applausi e in
impercettibili
sorrisi, intuendo che dietro la frase del poliziotto ci fosse la
conferma
dell’arresto del Joker. Il cuore di Harley accelerò velocemente.
Non era
ancora tornato a casa, non si sapeva dove fosse, non aveva con sé un
cellulare,
un localizzatore, non aveva la benché minima idea del perché non fosse
ancora
da lei, ed ecco la risposta, quella che più temeva, quella che le
faceva
arrampicare brividi lungo la schiena, quella che odiava profondamente:
il suo
amato o era stato catturato o era morto.
*
- Basta, basta! Smettetela di inseguirmi! –
la voce fioca del bambino era resa pressoché impercettibile dallo
scroscio
della pioggia, impetuosa e abbondante, ma soprattutto dagli ansiti
continui che
gli afferravano la gola in una morsa di stanchezza e di soffocamento.
Correva, correva, le piccole scarpe che si
inabissavano nella terra scura, bagnata e divenuta cedevole, le braccia
che si
muovevano scompostamente, mosse dal nervosismo e dalla paura. Il
cortile della
scuola, costellato di alberi, era ormai buio e l’aria fredda, in quanto
la sera
era prossima ad arrivare.
- Ti prenderemo, puoi scappare quanto ti
pare ma alla fine ti arrenderai! – ribatté un ragazzino, ghignando
appena, il
tono crudele e divertito. Era quello che si muoveva più velocemente
degli
altri, si trovava a pochi, pochissimi passi dalla vittima preferita dei
loro
giochi feroci: bastava uno slancio deciso e lo avrebbe acciuffato,
dopodiché si
sarebbero divertiti a sufficienza. Non per niente era considerato il
capo di
quella piccola banda di bulli: sarebbe sempre stato in grado di
garantire ai
suoi compagni dei passatempi decenti.
- Lasciatemi in pace, io non vi ho fatto
niente! – rispose debolmente il bambino, mentre si avventurava fra gli
alberi,
le ortiche che gli solleticavano i pantaloni sottili e neri, le mani
che
sfioravano appena le punte dell’erba alta, incolta, ai lati del
cortile. Il
cuore gli stava per esplodere in petto, il terrore e l’ansia gli
facevano
spalancare i grandi occhi scuri e caldi, scintillanti dalla paura.
Cadde, il piccolo piede incastrato sotto una
radice sporgente, il viso si infranse contro la terra fradicia, il
fango fra i
capelli mossi e castani. Gli altri bambini lo attorniarono come uno
stormo di
avvoltoi, pronti ad aggredire senza remore la loro preda sola ed
indifesa. Le
loro risate, malvagie e spietate, riempivano le sue orecchie infantili
e
rimbombavano infinite volte nella sua mente labile e spaventata; si
raggomitolò
a terra serrando forte gli occhi e tentando di proteggersi. Calò un
silenzio
spettrale.
- Jack Napier. – sussurrò il capo degli
inseguitori, abbassandosi su di lui e tentando con violenza inaudita di
girargli
il viso dalla sua parte. – Guardami, Jack Napier.
Jack si voltò, strisciando i boccoli scuri
nella melma, non potendo evitare in nessuna maniera di incrociare
quegli occhi
piccoli e neri, intrisi di cattiveria, che si divertivano ad esaminarlo
come il
più soddisfacente dei giochi. Tremava da capo a piedi e si sforzava in
tutti i
modi di sostenere quello sguardo atroce, senza crollare, senza dare
loro la
soddisfazione di vederlo distruggersi sotto quelle pupille minacciose.
- Che, che cosa volete da me? – ebbe il
coraggio di sussurrare, stringendosi nella maglietta scura che
indossava, ormai
intrisa di terra.
- Sei un mostro, Jack. – gli sibilò in un
orecchio, fingendo di bisbigliare, concentrando poi la propria
attenzione sul
viso del bambino, dai lineamenti dolci e delicati, ma spezzato a metà
da delle
recenti cicatrici che nascevano ai lati della bocca per poi spegnersi
in mezzo
alle guance. Ancora disseminate dal sangue rappreso, ancora solo
parzialmente
ricucite, ancora molto gonfie.
Gli altri bambini risero con scherno,
cominciando a canticchiare un motivetto diventato usuale tra loro, nel
quale
ripetevano la frase detta dal loro capo.
- Guardati, sei veramente un mostro.. Dicono
che sia stato tuo padre a ridurti così la faccia.. Chissà che cosa devi
aver
combinato per meritarti una tale punizione! – sogghignò apertamente,
sciogliendosi in una risata derisoria – Dai, raccontacelo a tutti, che
cosa hai
fatto?
- Niente. – rispose debolmente Jack, ferito
nel profondo ma incapace di reagire. Il suo rifiuto a rispondere
correttamente
fu premiato con una serie di schiaffi che si abbatterono sul suo viso
già
abbastanza martoriato, accrescendo i suoi gemiti.
- Cosa hai detto? Non abbiamo sentito bene!
– incalzò il capo degli inseguitori, furente, sferrandogli un calcio in
pieno
ventre che lo fece sobbalzare e gridare di dolore. Jack non riuscì più
a
mantenere la sua consueta dignità e si sciolse in lacrime, provocando
il
silenzio immediato dei suoi aguzzini.
- Credi di farci pena? – sussurrò fra i
denti, mentre una rabbia animale e ingiustificata gli afferrava le
membra – I
mostri non fanno pena a nessuno, ricordatelo, Jack.
Non appena finì di parlare, si avvicinò con
lentezza a lui e lo colpì alla testa con una tale forza da provocare il
suo
svenimento. Se ne andarono, correndo e fingendo noncuranza, lasciandolo
così,
sanguinante, infreddolito, svenuto sotto la pioggia battente.
- Jack? Jack? Ti prego, rispondi! – una voce
calda, materna, riempiva e turbava improvvisamente il fruscio
dell’acquazzone.
La conosceva: nell’irrazionalità del dormiveglia non avrebbe saputo
dire di chi
si trattasse, ma gli evocava una sensazione familiare e piacevole. Si
abbandonò
a quelle parole, ma quando il suo corpo venne sollevato e avvolto da
una
sensazione di calore e di protezione, si svegliò improvvisamente,
ispirando
avidamente dai polmoni stanchi e rivolgendo lo sguardo alla persona che
lo
aveva soccorso.
La maestra Lily lo guardava, sentendosi
estremamente in colpa per averlo perso di vista: li aveva notati
allontanarsi
correndo, e ingenuamente aveva pensato che stessero giocando, dunque
non era
intervenuta. Ma quando aveva visto gli altri bambini ritornare
frettolosamente
senza di lui ed eludere le domande, aveva cominciato ad insospettirsi:
perché
Jack non era più con loro? E soprattutto, perché erano tutti così
sporchi di
fango e di un altro imprecisato liquido rossastro? Un sinistro
presentimento
l’aveva colta e aveva cominciato ad avanzare fra gli alberi, stringendo
convulsamente l’ombrello fra le dita. E lo aveva visto, rannicchiato ai
piedi
di un abete, sporco di melma e di sangue, privo di conoscenza, così lo
aveva
preso in braccio, noncurante di sporcarsi, nel tentativo di
riscaldarlo.
- Maestra.. – balbettò il bambino,
ricominciando a piangere, stringendosi nel suo abbraccio caldo e
confortevole –
Mi fa male la testa..
- Non ti preoccupare, piccolo. Andrà tutto
bene. – disse, cercando di impedire alla propria voce di tremare,
cominciando
ad avanzare nell’erba, tenendolo stretto a sé. La donna ribolliva di
rabbia e
indignazione: come potevano essere dei bambini così crudeli? E
oltretutto, con
un bambino già visibilmente ferito. Aveva saputo la sua disgrazia
appena qualche
settimana prima, quando Jack era stato trasferito nell’orfanotrofio in
cui
lavorava: il padre, alcolizzato, aveva ucciso la madre e poi aveva
sfregiato il
volto al loro unico figlio, presente al momento dell’omicidio,
dopodiché si era
tolto la vita. E così Jack, a soli otto anni, era rimasto completamente
solo.
Dopo un breve soggiorno in ospedale i servizi sociali, in assenza di
altri
parenti a cui affidarlo, lo avevano trasferito lì, in attesa di
un’eventuale
adozione.
Le faceva una pena immensa, quel bambino
così triste, che passava le giornate a guardare il nulla dalla
finestra, con
quel viso dolce, orribilmente sfigurato; non parlava mai a nessuno ed
era molto
timido, solo lei a volte riusciva a farlo sorridere. Jack la trovava
così bella,
così delicata, così simile a come avrebbe voluto che sua madre fosse:
Lily era
bionda, con una lunga chioma di capelli fini e lisci sempre ordinati, e
i suoi
occhi erano dello stesso colore del mare. Il solo specchiarsi al loro
interno
lo tranquillizzava e placava il terrore costante che albergava ormai
nel suo
piccolo cuore.
- Andrà tutto bene, ora ci sono io a
proteggerti. – sussurrava la donna fra i suoi capelli mossi, sporchi di
terra,
accarezzandogli delicatamente la testa e le guance, continuando a
camminare nel
cortile, ormai vicina all’edificio. Lo portò in braccio fino alla sua
stanza da
letto, dove lo spogliò, lo asciugò con attenzione
e gli fece indossare il pigiama, per poi
immergerlo sotto le coperte.
- Non andartene, ho paura. E se non torni
più? – mormorò Jack con gli occhi lucidi non appena comprese che Lily
se ne
stava andando, afferrando una delle sue mani e stringendola forte fra
le
proprie.
- Tornerò, non preoccuparti. Verrò a
svegliarti domattina, così parleremo con calma di quello che è successo
oggi.
Va bene, piccolo Jack? – lo consolò con un sorriso materno, toccandogli
fugacemente il viso e allontanandosi in fretta da lui. Voleva bene a
quel
bambino, ma quella sua smisurata carenza d’amore a volte la spaventava:
e se
non fosse stata in grado di aiutarlo? Anche solo il guardare quelle
cicatrici
le faceva salire i singhiozzi : com’era possibile infliggere
volontariamente
dolore ad una creatura così tenera e indifesa? Uscì velocemente dalla
stanza,
persa nei suoi pensieri.
Jack dormì a lungo ed era ormai mattina
inoltrata. Nessuno era venuto a svegliarlo, il sole era già alto nel
cielo e
filtrava abbondantemente attraverso le persiane socchiuse. Si sentiva
meglio,
il dolore alla testa era quasi completamente scomparso, anche i lividi
erano
meno pulsanti. Si alzò, ancora lievemente tremante, e con passi
malfermi si
diresse verso la porta chiusa della sua stanza, sotto la quale vi era
un foglio
piegato in due, con qualcosa scritto con il pennarello indelebile
all’interno.
“Ci
tenevi a lei, vero?”
Jack rabbrividì e si scaraventò fuori dalla
stanza. E la vide: esanime e senza vita, appesa al lampadario del
corridoio.
Urlò e pianse, mentre si avvinghiava a quelle caviglie
familiari,desiderando
con tutto il cuore che non fosse vero, che lei sarebbe rimasta al suo
fianco
per sempre, che lo avrebbe cresciuto, che lo avrebbe amato come un
figlio. Ma,
poco alla volta, una consapevolezza amara conquistò la sua mente pura e
infantile: lei non sarebbe mai ritornata, come suo padre, come sua
madre.
Non avrebbe più amato nessuno per la paura
di metterlo in pericolo. Ma doveva assolutamente vendicarla: chi
afferma di
ritornare poi ha il dovere di farlo. E chi glielo impedisce va
eliminato, ad
ogni costo.
*
Il Joker si
risvegliò improvvisamente, come se fosse stato appena immerso
nell’acqua
gelida. Sussultò visibilmente e tutto il suo corpo si agitò in preda
alle
convulsioni: anche i suoi occhi adulti stavano versando lacrime: odiava
ricordare quel momento della sua vita, quello in cui aveva cominciato
ad
uccidere, ad essere gelido, insensibile, violento, privo di ogni genere
di
empatia.
- Come ti
senti? E’ diminuito l’effetto del farmaco? – gli chiese la dottoressa,
inconsapevole.
- Devo
ritornare a casa, hai capito? – urlò lui istintivamente, in balia di
una crisi
isterica – Devo ritornare a casa! Fammi ritornare a casa! Subito!
- Non posso
farlo. Tu rimarrai qui fino alla fine del processo, quando decideranno
se darti
la pena di morte oppure l’ergastolo. E comunque, perché? – ribatté lei,
fredda
ma sinceramente incuriosita.
Il Joker,
finalmente, ricordò tutto: il colpo, il piano, il sistema di evasione,
ma
soprattutto la cosa più importante.
Le aveva
promesso che sarebbe ritornato da lei.
Harley.
*
- Ho
promesso alla mia donna che sarei ritornato da lei. – urlò ancora,
piantando i
propri occhi folli e impulsivi in quelli decisi e incorruttibili della
donna,
che lo fissavano increduli e per nulla comprensivi.
- Non mi
interessa. Io sono qui per curarti fisicamente e basta. – ribatté,
mettendo una
debita distanza fra sé e quel criminale, improvvisamente lucido, che la
guardava come una predatore fissa la sua preda.
La nebbia
nella sua mente si era completamente diradata, e la cosa che lo
divertiva più
di tutte era ricordare che nel suo piano era compreso un eventuale
arresto con
conseguente trasferimento ad Arkham: aveva infatti piazzato degli
esplosivi al
suo interno, collocandosi sottopelle un minuscolo detonatore, frutto
della
migliore tecnologia americana. Sapeva che normalmente i pazienti
psichiatrici
venivano immobilizzati o con le mani legate lungo i fianchi o nella
camicia di
forza, ed aveva collocato quel minuscolo bottone di distruzione in un
punto che
sarebbe stato semplice da premere in entrambe le posizioni.
L’unico
ostacolo al suo piano perfetto era stato questo misterioso farmaco che
gli era
stato iniettato, capace di confonderlo per alcune ore e trascinarlo
nell’inquietante abisso dei suoi ricordi d’infanzia, nitidi come in
un’allucinazione. Ma poco importava, sarebbe riuscito a liberarsi entro
breve,
ma prima voleva mettere alla prova l’incauta donna che osava opporsi a
lui.
- Ah, e così
non ti interessa. Che cosa faresti, se io ti confessassi che posso far
esplodere l’edificio quando voglio? – rise lui, sardonico e fiero.
- Ti direi
che non è possibile: sei stato perquisito e non hai addosso nessun
genere di
detonatore, nessun cellulare o apparecchio che possa innescare una
bomba a
distanza. – rispose lei, seria e razionale, ben decisa a non farsi
raggirare.
Era questo l’atteggiamento che nel corso degli anni le aveva fatto
guadagnare
una notevole credibilità e un rapporto ottimale con i pazienti.
- Dolcezza,
sapessi quanto ti sbagli. – sghignazzò, aprendo il volto in un sorriso
gioioso,
reso minaccioso dalle cicatrici e dallo sguardo lucente. – Peccato,
saresti
stata una persona divertente con cui giocare, ma al momento ho
decisamente
fretta!
La
dottoressa non ebbe nemmeno il tempo di ribattere: la deflagrazione fu
immensa,
ovviamente nel lato della clinica non riservato alle celle dei
pazienti, ma fu
sufficiente a far crollare buona parte dei muri della stanza: il colpo
rovesciò
il letto sul quale lui era sdraiato e lei ne fu travolta. Il Joker,
nonostante
fosse lievemente intontito e dolorante per la caduta, riuscì agilmente
a
liberarsi, alzandosi finalmente in piedi.
- Mi
dispiace, cara. Sai come la penso io, chi impedisce ad altri di
mantenere le
promesse va eliminato a qualsiasi prezzo. – spiegò, guardandola con un
senso di
compiacimento sempre crescente, mentre la soddisfazione lo portava a
ridere
incontrollatamente. Si chinò su di lei, ormai senza vita, con sguardo
sprezzante e appoggiò accanto al suo corpo una delle sue carte,
diventate ormai
la firma dei suoi crimini più efferati.
Il Joker
correva, protetto dal buio della notte, per le strade di Gotham City.
Ansimava,
incespicava, tentando di evitare le macerie, sforzando il suo corpo
ancora
ferito e debilitato ben oltre le proprie reali possibilità: cadde,
sprofondando
nella cenere di un vicolo, per poi rialzarsi, fiero e convinto. Con le
caviglie
tremanti e incerte ricominciò a camminare, cercando di orientarsi
correttamente:
da quello che poteva scorgere grazie alla luce della luna e da quei
pochi
lampioni rimasti in funzione si trovava vicino al centro della città.
La sua
abitazione era situata nel quartiere nord della città, dunque avrebbe
solo
dovuto proseguire dritto e sarebbe facilmente giunto a destinazione.
Mettere un
piede di fronte all’altro e slanciarsi in avanti era diventato un gesto
meccanico, reso faticoso dalle ferite colme di vetri sulla sua schiena,
che ad
ogni lieve movimento stillavano fresche gocce di sangue. Ma il Joker
era
talmente determinato da non avvertire più il dolore: la sua missione
era
riuscita, e nonostante il piccolo inconveniente era riuscito a
scappare. Non
poteva assolutamente smettere di avanzare, arrendendosi: le aveva
promesso il
suo ritorno e nessuno più di lui
sapeva quanta sofferenza provocano le speranze disilluse.
E non solo.
Si scopriva a pensare a lei con amore, desiderando di rivederla e di
poter
nuovamente stringerla fra le proprie braccia, di venire abbracciato con
quella
dolcezza di cui era sempre stato affamato e avido. Tentava inutilmente
di
tenere lontano dai propri pensieri quello che aveva involontariamente
rivissuto: erano ricordi capaci ancora di avvolgergli il cuore in una
morsa
nera e rabbiosa. Nonostante la propria vendetta fosse poi stata
efficace ed
esaustiva, la sensazione di ammirare i loro corpi distrutti e il ridere
sulle
macerie di quell’orfanotrofio non avevano mai sorpassato la
disperazione e la
solitudine immensa che aveva provato. Harley era la sua salvezza,
l’unica
persona che era riuscita nella parte successiva della sua vita a fargli
ritrovare la sua umanità, i suoi sentimenti: la amava e non avrebbe
permesso a
nessuno di separarlo da lei.
Arrivato dal
palazzo nel quale abitavano, alzò istintivamente lo sguardo e la vide
alla
finestra: era bellissima e delicata, lo sguardo preoccupato che si
riempiva di
gioia nel vederlo, le lacrime di felicità subito abbondanti lungo le
guance
prive di imperfezioni. La salutò con un cenno del capo, emozionato, e
cominciò
a correre su per le scale, impaziente di vederla, finalmente.
Ma quando fu
a pochi passi da lei, praticamente in cima, le forze gli mancarono
all’improvviso e svenne rovesciandosi sulla scalinata, immediatamente
macchiata
di sangue. Harley corse da lui e lo abbracciò, trascinandolo in casa.
- Pasticcino
mio, che cosa è successo? – mormorava al suo viso incosciente e
inspiegabilmente rilassato, quando notò la situazione disastrosa della
sua
schiena. Lo sdraiò sul ventre, e strappandogli quel poco che rimaneva
della sua
camicia curò le sue ferite con cura, estraendo lentamente i cocci di
vetro e disinfettandogli
i tagli. Lo circondò poi con bende pulite e fresche, lo infilò sotto le
coperte
e dopo essersi rannicchiata al suo fianco, gli baciò una mano, morbida
e
graffiata. Il suo odore dolce e virile le riempì le narici: si sentiva
di nuovo
a casa. Persino quei muri, senza di lui, non avevano alcun valore
affettivo per
lei, che si sentiva a proprio agio e al sicuro solo quando c’era il
Joker.
- Ho vinto,
Harley. – sussurrò lui, rinvenuto, gonfio di orgoglio, girando il viso
ancora
vagamente truccato per poterla guardare negli occhi celesti e commossi.
– Ce
l’ho fatta. Il Palazzo di Giustizia è crollato come un castello di
carte.
- Non avevo
dubbi, pasticcino. Sei il migliore di tutti. – rispose la donna,
portandosi
ancora alle labbra le sue dita lunghe e ruvide. Il desiderio di
abbracciarlo
rendeva il suo tocco rovente ed affamato, ma si tratteneva per non
aggravare il
suo dolore alla schiena già insopportabile. Lo guardò sorridendo
teneramente,
ma alcune parole scavavano il terreno fragile della sua mente ansiosa,
lottando
per venire alla luce. Le combatté con tutte le proprie forze, sapendo
che il
Joker non amava introdurre certi discorsi, ma, vinta dalla tensione si
sciolse
in lacrime, lasciandolo stupito.
- Che
cos’hai? – ringhiò lui, rude, ritraendosi dalle carezze della donna. A
volte i
suoi sentimentalismi avevano il potere di irritarlo terribilmente.
- Ho avuto
così tanta paura. – gli confessò tutto d’un fiato – Ho acceso la
televisione,
c’era un poliziotto che faceva chiaramente intendere che non avresti
più
attaccato la città.. ho avuto paura che fossi morto.. o che ti avessero
rinchiuso da qualche parte.. scusami.
Il Joker la
fissò profondamente, addolcito, riflettendo su quanto ci fosse andato
vicino: e
se non avesse mai recuperato la memoria? Non avrebbe potuto
ricongiungersi a
lei, l’avrebbe persa, avrebbe perso nuovamente la persona che amava di
più al
mondo, rimanendo solo.
- Harley.. –
sussurrò, la voce roca, osservandola negli occhi cerulei e sinceri. Si
commosse, le iridi oscure e lucenti come fuoco ardente,
nell’accarezzare con lo
sguardo quelle fattezze amate e familiari, calde e accoglienti.
Inabissò le
proprie dita fra i capelli biondi della donna, attirandola a sé,
socchiudendo
le proprie labbra ampie e vermiglie. Lily.
La potenza di quel ricordo estirpato dalle radici della sua memoria lo
sconvolse: non avrebbe permesso a niente e a nessuno di separarlo da
Harley,
così simile a quella donna che gli aveva voluto bene e aveva pagato con
la sua
vita il prezzo di quell’amore.
La baciò con
passione, stringendosi a lei, lasciandosi cullare dal battito vivo e
costante
del cuore della donna, innamorato e finalmente placato.
- Oh,
pasticcino, sono così felice che tu sia qui con me. – mormorò sulla sua
morbida
e umida bocca, specchiandosi in quelle pupille attente ed emozionate.
- Te lo
avevo detto che sarei ritornato. Non ricordi? – ribatté lui, turbato,
le grandi
labbra scarlatte strette l’una contro l’altra, tremule.
- Sì,
tesoro, ma.. poteva sempre succedere qualcosa.. – bisbigliò timidamente
la
donna, allontanandosi di qualche centimetro e abbassando lo sguardo.
Harley
sapeva che il Joker odiava che si dubitasse delle sue parole e l’ultima
cosa al
mondo che desiderava in quel momento era litigare con lui.
- Guardami
negli occhi, Harley. – le intimò, improvvisamente serio.
La donna
rialzò lentamente la testa, costringendosi a guardare in quegli abissi
scuri, umidi
di emozione, fiammeggianti di vivida passione. Lo amava davvero: quel
sentimento era dirompente e incontenibile dentro di lei, inarrestabile
come una
tempesta.
Poche parole
sorsero dalle sue labbra carminie, lievemente tremanti.
Il tono
della voce risoluto e tenace.
Tiepide
lacrime sgorgarono copiose dai suoi occhi scuri e profondi, ritornati
infantili
per un istante.
- Io mantengo sempre le mie promesse,
Harley. -
*
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