Capitolo
1
La
canzone del sole
“Maledizione
Li, non è la prima volta che vai a Tokio!” Questo è ciò che pensavo tra me e me
poco prima di accendere una sigaretta nella zona fumatori dell’aeroporto di
Narita, terminal dei voli internazionali. Ricordo di aver fumato un pacchetto
intero di Marlboro appena comprato al tabacchino poco distante, lo consumai
così in fretta che più di una persona mi chiese se stessi bene.
Ma
fatevi gli affari vostri!
«Tu
sei già stato in Giappone, ci hai anche vissuto per parecchio tempo. So che sei
una risorsa relativamente giovane ma non ho nessun altro da inviare per gestire
la filiale, si tratta della nostra prima apertura nipponica e ti assisteremo
giorno per giorno.»
“Ma
perché cazzo ho accettato?” Quella era la seconda frase che ronzava tra una
sigaretta e l’altra. Non avevo mai fumato così tanto e cominciai a desiderare
l’aria pulita dell’esterno, pulita per modo di dire dato il traffico presente della
metropoli. Raccolsi la maniglia del trolley e mi diressi verso il primo taxi
fino all’appartamento preso in affitto dalla mia azienda.
Tornare
in quella parte del Paese significava una cosa sola: Sakura Kinomoto. A
Tomoeda non ci sono Università, data la vicinanza con Tokio, doveva aver finito
gli studi da parecchio tempo e aver già trovato lavoro – o per lo meno lo speravo
– il che rendeva un nostro incontro molto probabile. Lo so, lo so, su tredici
milioni di abitanti non è possibile che io sia così sfigato da incontrarla per
strada, questo lo dite voi, non mi conoscete così bene.
Non
è che non la volessi incontrare, in realtà ne avevo una voglia pazzesca; non
avrei saputo che dire, come parlare, dove andare, avrei fatto la figura del ragazzino
al suo primo appuntamento.
Il
taxi correva per le vie trafficate della città diretto a Shinjuku, dove si
trovava il mio appartamento semi vuoto, avevo la fortuna di non stare in un
monolocale, come succedeva per molti universitari; una stanza per la cucina con
un tavolo, una camera da letto con letto matrimoniale occidentale e
vista sulla città, un piccolo ingresso con un mobile per il televisore e lo
spazio per un divano e una poltroncina in miniatura, una stanza per i bambini,
che decisi di adibire a studio, un buco-ripostiglio e un bagno alla occidentale
con doccia. Casa!
Il
giorno dopo mi feci vivo al locale commerciale, a Shibuya, dove i muratori
stavano lavorando all’impianto elettrico e idraulico, con gli arredatori
decidemmo come impostare i mobili e in che modo i clienti sarebbero entrati e
cosa si sarebbero trovati davanti, davvero snervante; quando gli operai
andarono via mi incamminai anche io verso casa, non mi sembrava il caso di
prendere il taxi dato che la stazione centrale era a poche centinaia di metri.
Ipod
e via! Non mi trovavo bene dentro all’abito scuro, così elegante da farmi
ribrezzo ogni volta che lo vedevo su di me allo specchio, allentai la cravatta
rossa con il simbolo aziendale e mi feci spazio tra la folla della stazione.
Lungo le scale e i corridoi ricevetti decine e decine di spallate e gomitate
finché non ne ricevetti una talmente forte da farmi voltare. Se devo essere
sincero venni sfiorato appena ma qualcosa di molto più forte mi voltò ed
indirizzò i miei occhi verso un ammasso di capelli familiare ed un sorriso che
trasmetteva una piacevole nostalgia. Scomparve quasi all’istante in mezzo al
resto della folla.
“Li
Shaorang, ci sono tredici milioni di abitanti, ripeto: tredici milioni. E’
statisticamente improbabile che sia proprio lei. Ed ora muoviti o perdi il treno!”
Salii
sul treno e fui felice di togliermi le scarpe una volta rientrato in casa ma il
frigo vuoto mi ricordò di fare la spesa, e subito se non volevo andare a letto
senza cena; davvero dura cambiare città da un giorno all’altro, non sai nemmeno
dov’è il supermercato più vicino.
Fortunatamente
mi ci vollero poche settimane per abituarmi alla mia nuova vita giapponese e
finalmente arrivò il giorno dell’inaugurazione. Decine e decine di invitati si
affollarono nei locali ancora impregnati dall’odore della vernice fresca. Una
dozzina di tavolini con i rinfreschi vennero presi d’assalto mentre chi non
pensava al cibo annoiava me, i miei superiori in visita o visionava i prodotti
ed i servizi offerti. Quando mi liberai dell’ultimo scocciatore uscii in strada
e potei finalmente accendere una sigaretta, non lo avevo ancora fatto quel
giorno, non avevo nemmeno avuto il tempo di andare al bagno.
Il
fumo entrò in bocca e lentamente fino ai polmoni, mi diede alcuni secondi di
sollievo finché un'altra scocciatrice non mi si avvicinò, ma non potevano
guardare i prodotti senza fare domande? Tanto nessuno di loro avrebbe mai
comprato il giorno dell’inaugurazione. Cercai di sfoggiare il sorriso più
decente del mio arsenale ma risultò una smorfia. Lei non parlò e si limitò ad
osservarmi da capo a piedi, era alquanto snervante e quasi per dispetto
ricambiai quegli sguardi. Era più bassa di me e la sua fronte arrivava appena
al mio collo, la sua pelle era bianchissima così come i capelli castani che
sembrava volessero diventare a tutti i costi biondi, gli occhi grandi e chiari
guardarono fissi i miei finché il suo viso non mostrò un sorriso fin troppo
familiare.
«Ciao!»
La voce era caldissima ed impossibile da non riconoscere.
«Ciao,
Sakura.» In quel’istante milioni di fotogrammi, di miglia di istanti, di
centinaia di giorni passati insieme cercarono di riaffiorare tutti insieme
nella mia testa, facendo un gran male al cuore. Dall’ultima volta che l’avevo
vista era ancora più bella, i capelli erano diventati ricci, gli occhi
sembravano ancora più chiari di come li ricordassi, le labbra con il rossetto
le donavano davvero tanto ed i seni erano cresciuti quasi alla terza, ammetto
di non essere riuscito a non guardarli di tanto in tanto, portava nei polsi due
fiori di ciliegio giapponese tatuati con tratto così delicato da non attirare
troppo l’attenzione.
«Sei
diventato ancora più alto.» Fu la prima frase che mi disse mentre arrossiva,
cercò di nasconderlo facendo la parte della sicura di se.
«Anche
tu sei cambiata tantissimo, non ti stavo riconoscendo…ti vedo in ottima forma.»
Fu naturale ricambiare il complimento e diciamo anche che fu d’obbligo, era
stupenda. «Che cosa ci fai qui?»
«Questa
domanda la dovrei porre io, ma ho deciso che mi farò gli affari miei, comunque,
Tomoyo ha saputo che eri a Tokio ed è riuscita tramite le sue conoscenze a
procurarmi un invito…beh, volevo vederti per dirti in faccia che sei uno
stronzo!»
«Grazie!
Questo complimento è per il fatto di non essermi fatto vivo?» La faccia di
Sakura diventava sempre più rossa, quasi livida, sembrava voler esplodere da un
momento all’altro. «Sono stato molto impegnato con questo progetto ed una volta
che le cose si fossero calmate vi avrei contattato. Mi perdonate?»
«Tomoyo
non è in grado di provare rancore verso gli esseri umani, è a me che devi
chiedere perdono: comincia offrendomi qualcosa da bere!»
Non
potei ribattere e l’accompagnai nella confusione dei festeggiamenti fino ad un
bancone adibito a bar improvvisato. Mi feci porgere due bicchieri di aperitivo
e dopo aver trovato due sedie libere ci trattenemmo a parlare di quegli anni
che non ci eravamo visti. Troppo impegnati e lontani per restare perennemente
in contatto tramite social network. Parlammo di Università, lavoro, della
famiglia, di come fosse cambiata la città, della nuova crisi economica,
ricordammo momenti passati insieme alle elementari e ridemmo a più non posso,
le solite cose che ci si dice in quegli incontri, finché non tirammo fuori
l’argomento Italia.
Era
ancora una ferita aperta, beh non proprio una ferita ma poteva essere ritenuta
tale in quanto ero andato via, per la terza volta dopo aver liberato i miei
sentimenti nei suoi confronti. Entrambi avevamo paura di aprirci una quarta
volta ed eravamo diventati adulti. “Errare è umano ma perseverare è diabolico”,
disse una volta un tizio dell’antica Roma.
La
serata era volta a termine senza che ci fossimo mai sfiorati. Gli invitati
cominciarono ad andarsene uno dopo l’altro, sopraggiungeva l’ora di cena. Per
ultima andò via anche Sakura e stranamente ne sentii la mancanza non appena
sparì in strada.
Finalmente
la chiusura e fui felicissimo di poter tornare a casa, il giorno dopo non si
sarebbe aperto in quanto domenica, ero libero fino al lunedì e sapevo che avrei
dormito quasi tutta la mattinata.
«Dove
vai, non penserai mica che bastino due mezzi bicchieri per farti perdonare?»
Sakura era inaspettatamente rimasta ad aspettarmi fuori dalla filiale. Quasi mi
sobbalzò il cuore e feci viaggi mentali di chilometri e chilometri. «Ti va di
offrirmi la cena domani? Decidi tu dove, ora devo andare dal mio ragazzo.»
Anche
quella sua ultima frase mi fece sobbalzare, non mi sarei mai aspettato che
Sakura volesse cenare con me e non mi importava se aveva il ragazzo, sapevo che
si trattava di uno spuntino tra conoscenti di vecchia data. Non potei che
accettare e darci appuntamento il giorno dopo davanti al mio posto di lavoro;
ero contento come un bambino al quale hanno promesso una gita a Disneyland,
tale era la mia gioia che non riuscii a prendere sonno per molte ore. La euforia
però, finì con lo scemare minuto per minuto mentre l’attendevo sul marciapiede,
tra un tiro e l’altro di sigaretta continuavo a partorire eventuali scuse o
contrattempi per giustificare il suo breve ritardo, successivamente questo si
trasformò in un ritardo di quasi mezz’ora e successivamente di un’ora ed infine
di due ore e più. Capii di essere stato preso in giro, si era vendicata di
essere andato via e di essermi dato al banditismo per tutto quel tempo.
Sconsolato rinunciai anche ad accendermi l’ultima sigaretta del pacchetto e
tornai a casa per andare a dormire, nemmeno mi cambiai e così vestito andai al
lavoro il lunedì successivo restando apatico per tutto il giorno.
Ogni
persona che passava ed ogni ed ogni cliente mi facevano sobbalzare, pensavo e
speravo di vedere il suo volto, non ero arrabbiato ma molto deluso e non sapevo
che avrei dovuto dire o fare quando l’avrei rincontrata, se mai sarebbe
ricapitato. Come da aspettativa Sakura non fece capolino dalla porta a vetri e
non lo fece nemmeno per il resto della settimana, nemmeno in quella successiva.
Mi sentivo come in attesa di un pacco importante che non si decidevano a
consegnarmi, molto snervante e proprio quando mi dissi arreso la ritrovai sul
pianerottolo del mio appartamento.
Il
suo sorriso era un incrocio tra la gioia e le scuse, fece un passo nella mia
direzione e mostrò due buste con la grande M del loro McDonald’s; non dissi
nulla ed aprii la porta di casa valutando attentamente se farla entrare oppure
no, alla fine mi scostò e si fece largo nel mio disordinato appartamento.
«Caspita
quanto lerciume!»
«Prego,
entra pure come se fosse casa tua, nessun disturbo.» Al quanto sarcastico.
«Grazie,
sei molto gentile!» Sakura scostò alcune lattine e pacchetti di sigarette vuoti
dal tavolo e ci poggiò sopra le buste con la cena.
«Io
sono gentile ma tu non lo sei stata proprio.»
«Ho
avuto problemi con il lavoro, sono vice maître in un locale al quanto rinomato, il mio superiore ha avuto un
incidente in moto, non è grave ma è dovuto restare in ospedale per qualche
giorno e questo significa che ho dovuto prendere il suo posto per due intere
settimane, senza giorni liberi a pranzo e cena.» Sakura parlava a sguardo
basso, si vedeva che si sentiva in colpa. «Non ho il tuo numero di telefono e
ho scoperto dove abiti chiedendo dove lavori. Con due settimane così pesanti
gli unici istanti liberi che avevo li passavo con il mio ragazzo o dormendo.»
«E allora perché non sei con il tuo ragazzo?» C’era
una nota di rimprovero nella mia frase, ma anche invidia, speravo che non se ne
accorgesse.
«Teoricamente non stiamo insieme ma mi piace
considerarlo tale, comunque non mi va di annoiare ancora di più una persona a disagio
in mia presenza, mi volevo scusare ma c’è un muro. Me ne vado.»
«Adesso non fare la bambina!» Mi tolsi il
giubbotto e feci spazio sul tavolo. «Non mi sembra il caso di lasciarti
mangiare tutto da sola, ingrasseresti e finirai col prendertela con me.»
«Quindi mi trovi bella?»
«Domanda trabocchetto e non risponderò in quanto
tutto ciò che potrei dire potrebbe essere utilizzato contro di me in futuro.»
«Hai evitato la prima trappola della serata,
complimenti.» Rise e dovetti lottare con me stesso per non incantarmi nel suo
sorriso. Tirò fuori dalle buste di carta due hamburger, due porzioni di patate
e due bibite, tutto in formato gigante. Un punto a suo favore.
Si sedette senza attendermi ed addentò il suo
panino, la seguii e mandai giù il primo boccone. Freddo, così come le patate
fritte. Mangiammo in completo silenzio e fu quasi surreale perché ci guardammo
negli occhi per tutto il tempo, come se attendessimo che qualcuno parlasse da
un momento all’’altro. I tatuaggi che aveva nei polsi erano bellissimi,
sembravano veri, un ramo con un fiore di ciliegio che spuntava dalla pelle per
ogni braccio, erano simili ma diversi, solo osservandoli bene era possibile
capirlo.
«Mio padre e mio fratello.» La bibita di Sakura
finì rumorosamente e mi porse la mano in modo che potessi osservare meglio il
tatuaggio, si era accorta che li stavo fissando. «Nella simbologia di quest’arte
i fiori del ciliegio giapponese rappresentano la famiglia, un fiore per ogni
membro.»
«Non vedo quello di tua madre.»
«Lei è già tatuata dentro il mio cuore, non ha
bisogno di esserlo anche sulla pelle.»
«Capisco…ho sempre voluto un tatuaggio sulla gamba,
è doloroso?»
«E’ la domanda che fanno tutti ma non so mai
rispondere, dipende dal punto del corpo, dal sesso di chi viene tatuato, dal
tatuatore, dalla pistola, bisogna provare per scoprirlo, a me ha fatto
abbastanza male nel polso sinistro, nel destro solo un po’ di solletico.»
Dopo quel breve dialogo restammo in silenzio per
molti minuti, quando finii il mio pasto e cominciai a fare zapping tra un canale
e l’altro della televisione.
«Cavoli, è così che intrattieni gli ospiti?»
Volevo un gran bene a Sakura ma la sua presenza
stava cominciando ad essere seccante. In realtà aveva ragione, piuttosto che
fare zapping avrei dovuto tirare fuori degli argomenti, aforismi, qualcosa di
cui parlare o ridere, magari avendo tra le mani un bicchiere di vino o una
birra, un po’ di frutta secca o porcherie simili. La mia casa era ancora vuota
come il giorno che l’avevo aperta per la prima volta.
«Perché sei andato via, intendo, quando ci
trovavamo a Napoli? Perché non mi hai baciato quando ci siamo abbracciati
nell’albergo a Roma, o anche solo scostato quell’accappatoio? Perché ti sei
lasciato trascinare così facilmente in tutta quella faccenda? Perché non ti sei
mai accorto che ho preso una parte del tuo cuore?»
Maledizione Sakura! Se la situazione era già tesa
prima, con quelle domande aveva rarefatto ancora di più la tensione. Mi
aspettavo quelle fatidiche domande ma non così presto. Ero andato via perché
era tutto finito ed era in compagnia del padre e di Tomoyo; non l’avevo baciata
perché era incredibilmente lunatica e non capivo che volesse un bacio, ci
eravamo appena presi a parolacce; perché avrei dovuto scostare l’asciugamano?
Per vederla nuda e ricevere una bella sberla, ovvio; dopo che aveva vinto
l’ultima sfida, quando mi si era presentata inondata di luce ero pienamente
cosciente di quel che stesse facendo con i miei sentimenti, la sentivo frugare,
osservare, assaggiare e restai deluso quando si portò via solo quella piccola
parte di me.
«Vattelappesca.»
«Se è la tua risposta definitiva sei un idiota.»
«Grazie.»
«Ho aspettato anni per poterti sbattere in faccia
queste domande, lo so che sono stupide ma voglio una risposta, hanno
condizionato la mia vita da quel giorno in poi. Non mi importa se non vuoi
rispondere subito alle altre ma per una la esigo subito: perché sei andato via?
Perché non sei rimasto con me almeno un altro giorno?»
«Non sarebbe cambiato nulla.» Ne ero
convintissimo.
«Mentre papà era ospite all’Università siamo
andati in giro per Napoli solo io e te, ricordi? Bene, lo sai che considero
quella giornata come la più bella della mia vita?»
«Non abbiamo fatto niente di particolare, solo i
turisti.»
« Quel giorno ci siamo avvicinati così tanto che
a fine serata siamo andati in giro mano nella mano.»
«E con questo?» Mi era dispiaciuto moltissimo
andare via ma cos’altro potevo fare, avevo già perso un anno scolastico,
rischiato di affogare nel Tevere, di morire ad Agropoli, di essere arrestato
non so quante volte. Che cosa avrei dovuto fare se non lasciarla con il padre?
Ci eravamo baciati poco prima, è vero, ma io avevo casa ad Hong Kong, e tra
Hong Kong e Tomoeda c’è di mezzo un oceano.
«CAZZO!» Si era arrabbiata, non capivo il perché,
ed aveva scaraventato tutto ciò che si trovava sul tavolo a terra. «Dovevi
restare un altro giorno! Non immagini quanto mi sia mancata la tua mano, la tua
voce. Volevo passare un altro pranzo con te, lanciarti addosso qualche
briciola, camminare ancora per il centro della città e baciarti ogni volta che
mi saltasse per la testa, accarezzarti, assaggiare il tuo collo, potermi
appisolare all’ombra ed usarti come cuscino e tante altre cose ancora.»
Non dissi nulla, sapevo che si sarebbe arrabbiata
ancora di più, qualunque cosa avessi detto. Mi limitai a raccogliere ciò che
aveva lanciato in tutta la casa mentre andava a sdraiarsi sul divano – ma si,
fai pure – sembrava che le fosse venuto mal di testa, non era strano dopo
quella sfuriata.
Quando mi sedetti sulla poltrona sita di fronte
al divano mi diede le spalle voltandosi su un lato: «Ricordi quando siamo
andati al mare, a Napoli? Totalmente diverso dalle nostre spiagge e l’acqua era
molto più calda e meno sporca, se pur verde.»
«Senti Sakura, non ho ancora capito il motivo per
il quale tu sia venuta qui stasera. Da quando sei entrata non hai fatto altro
che insultare e rivangare cose vecchie. Che ti importa di tutte queste seghe
mentali sul fatto che io sia andato via un giorno prima, che ci siamo baciati
l’ultimo giorno e cose del genere? Hai il ragazzo, lo hai detto tu, dovresti
essere felice e fregartene di me.»
Lentamente si rialzò dal divano e si avvicinò
alla mia poltrona: «Voglio fare l’amore con te!»
Ok, qualsiasi uomo sulla terra direbbe che sono
un pazzo ma ero sconvolto, non poteva chiedermi una cosa del genere, con quale
faccia, con quale motivazione? Non eravamo più quattordicenni, i nostri
sentimenti reciproci erano di sicuro cambiati e non mi andava di fare del
sesso. Più di una vola mi ero immaginato di andare a letto con lei ma avevo
sempre partorito per pensiero mettendoci in mezzo dei sentimenti, una sorta di
amore, non era quello che mi si presentò davanti: «Io sarò un idiota ma tu sei fuori
di testa, per favore vai a casa e dormici su, hai detto solo cavolate da quando
sei entrata.»
«Sono una donna ormai, e so cosa voglio…»
«Che cosa vuoi dire “sono una donna ormai”, cosa
tutto hai combinato in questi anni? Tanto non mi risponderesti e non voglio
saperlo. Sono confuso da quanto ti ho rivisto la prima volta e non stai certo
migliorando le cose, penso che sia ora che tu vada a nanna.»
Ancora prima che potessi fare qualcosa si gettò
sulla poltrona e cercò di baciarmi. Lo ammetto: non ho fatto molta resistenza,
tanto che riuscii nel suo intento ma la respinsi poco dopo.
«Scusami!»
«Sakura, anche io mi sono sempre chiesto come
sarebbero andare le cose se fossi rimasto con te ma non mi sembra il caso di
fare tutte queste scene. Vuoi avermi di nuovo tra i piedi? Va bene,
frequentiamoci, ma devi risolvere i tuoi casini ormonali e la questione del tuo
ragazzo perché…»
«Non stiamo insieme, usciamo spesso con altri
vecchi colleghi universitari e di tanto in tanto andiamo a letto insieme.»
«Non ti ho chiesto di specificare ma grazie della
precisazione.» La odiai per come mi aveva sbattuto in faccia tutto quello.
L’accompagnai alla porta, sembrava che stesse per scoppiare in lacrime da un
momento all’altro e chiamai un taxi con il cellulare. Attendemmo alcuni minuti
finché non udimmo il clacson dalla strada e nel frattempo ci scambiammo i
numeri.
«Sakura…»
Di nuovo mi colse di sorpresa e mi abbracciò nascondendo
la faccia sul mio petto: «Mi sei mancato, stupido Li Shaoran.»
Quando andò via la casa sembrava un posto
estraneo, vuoto e in bianco e nero. Mi leccai le labbra alla ricerca del suo
sapore, anche della più piccola particella, sentivo ancora il calore delle sue
braccia attorno al mio corpo e il suo respiro sul mio petto. Non capivo se in
quegli anni fosse impazzita o il vedermi a Tokio l’aveva disorientata, ma
sapevo che dopo una bella dormita sarebbe tornata la Sakura che conoscevo,
dopotutto aveva lavorato come una pazza le ultime due settimane, doveva essere
la spossatezza a parlare per lei, lo speravo. Comunque, anche a me era mancata.