John Doe
Titolo: John Doe
Fandom: Supernatural
Pairing: Destiel
Rating: PG (Potrebbe variare nel corso della fic)
Chapter: 1/?
Beta: Nessuno
Genere: AU (Sviluppo alternativo), Introspettivo, Romantico
Warning: AU, Slash, Nuovo Personaggio
Summary: [SEGUITO DIRETTO DI “UOMO LIBERO AMERAI SEMPRE IL MARE” SVILUPPO ALTERNATIVO Post 7x01]
John Doe era il suo nome, il nome
che si dà ai cadaveri sfigurati rinvenuti nei fossi, ai corpi
gonfi restituiti dal mare. John Doe era il nome scritto ai piedi del
suo letto in clinica, il foglio bianco –bianco come le lenzuola,
come i muri, come i camici delle infermiere- su cui campeggiava una
scritta: Amnesia retrograda totale
Note:
Prima di leggere questa fic è necessario aver letto “Uomo
libero amerai sempre il mare”. E’ la continuazione di quel
mio delirio precedente l’uscita della 7x17. Io vi ho avvisati
<3
John Doe
John Doe era un uomo quasi completamente ordinario.
Della sua vita amava le piccole cose: il profumo del caffè
appena macinato, il letto caldo la mattina che sembra gridarti
“ehi, non abbandonarmi!”, il sole di primavera sulla pelle.
Viveva ogni cosa nella sua vita con l’entusiasmo dei bambini,
come una novità assoluta. Il che non si discostava troppo dalla
realtà.
John Doe era il suo nome, il nome che si dà ai cadaveri
sfigurati rinvenuti nei fossi, ai corpi gonfi restituiti dal mare. John
Doe era il nome scritto ai piedi del suo letto in clinica, il foglio
bianco –bianco come le lenzuola, come i muri, come i camici delle
infermiere- su cui campeggiava una scritta: Amnesia retrograda totale.
Anche John Doe era venuto dal mare, risputato su una spiaggia del Rhode
Island con solo la pelle chiara come indumento, ritrovato da una
bambina che di prima mattina cercava conchiglie, e che subito era corsa
dal nonno dicendo che c’era il fratello di Ariel la sirenetta
immerso fino ai fianchi nell’acqua, e doveva per forza essere suo
fratello perché non parlava e aveva gli stessi occhi color
dell’oceano.
Duemila milioni di mani lo avevano frugato, cercando segni, cicatrici,
puntandogli luci che bruciavano dritte nelle pupille, domande domande
domande.
Il tempo infinito in una clinica sterile, misurato in unità di piccoli progressi. La sua prima parola era stata “grazie”.
Poi la strada era stata tutta in discesa, nel giro di qualche mese
aveva recuperato le facoltà di un normale uomo adulto. Normale
per quanto possa essere normale un trentenne trovato mezzo assiderato,
senza ricordi né esperienza su una spiaggia deserta.
Il nonno della bambina che lo aveva salvato lo aveva ospitato in casa sua.
«Puoi usare i vestiti di mio figlio, a lui non servono più.»
La bambina, che si chiamava Alice –o, come sottolineava sempre
lei, Alice Abelson- aveva raccontato che la sua mamma e il suo
papà erano scomparsi un mese prima che John arrivasse lì.
«Sono andati in cielo, Johnny, lo sai? Il pastore Dewy dice
sempre che ora ci sono gli angeli che insegnano a cantare a
papà, lui non cantava tanto bene. La mamma invece aveva la voce
più bella del mondo. Tu sai cantare Johnny?»
“Johnny” aveva scoperto accompagnando Alice e il nonno
nella chiesetta del paese che sì, decisamente sapeva cantare.
Cantava come se non avesse mai fatto altro in vita sua.
Alice gli aveva insegnato le parole di una canzone semplice, lui ci
aveva messo la voce e un po’ d’improvvisazione. La bambina
uscendo dal portone lo guardava estasiata e parlava a mitraglietta.
Poi una mano fresca gli si posò sull’avambraccio e John
incontrò gli occhi acquosi e zuppi di lacrime di una vecchietta.
Lui la guardò sorpreso.
Lei gli disse «Il tuo è il canto del Paradiso.»
Una fitta gli trapassò il cervello come fuoco ardente e John si portò le mani alle tempie.
Occhi verdi e lentiggini. Capelli rossi e una voce gentile. Una zazzera bionda e un sorriso derisorio. Sangue e luce bianca.
Fece un sorriso tirato alla vecchina, Alice salutò sventolando
una mano e guardò in alto verso l’uomo che la teneva per
mano e la stava praticamente trascinando via.
Un passo, un altro.
«Johnny, piangi?»
Si fermò in mezzo alla strada, toccò le guance e ritrasse spaventato le dita bagnate.
Alice dal basso dei suoi cinque anni lo tirò per il polso fino a
portarlo alla sua altezza e gli passò le mani sul viso fino a
lasciarci solo il sale, poi soffiò sulle dita come una fatina
che sparge polvere magica.
La prima volta che John aveva pianto lei era lì con lui.
Non sapeva cosa fosse il pianto, in clinica non gli avevano spiegato da dove venisse o cosa servisse.
Non sapeva nemmeno cosa fossero gli incubi, i sedativi li tenevano lontani.
La prima notte in casa degli Abelson si era svegliato urlando, con il
viso impiastricciato ed umido e gli aveva spiegato che gli incubi
andavano via con le lacrime, perché le goccioline intrappolavano
le cose brutte che cadendo andavano via. «Me l’ha detto
papà.-
John sognava fasci di luce bianca. Un dolore fortissimo tra le costole.
Volti accusatori e sofferenti di cui non ricordava il nome.
C’era un altro sogno, un bel sogno, che era capace di scacciare il dolore dal suo cuore.
Era l’unico ricordo che i medici avevano cavato dalla sua mente distrutta.
Il suo sogno aveva gli occhi verdi e le lentiggini, un odore caldo di
sole e labbra morbide che gli accendevano un calore piacevole nel cuore
e sugli zigomi. Sa che nell’altra sua vita qualcuno lo amava.
Con un sorriso leggero come una piuma prende di nuovo la bambina per
mano e si avviano alla volta del piccolo cottage sulla spiaggia.
La testa martella ancora.
Alice corre sul ghiaino del vialetto di casa.
Inciampa, i sassolini che scavano nella carne fragile delle ginocchia.
John accorre, la preoccupazione che sale –lui non si è mai
fatto male, non sa come comportarsi, cosa fare- e le lacrime riempiono
gli occhi scuri della bambina.
Le si accuccia accanto, poggia una mano sulle gambe che sanguinano, il pietrisco conficcato tra la carne e la pelle.
E poi non c’è più niente. Come se nulla fosse
successo. Le ginocchia sono ricoperte di pelle chiara e perfetta,
senza neppure un segno.
Il pianto si ferma istantaneamente e Alice trattiene bruscamente il respiro.
«Johnny, ma sei un mago?»
John però è caduto a terra senza un suono, le fitte alla testa come coltellate inferte da un arma invisibile.
La coscienza sfugge come fumo tra le sue dita.
Sogna di nuovo gli occhi verdi e le lentiggini.
NdA: Oddio, cosa sto facendo.
Aggiungiamo questa fic a quelle che forse non dovevano vedere la luce e
rimanere al calduccio e al sicuro insieme alle altre. Però, oh,
Sera va per i fatti suoi? Posso farlo anch’io v.v
Spieghiamoci: qualcuno nelle
recensioni della fic precedente mi aveva chiesto un seguito. E io in
preda all’amore per queste persone meravigliose e
all’overdose di autostima avevo scritto questo.
Quella di Cas senza memoria era
all’epoca solo una mia teoria, l’ho scritta sotto Natale e
c’era appena stato l’annuncio che “Cas sarebbe
tornato ma diverso da com’era prima”.
Il mio cervellino sotto effetto di
uno dei miei febbroni nucleari leggendari aveva partorito l’idea
e come è andata lo sapete, il risultato è la mia prima
fic pubblicata qui.
Poi questo capitolo è finito
il giorno prima che uscisse la 7x17, l’ho guardata e oltre al mio
urletto isterico all’inquadratura dal basso del Signor Collins
che suonava più o meno come: “Francè, corri,
è lui, riconosco il culo!” *ahem* c’è stato
anche quello “Oh dèi di Asgard, sono un profeta”. Mi
sembrava ridicolo pubblicare questa fic allora, ma che ci posso fare,
l’amo tanto <3 Quindi grazie a te che te la sei sorbita
coraggiosamente.
Come al solito, mi farebbe davvero
tanto piacere ricevere consigli, critiche eccetera eccetera. Non mi
sono mai cimentata in una long, non ho idea dei tempi che
impiegherò a scrivere un altro capitolo. Voi abbiate fede, o
venite a punzecchiarmi di tanto in tanto ricordandomi che “ehi,
cervellino, ha delle responsabilità se cerchi di portare avanti
una multi capitolo!”
Vi amo ogni giorno di più,
ognuno di voi che ha letto qualcosa di mio ha un posticino speciale nel
mio cuore. Non potrò mai ricambiare l’affetto che mi date,
un bacio e may the Odds be ever in your favor.
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