Searching
“Poiché
la sorte a te mi ha strappato,
a
te, fratello infelice, crudelmente mi ha tolto.”
(Catullo)
1. La tartaruga del tempo
Per quel giorno avevano previsto pioggia. E in
effetti il cielo grigio che Ran intravide attraverso la
tenda leggermente scostata non lasciava prevedere nulla di buono.
Non
pioveva da quasi due settimane. La primavera era ormai al termine e l'estate
sembrava essere scoppiata di botto. Negli ultimi giorni il sole si era
impossessato del cielo e aveva fatto prigioniera Tokyo. I maglioncini avevano
lasciato il posto alle magliette a maniche corte, i sandali avevano spodestato
gli stivali e gli ombrelli erano stati accantonati nell'angolino più buio di
casa. Ma quel giorno no, quel giorno il sole non c'era. Aveva deciso di
nascondersi dietro qualche nuvola, per schiacciare un pisolino indisturbato.
Tutti hanno bisogno di riposarsi prima o poi.
Ran si alzò piano, controllando
l'ora. Erano solo le sette di mattina.
Non
aveva dormito granché, eppure non aveva sonno. Non aveva più avuto sonno da due
mesi a quella parte. Due mesi. Sessantadue giorni che le erano strisciati
addosso lentamente, nel ricordo di chi non c'era più e nell'attesa di chi non
voleva decidersi a tornare. Non era vero che il tempo volava. Il tempo non
passava mai. Scorreva lento come una piccola tartaruga, che, alla faccia di
Zenone, Achille aveva già superato da un pezzo. Ran
si sentiva come un sassolino incastrato nel guscio della tartaruga del tempo. E
il mondo, l'Achille dal piede veloce, correva più rapido del tempo, divorandosi
freneticamente la vita. Il più lento è destinato a rimanere indietro: era
questo che Ran aveva imparato in quei due mesi.
Sì,
se le avessero chiesto di descrivere con un solo aggettivo la sua vita, avrebbe
detto che era lenta. Terribilmente lenta.
Si
inoltrò nell'appartamento semibuio, cercando di non calpestare qualche lattina
di birra lasciata per il corridoio da suo padre. Nell'ultimo periodo beveva più
del solito, e aveva preso la cattiva abitudine di lasciare tutte le scorie del
suo vizio in giro per casa.
Ran sospirò, raccogliendo uno dei
reperti, per poi scaraventarlo nel cestino non appena giunta in cucina. Nella
casa regnava un silenzio di tomba, disturbato solo dal russare regolare di Kogoro, che, attraverso la porta chiusa e a più di un
corridoio di distanza, le sembrava solo il ronzio di una mosca.
Il
silenzio non era una peculiarità di quella mattina. Da quando Conan non c'era
più, in quella casa regnava la tristezza. Il lavoro andava male e Kogoro perdeva sempre più velocemente il suo prestigio.
Presto persino i clienti più affezionati si sarebbero stancanti, e avrebbero
cambiato agenzia. E allora sì che sarebbero iniziati i guai.
La
ragazza cercò di non pensarci, mentre preparava velocemente il suo caffè
mattutino. Di guai ne aveva già passati tanti, e non aveva voglia di pensare ai
guai futuri. Quale futuro, poi? I guai erano il suo presente. Non aveva senso
parlare di passato e futuro in quel momento. La sua vita era diventata un
interminabile presente.
Bevve
tutto d'un sorso. Non aveva fame, ma mandò giù a forza qualche biscotto. In
quel periodo stava mangiando decisamente troppo poco, e stava dimagrendo a
vista d'occhio. Ripensò alle parole che Sonoko le
aveva detto la sera prima:
“Se
non ricominci a mangiare, dovrò costringerti con la forza. Guarda che non sto
scherzando, Ran. Forse stare in quella casa ti fa
male. Perché non vieni qui da me? Anche a tempo indeterminato: per te la mia
porta sarà sempre aperta.”
Andare
via da quell'appartamento? Sì, ci aveva già pensato. Forse le avrebbe fatto
bene, eppure non se la sentiva di abbandonare suo padre proprio ora che le cose
andavano via via peggiorando. Le sembrava un
comportamento da codardi.
Si
fece una doccia e scelse i primi vestiti che le capitarono sottomano. Lasciò un
biglietto sul tavolo per suo padre, ben sapendo che comunque al suo ritorno
l'avrebbe molto probabilmente ritrovato ancora addormentato.
Vado
a trovare Conan.
Ran
In
quella domenica grigia senza scuola le strade non erano particolarmente
affollate. Forse perché erano appena le otto, o forse perché il sole aveva
deciso di portarli tutti lassù con sé, dietro le nuvole.
Passò
accanto al parco di Beika, e si fermò per raccogliere
qualche fiore. Non voleva andare da lui a mani vuote. Si sentì un tuono in
lontananza. Eppure ancora non pioveva.
Con
un gesto ormai meccanico, tirò fuori dalla borsa il cellulare, per controllare
se aveva ricevuto una chiamata, un'email, un
messaggio.. qualsiasi segno di vita.
Niente.
Shinichi non accennava a farsi sentire da due mesi.
Non era mai rimasto in silenzio per così tanto tempo. Era come se con Conan se
ne fosse andato via anche lui. Eppure lei ci sperava ancora, nonostante tutto.
Sperava che fosse implicato in un caso difficile, e che, una volta risolto,
potesse tornare da lei. Aveva cercato di parlarne con il dottor Agasa, ma con due occhi pieni di lacrime lui le aveva
detto: “Forse è meglio la speranza della certezza.”
E
basta. Non era riuscita a sapere nient'altro.
Aveva
provato a chiamare Yukiko, la madre di Shinichi. La voce di lei le era sembrata spenta,
terribilmente priva di voglia di vivere. Così diversa dalla Yukiko
di sempre. Aveva affermato di non aver avuto nuove notizie da parte del figlio,
e alla fine, prima di salutarla, le aveva detto: “Chissà, essere al tuo posto
sarebbe forse meglio.”
Ma
perché? Perché la facevano sentire come una privilegiata quando invece era
l'ultima tra le schiave? L'ansia la stava corrodendo da dentro. Che fine aveva
fatto Shinichi? E soprattutto, perché, anche se tutti
non avevano più sue notizie, nessuno sembrava intenzionato a cercarlo?
“Dove
sei?” si ritrovò a dire, gli occhi al cielo, sola al parco di Beika.
Sentì
le lacrime avvicinarsi e cercò di reprimerle. Non voleva piangere, almeno non ancora.
Si incamminò, i fiori in mano e la tristezza dietro che la seguiva come il più
fedele dei cani. Arrivata davanti al cimitero, tirò un respiro e si fece forza.
Entrò, salutando il custode che ormai la conosceva. Era sempre la prima a
recarsi lì ogni domenica mattina. E le piaceva farlo da sola, per scambiare in
pace qualche parola con Conan.
Giunta
davanti alla lapide ricercata, si sedette e sostituì i fiori lasciati una
settimana prima.
“Ciao.”
disse, osservando la foto del bambino occhialuto. La scritta sottostante, Conan
Edogawa, la fece rabbrividire. Le faceva sempre
effetto leggere il nome di lui su quella pietra fredda.
“Come
stai? Spero che almeno tu stia riposando tranquillo. Io sto sempre peggio.”
Si
zittì per un po', come se lui potesse risponderle. In fondo, un po' ci sperava.
Sperava che quella foto iniziasse a parlare.
Era
successo tutto troppo in fretta, e lei non aveva nemmeno avuto il tempo di
rendersene conto. Stavano camminando per le strade del centro, lei, Conan e Kogoro, alla ricerca di un nuovo cellulare per il
detective. Improvvisamente Conan si era fatto pensieroso, e aveva cominciato a
fissare qualcosa, che Ran aveva identificato con una
Porche ormai inconsueta parcheggiata sul ciglio della strada. Tutto d'un
tratto, Conan le aveva detto: “Ran, mi sono appena
ricordato che il dottor Agasa mi aveva chiesto di
fare una commissione per lui.. faccio una corsa fino ad un negozio qui vicino!
Ci sentiamo!”
Ed
era scappato via, senza nemmeno consentirle di rispondere. Ran
non ricordava nulla di particolare, solo quella vecchia Porche. Aveva tentato
di seguire Conan, ma lui si era velocemente dileguato. E non si era fatto più
sentire.
Ran ricordava tutto perfettamente:
l'ansia, la preoccupazione, la paura di quei giorni. Cosa poteva essere
successo a Conan? Perché non tornava a casa? Il cellulare rimaneva spento, e il
dottor Agasa sosteneva di non avergli affidato alcuna
commissione. Perché Conan si era allontanato con quella scusa? Cosa o chi aveva
visto? Era sempre stato un bambino curioso. Un po' troppo curioso. La
preoccupazione si era trasformata in dolorosa certezza quando, due giorni dopo,
il corpicino del bambino era stato ritrovato dall'altra parte della città, in
un vicolo buio vicino al porto. Qualcuno gli aveva sparato. Ma chi?
Era
questa la domanda che la tormentava e a cui la polizia non riusciva a trovare
risposta. Chi poteva uccidere un bambino? E soprattutto, perché? E come aveva
fatto Conan ad arrivare dall'altra parte della città?
Shinichi. Forse lui avrebbe potuto
trovare la soluzione dell'enigma. Lui, il giovane genio del Giappone, ce
l'avrebbe fatta. Ma era sparito nel nulla. Anche lui scomparso da due mesi
esatti. Ma a nessuno sembrava importare: o meglio, nessuno sembrava seriamente
intenzionato a cercarlo.
“Mi
sento sola da quando non ci sei.” si ritrovò a dire.
Solo
allora si accorse che aveva cominciato a piovere. I capelli bagnati le si
attaccavano alla fronte e i jeans ormai fradici le pesavano sulle gambe. Aveva dimenticato
l'ombrello. Meglio così: la pioggia le avrebbe lavato via la tristezza di
dosso.
“Scusami.
Vengo qui e sono solo capace di darti cattive notizie.”
Perché
era successo tutto veramente? Perché non poteva essere solo un brutto sogno?
Non
era sicura di saper affrontare la prova che aveva di fronte: andare avanti
giorno per giorno con la certezza della morte di Conan e l'insicurezza sulla
sorte di Shinichi.
“Tra
una settimana cominceranno le vacanze estive.” disse, quasi senza accorgersene,
“Sai, Heiji è tornato a casa giusto la scorsa
settimana. E' rimasto qui più di un mese, per cercare di capire cosa ti fosse
successo. Ma neanche lui ce l'ha fatta.”
Stava
pronunciando frasi sconnesse, una dopo l'altra, senza riuscire a fermarle.
Sentì
che aveva gli occhi lucidi. Le lacrime lottavano per uscire. Ma non voleva
piangere lì, davanti a Conan. Si raggomitolò su se stessa, stringendo con le
braccia le gambe al petto e lasciò che la testa sprofondasse in mezzo alle
ginocchia. Restò in quella posizione per qualche minuto, la pioggia che le
sferzava addosso senza pietà. Quando, improvvisamente, non sentì più quel
martello d'acqua sbatterle sopra. Alzò lo sguardo spaesata, e vide un ombrello
sopra di sé. Si girò, per controllare chi fosse quel passante generoso venuto a
soccorrerla, e vide una bambina dai grandi occhi azzurri sorriderle
leggermente. Era Ai.
“Ciao.”
le stava dicendo, sedendosi accanto, in modo che l'ombrello riparasse entrambe,
“Anche tu sei venuta qui per scambiare qualche parola con Conan?”
Ran annuì, osservando attraverso le
ciglia fradice di pioggia quella bambina un po' troppo grande per la sua età.
Ai era stata profondamente colpita dalla morte di Conan: ma Ran
aveva sempre avuto l'impressione che lei sapesse, che sapesse qualcosa di più.
Quando Ran le aveva dato la notizia della morte di
Conan e del ritrovamento del corpo in un vicolo nei pressi del porto, Ai era
impallidita e aveva incominciato a tremare. Le lacrime erano venute subito
dopo. E poi c'era stata una frase, che Ran non aveva
mai compreso appieno, ma su cui non aveva mai avuto il coraggio di indagare.
Una frase sussurrata velocemente, a bassa voce, tra un singhiozzo e l'altro:
“Tra poco toccherà a me.”
Una
frase che aveva il sapore della rassegnazione. Ed era quello che caratterizzava
Ai da due mesi a quella parte: la rassegnazione. Ran
aveva quasi l'impressione che la bambina fosse scesa dall'autobus della vita,
per accomodarsi alla fermata in attesa che un altro autobus la passasse a
prendere.
“Da
quando Conan non c'è più, mi sembra che il filo conduttore che mi teneva legata
a Shinichi si sia spezzato.”
Ran aveva pronunciato quelle parole
tra sé e sé, quasi pensando ad alta voce. E non poté non notare il sussulto che
avevano provocato nella bambina.
Già,
perché Ai sapeva tutto, ma non aveva trovato il coraggio per dirle la verità.
Non voleva coinvolgere Ran in quella brutta faccenda.
Conan aveva probabilmente assistito a qualcosa che non doveva vedere, gli
Uomini in Nero se n'erano accorti, e tutto era finito come era finito. Ai aveva
paura di essere la prossima. Senza più Conan con lei, si sentiva sola e
abbandonata. Si sentiva impotente davanti al nemico.
Per
quanto comprendesse la sofferenza di Ran, aveva
deciso di tacere. Raccontarle la verità su Conan significava anche raccontare
la verità su di lei. Significava andare troppo oltre, e compromettere
l'incolumità della ragazza. Ai cercava di affievolire i sensi di colpa pensando
che anche Shinichi avrebbe voluto così. La vita di Ran andava messa al primo posto. Ma era davvero giusto
lasciarle quell'illusione?
Nel
frattempo, Ran aveva continuato a parlare:
“Alle
volte mi viene in mente di mollare tutto. Di partire e di cercalo.”
La
bambina ebbe un altro sussulto. Questa era decisamente la peggiore delle idee.
Muovere le acque intorno alla sorte di Shinichi era
come mordere la coda al cane che dorme.
Doveva
parlare. Doveva dire qualcosa. Dirle tutto era la soluzione più semplice,
eppure non se la sentiva. Meglio la certezza o la speranza?
Strinse
la mano della giovane.
“La
speranza dà la forza di andare avanti.”
Che
frase stupida, pensò. Aveva detto quelle parole senza pensarci.
“La
speranza non può durare in eterno, Ai. Prima o poi lascia il posto alla
rassegnazione.”
Ran sospirò, mentre guardandosi
intorno vide che aveva smesso di piovere. L'arcobaleno brillava in un cielo che
andava via via rischiarandosi.
Ai
le aveva chiesto di sperare, eppure lei si sentiva sempre più vicina alla
rassegnazione. Se continuava ad aspettare, presto o tardi sarebbe anche lei
scesa dall'autobus, per accomodarsi alla fermata accanto a quella bambina che
ora fissava la foto di Conan con un velo di tristezza negli occhi.
Ran aveva sperato, Ai si era già
rassegnata. Speranza e rassegnazione. Ecco cos'erano loro due. Ma in quel momento
Ran capì che la totale passività stava pian piano
uccidendo la speranza. Bisognava fare qualcosa, in un modo o nell'altro, per
tenere viva quella speranza. Perché al mondo niente è eterno, e ci tocca
lottare anche per un unico sentimento.
Angolino
autrice:
Salve a tutti, fan di Detective Conan!
Dopo un bel po’ di tempo, ritorno con una
nuova long. L’idea è nata da un semplice pensiero: ma se a Conan dovesse
sfortunatamente (facciamo corna) succedere qualcosa, cosa ne sarebbe di Ran? Insomma, come reagirebbe lei davanti all’improvviso
silenzio di Shinichi? E Ai e gli altri le direbbero
la verità? Ecco, questa è l’idea di base della storia. Una fan fiction che
vorrei dedicare a tutti coloro che mi hanno sempre sostenuta e a chi vorrà
leggerla.
Non ho messo l’avvertimento OOC, anche se
penso che in parte sia implicito in una “What if..?” . Nel caso secondo voi sia indispensabile metterlo,
potreste dirmelo? Così provvedo a modificare gli avvertimenti :)
Un grazie speciale va a Kikari_ , che mi ha dedicato la sua
meravigliosa one-shot “Aria”. Spero che tu possa
passare di qui e leggere questa piccola dedica!
Ok, penso di aver detto tutto. Grazie a
tutti coloro che hanno letto :)
A presto con il secondo capitolo!
Flami