Almeno ricordo ancora come si respira.

di sonounaspugna
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Recepisco in ritardo, capto solo la metà delle informazioni che mi vengono date. Ma le parole chiave le ho capite: attentato, vittime, bomba, ragazzi morti .. quanto basta per lasciarmi raggelata sulla sedia. L’unico movimento - disperato - che riesco a fare è aggrapparmi al bordo del banco, nel tentativo di non cadere. Ma ormai sono al limite, le nocche sono bianche dallo sforzo nel reggermi, sto per precipitare. So che scivolerò in ogni caso, tento solamente di posticipare l’inevitabile.
Mi alzo come risvegliata improvvisamente da un sonno durato millenni ed esco dall’aula, senza voltarmi verso quei volti sconvolti che altro non potrebbero fare se non peggiorare il mio stato.
Il mondo si è inclinato, l’attrito è diminuito, e io non ho più neppure l’appiglio del banco a sorreggermi.
Bella mossa, quella di alzarsi, sorrido amaramente, poggiando la schiena contro la parete.
Un respiro profondo, nel tentativo di sciogliere quel nodo in gola e mettere a tacere quel cuore che rimbomba nelle orecchie e sfonda il petto. Come i 42 chilometri: uscire dalla classe era stato estenuante.
Chiudi gli occhi, escludi tutti, escludi tutto. Permetto al mondo di ritornare al suo posto, permetto al pavimento di rimettersi sotto ai miei piedi. E chiudo davvero gli occhi, sebbene abbia l’impressione che stiano per esplodere sotto le palpebre.
Mi concentro sul ticchettare dell’orologio. E’ un calmante, un rintocco costante che a differenza di ogni altra cosa, non varia. L’unica certezza che ho, al momento, è che un minuto ha ancora sessanta secondi.
Sistemo la camicia nei pantaloni, la abbottono fino al colletto, stringo la cintura. Sciolgo i capelli dalla treccia, lasciandoli cadere morbidi sulle spalle.
Inspiro.
Ed espiro.
Almeno ricordo ancora come si respira.




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