Credits:
“Enough
for now” dei The Fray.
One shot
ispirata da questa bellissima
canzone.
Buona lettura a
tutti... e spero possa
riuscire a trasmettere qualche emozione.
-B.
“Stanza 601”.
Osservai il cartellino che tenevo stretto fra le
mie dita, un po’
tremando, non smettendo di sudare.
Sapevo chi c’era lì dentro.
Sì, lo sapevo benissimo. E avevo paura
solo a vederlo.
Poggiai la mano sulla maniglia argentata della
porta; la girai. La
aprii.
Il cuore mi si era fermato. Era diventato un cubo
di ghiaccio, che
non riusciva a muoversi, e non voleva sciogliersi. Voleva rimanere
lì, senza
più battere. Non sentivo più il suono che
scandiva i suoi battiti, e non
riuscivo a farlo muovere, in qualche modo.
Avanzai a piccoli passi , chiudendo la porta
silenziosamente, per
non svegliarlo.
Era lì, sul quel letto. Quel letto
bianco come una nuvola.
Aveva gli occhi chiusi, un po’ coperti
dai folti capelli grigi,
che evidenziavano la sua età.
Respirava piano, molto piano. E con fatica. Le sue
braccia
cadevano delicatamente sui bordi del letto, circondati da tubicini e
flebo, in
cui scorreva il suo sangue. Il suo sangue malato. Che non era rosso.
Era
diventato rosso porpora; tendeva al viola scuro. E tutto per colpa
della sua
malattia.
Lui non mi conosceva. Non ha mai
voluto conoscermi. Ero sua figlia, ma lui non mi considerava affatto;
anzi, per
lui ero come se fossi morta. Non mi ha mai voluto.
Ha aspettato un figlio maschio. Per
tutti quegli anni, solo per vedere un figlio maschio. Che potesse
portare il
suo nome, che potesse onorarlo, e potesse rispettarlo.
Ma sono arrivata io, e non mi ha
voluto. Né vedere, né sentire, né
toccare.
Non ha mai sentito la mia prima
parola, né il rumore dei miei primi passi. La mia prima
parola è stata “papà”,
proprio lui. Lo cercavo con lo sguardo, con gli occhioni pieni di
speranza, mi
aspettavo una sua presenza, ma lui non c’era. Come non ci
è stato in tutta la
mia vita. E mia madre, per non farmi rimanere male, mi diceva che era
partito e
un giorno sarebbe tornato. Anche se non era la verità, ci
speravo, un giorno.
Ma sapevo che era solo un’illusione.
Eppure
gli ho sempre voluto bene.
Nonostante il suo bene non fosse
corrisposto.
Mi avvicinai al suo letto. Ne sfiorai
le coperte con le dita, candide e leggere come una piuma. Attraversai
il debole
corpo giacente su di esso, delineato
da
rughe marcate, che evidenziavano le sue sottili labbra e i suoi piccoli
occhi,
circondati da una neve di sopracciglia. E dormiva beato, come un
bambino
cullato dalla favola della buonanotte, senza emettere rumore. Accarezzai piano la sua nuca,
decorata dai folti capelli
bianchi, che avevano fatto di lui sempre un giovane ribelle, come mi
raccontava
mamma.
Presi una sedia, la avvicinai al letto
e mi ci sedetti. Lo guardai, accarezzandogli sempre i capelli. Ci
somigliavamo
proprio tanto. Aveva il mio stesso viso. Le mie stesse orecchie a
sventola, le
mie stesse labbra, i miei stessi occhi. Era davvero mio padre. Ma io
non ero
davvero sua figlia; per lui.
Notai che i suoi occhi stavano
cominciando ad aprirsi, sbattendo le palpebre ripetutamente. Il suo
respiro
divenne più faticoso di quello di prima. Si
guardò intorno, con aria confusa e
stanca.
Il mio cuore si sciolse dal ghiaccio
che lo imprigionava. Non lo avevo mai
visto così da vicino. Non avevo mai sentito il suo respiro.
Non avevo mai visto
i suoi occhi, che erano di un azzurro, azzurro ghiacciato, quando
invece io
pensavo fossero verdi. Non avevo mai toccato la sua mano. Non lo avevo
mai
conosciuto di persona. E ce l’avevo lì, davanti a
me, a pochi centimetri dalla
mia sedia. E forse l’avrei anche conosciuto, cosa che ho
aspettato in tutti
questi lunghi venti anni, anche se so che sarebbe stato solo un sogno.
Volse lo sguardo verso di me. I suoi
occhi ghiacciati mi fissarono un po’ a lungo, tanto da farmi
sentire un po’ a
disagio. Erano vuoti, ed era come se mi chiedessero “Chi
sei?”. Si
scorse un po’ dal letto, si sollevò appena
sul morbido cuscino di piume d’oca, e si guardò
intorno.
Abbandonai con la mano la sua nuca, e
la riposi sul mio ginocchio, intrecciata all’altra.
«Chi
sei? »
La
sua voce era stanca, respirava appena. E si leggeva anche
paura, nei suoi occhi. Forse lui mi conosceva. Forse lui aveva capito
chi ero,
ed aveva paura. Però voleva anche una conferma.
«Tua figlia».
Risposi
a fil di voce, con le lacrime che inondavano i miei
occhi umidi, spenti di coraggio e allegria, che rappresentavano la
persona qual
ero. Erano passati venti anni, e dire a tuo padre che sei sua figlia,
mentre
lui è in un letto di ospedale, il quale destino non si sa
che fine avrà, non è
per niente facile. Mi portai una mano alla guancia, per asciugarla
dalle
lacrime che la solcavano velocemente, con lo sguardo rivolto verso il
basso.
Poco dopo me la sentì accarezzare. Alzai gli occhi e notai
che era lui. Mi
sorrideva appena, con le sue labbra sottili ormai secche, e mi guardava
dolcemente. E non perché gli facevo pena: per tenerezza.
Mi stava guardando. Mi
stava accarezzando. Per la prima volta.
«Quanto tempo è
passato.
Sei proprio come il tuo papà».
Sorrisi.
Le mie guance stavano riprendendo colore, e il mio
viso era riscaldato dalla sua mano.
Iniziammo
a parlare. Per tanto, tanto, tanto tempo.
Mi
parlò del suo passato, della sua vita, dei suoi
obiettivi, dei suoi sogni. Della sua famiglia, del suo lavoro, della
sua
salute. E lo stesso feci anche io. Gli parlai del college, delle mie
insicurezze, delle mie amicizie, del mio amore, della mia band.. dei
miei
pensieri.
E
lui non emetteva parola. Stringeva forte la sua mano alla
mia, e ascoltava. Sorrideva, e ascoltava.
E lo faceva attentamente, senza perdere nessuna parola che
io
pronunciavo.
Per
la prima volta mi sentivo ascoltata.
E non da una persona qualunque. Dal mio papà.
Che
finalmente avevo conosciuto.
Chiusi gli occhi. Mi addormentai.
Continuavo a stringere la mano del mio
papà. Ancora non riuscivo a capire se tutto fosse vero, o se
fosse solo un
sogno.
Era lì, davanti a me, che fissava il
muro bianco dinanzi a lui. I suoi occhi cominciarono a diventare
azzurro molto
chiaro, quasi pallido.
La sua pelle divenne leggermente
gialla, e la sua mano indebolì la stretta con la mia.
Spostò lo sguardo verso il bianco
soffitto, impolverato dai grigi acari, e la sua bocca si
spalancò lentamente.
Sollevai lo sguardo verso di lui.
Stavo iniziando a preoccuparmi, e un brivido mi percorse
spaventosamente la
schiena. Avevo paura.
«Papà,
papà!»
Continuavo a scuoterlo, sempre più
spaventata dal suo aspetto, che era diventato cadaverico. La tensione
invadeva
l’atmosfera, e l’elettrocardiografo emanava un
suono alternato, che non riuscivo
ad udire completamente, essendo in sovrappensiero.
Si accasciò sul letto, poggiando
delicatamente la testa sul cuscino. I miei occhi cominciarono a
inumidirsi.
«Papà..»
Lo chiamai a fil di voce, un’ultima
volta. Quella sarebbe stata l’ultima volta che
l’avrei visto.
Intrecciai la mia mano alla sua,
fortemente, per non mollare la presa. Sarebbe stata l’ultima
volta che avrei
stretto la sua mano.
Volevo che sapesse che io c’ero.
Volevo che la sua mano morisse
stringendo la mia.
Volevo che morisse insieme a me.
Girò la testa verso di me. I suoi
occhi erano semichiusi, e la sua fronte era imperlata da gocce di
sudore.
Il suo respiro sempre più debole.
«Ti voglio bene, piccola».
Poggiò la sua testa sul cuscino. Le
palpebre si chiusero, coprendo l’azzurro pallido dei suoi
occhi.
L’elettrocardiografo emanò un
lungo
suono, un pulito e lungo suono. Troppo
pulito.
Sentì il suo respiro un’ultima
volta.
Rimasi immune, su quella sedia. Mi
accasciai sul suo gracile corpo, immobile.
Iniziai a piangere.
Era l’ultima volta. Per davvero.
**
Le mie lacrime continuarono a scendere
senza freno, sulle mie pallide guance. Pallide come le sue. Non
c’era più nulla
da fare. Era andato via. Per
sempre.
Eppure mi stavo già abituando alla sua
presenza. Lo avevo appena conosciuto,e già sapevo tutto di
lui. E lui tutto di me.
Mi ascoltava come nessun altro, mi
guardava come nessun altro. Come un padre guarda una figlia ed
è fiero di lei.
E il passato l’ho dimenticato.
L’ho
perdonato per l’abbandono, per la sua assenza, per questi
venti anni mancati
insieme a me, per tutto. L’ho perdonato
e l’ho amato, nel passato e nel presente.
Tutto questo in una notte. Una notte
che mi ha cambiato la vita, in poche ore.
«Ti voglio bene, papà».
Gli sussurrai piano, vicino
all’orecchio, nonostante sapessi che non mi poteva sentire.
Ma glielo
sussurrai. Sapevo che da qualche parte mi sentiva, anche se non era
lì, con me.
Mi alzai delicatamente dal suo corpo.
Gli sfiorai la guancia con un debole bacio, e abbandonai la sua mano.
Uscì fuori dalla stanza, coprendomi
gli occhi con il dorso di una mano, per asciugarli dalle lacrime,
tenendo lo
sguardo verso il basso. Sentì dei passi che avanzavano verso
di me,
silenziosamente. Ma li riuscivo a sentire.
«Allora?»
Mi domandò una voce femminile,
spezzata da singhiozzi soffocanti. Era mia madre.
Sentivo la presenza di altre persone,
che tacevano e, a volte, piangevano, respirando affannosamente. Sentivo
i loro
respiri, anche se erano muti. Sapevo
che
c’erano. E attendevano una mia risposta.
Non risposi. Scoppiai a piangere.
Piansi come non avevo mai fatto.
Piansi lacrime amare, che scendevano sempre più
violentemente e velocemente,
che mi irritavano le guance, colorandomele di un rosso troppo
scarlatto. Che
non intendevano smettere.
Mi sentì abbracciare. Un abbraccio
forte.
Mi sentì accarezzare i capelli, la
nuca.
Mi sentì un dito che asciugava le
lacrime che scendevano dai miei occhi sofferenti.
Mi sentì protetta.
E quella protezione la conoscevo bene.
Era la sua.
«Amore..»
Mi sussurrò all’orecchio,
spostando le
ciocche dei miei capelli dietro le orecchie.
Sprofondai nel suo petto, bagnandolo delle mie lacrime. E
lui continuava
a stringermi, ad accarezzarmi.
«Scusami, Isaac. Per tutto.»
Gli risposi sussurrando, a bassa voce.
La voce era andata via. Non ne era rimasta nemmeno un po’.
Era stata
risucchiata dal dolore e dalla frustrazione, che in quel momento erano
sovrane.
Era una pugnalata al cuore.
Mi diede un lieve bacio sulle labbra.
Mi tranquillizzai, e mi feci coccolare dalle sue braccia, che mi
cullavano come
una mamma culla il suo bambino per farlo smettere di piangere. E lui ci
riusciva perfettamente. Non piangevo più, e cominciai a
riprendere fiato. Il
respiro stava ritornando.
Abbracciai mia madre. La donna più
importante della mia vita. Lei che aveva sofferto più di
tutte. Lei che era
sempre stata la più forte, la più coraggiosa. Lei
che era una gigante. Ora era
piccola, richiusa in se stessa, e non aveva forze. Era un cucciolo
impaurito
dal presente, e dal futuro. Si lasciò accarezzare dalle mie
gelide mani la tempia.
Le strinsi forte la mano, mentre con l’altra si asciugava le
lacrime con il
fazzoletto di pizzo, che le aveva regalato papà tanti anni
prima.
Era l’unico
ricordo che aveva di lui. E non lo mollava mai.
Ce l’aveva sempre con lei.
Le faceva compagnia nei momenti di
incomprensione e di speranza. Aveva assorbito tante di quelle lacrime,
eppure
non si era mai sgualcito. Era sempre più bello di prima.
La mamma lo aveva sempre amato,
papà. Nonostante fossero passati
tutti questi anni.
E questo lei non se lo meritava. Tutto
questo dolore, lei, non se lo meritava.
Ci alzammo dalla panchina grigia del
corridoio. Mi diressi verso il cortile dell’ospedale.
Mi sedetti sul verde prato
primaverile, vicino a una quercia. Incrociai le gambe, avvicinandomele
al
petto, immergendoci il viso. Respirai a pieni polmoni l’aria
pulita che
soffiava. Il sole era oscurato dalle nuvole.
Cominciarono a cadere gocce di
pioggia, fitte.
Poi sempre più forti.
Un temporale.
Mi lasciai bagnare, abbandonandomi
alla mia solitudine.
Forse anche il cielo stava
piangendo?
**
Lo stavamo portando in spalla. Io,
Isaac, Joe, Ben e Dave.
Lo stavamo portando con lo sguardo
verso il basso.
Dietro di noi una processione. C’erano
tutte le persone che gli volevano bene.
Mia madre, sua moglie, i suoi figli, i
miei zii, i miei nonni. Tutti.
Pregavano, intrecciando tra le loro
dita il Rosario. Pregavano, senza emettere parola.
Le donne proteggevano la loro tempia
con il morbido foulard di pizzo nero, portandosi una mano con il fazzoletto agli occhi
gonfi, che non
smettevano di inumidirsi.
Gli uomini erano immuni. Erano velati
di tristezza. Opprimevano le lacrime, per non farle uscire. Anche se
avrebbero
voluto farlo. Ma volevano essere forti.
Arrivammo in chiesa. Entrammo silenziosamente,
facendo il segno della croce. Gli altri si sistemarono fra le panchine
di legno,
io e i ragazzi continuammo a camminare verso l’altare.
Poggiammo la bara con cautela, sul
pavimento marmoreo. Ci chinammo. Isaac si allontanò verso la
panchina,
accompagnati dagli altri tre. Io rimasi lì, dinanzi a essa.
La
accarezzai dolcemente, portandomi
successivamente la mano alle labbra. Rimasi lì, in piedi, ad
osservarla. Poco
dopo mi sistemai gli occhiali da sole e mi sedetti, vicino a Isaac.
Iniziò la celebrazione.
Non stavo ascoltando una parola di
quelle che stava pronunciando il prete. Ero troppo immersa nei miei
pensieri.
Pensai a come tutto fosse accaduto in
fretta. Forse troppo in fretta.
Ripensai a questi venti anni. A tutta
la mia vita.
A come è stata, con o senza di lui.
Alla mia infanzia, alle feste di Natale, al college, alla band, al
liceo. A
come fossi spensierata, a
come ero
bambina, come ero speranzosa e aspettavo che lui tornasse dal suo
viaggio,
anche se non era partito. A come gli altri bambini avevano una famiglia
unita,
e prendevano per mano sia la mamma che il papà, mentre io
solo la mamma. E mi
sentivo diversa.
Diversa perché loro ce li avevano
entrambi, i genitori. Io in realtà solo una.
E quando mi chiedevano:
«Dov’è il tuo
papà?» io rispondevo pimpante
«E’ in giro per il mondo», e vedevo
quanto
rimanevano affascinati da quella risposta.
Forse loro non sapevano che era stato
in viaggio per tanto tempo. Troppo
tempo.
Poi, averlo visto per la prima e
l’ultima volta nella stanza di ospedale, assistendo alla sua
stessa morte, è
stato troppo veloce. Anche se
avevo passato la notte più bella della mia vita.
Aveva sessant’anni.
Sessant’anni di
amarezza, solo cinque o sei di beatitudine.
Perché la sua vita era stata aggredita
dalla leucemia. Una di quelle malattie che rimangono nel tempo, che non
se ne
vanno facilmente. E ti sconvolgono l’esistenza.
Forse per questo era scappato da me, e
non solo. Voleva proteggersi. E voleva proteggermi.
«Chi vuole fare un discorso per il
nostro caro amico, si accomodi pure».
Disse il prete, con voce pacata e
tranquilla.
Sollevai lo sguardo. Isaac mi stava
incoraggiando a parlare, in suo onore.
Mi alzai dalla panchina in legno,
facendo attenzione a non fare rumore;
mi
diressi verso l’altare. Salì i gradini, e giunsi
al leggio.
Mi avvicinai al microfono, levandomi
gli occhiali da sole. Mi asciugai gli occhi con il dorso della mano, e
la
poggiai sul leggio.
Iniziai a parlare di papà.
Tutti ascoltavano interessati. I
ragazzi mi guardavano commossi.
Isaac mi sorrideva, fornendomi
coraggio.
Raccontai tutto, dei miei pensieri. E
non mi fermai.
«Grazie, papà».
Conclusi il discorso.
Mi rimisi gli occhiali da sole,
scendendo i gradini, per allontanarmi dall’altare.
Mi posizionai davanti alla bara,
un’ultima volta.
Ne accarezzai il legno giovane con le
dita. Presi una rosa dal vaso più vicino e la poggiai su di
essa. Avvicinai le
mie dita alle labbra, per poi portarle su di essa.
Mi allontanai. Mi sedetti vicino a
Isaac, che mi abbracciò.
I ragazzi mi sorrisero.
Il prete ritornò a parlare, celebrando
la comunione. Suonò la campana.
Riprendemmo tutti e cinque la bara,
caricandocela sulle spalle. Dietro di noi, la processione.
Ci dirigemmo verso il cimitero, dove
venne seppellita.
Non piansi più.
Sapevo che lui
c’era. Dentro
di me.
E c’era chi mi voleva bene. Non l’avrei dimenticato.
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