A Tenku no Escaflowne
Fanfiction
Scritta da Eternal
Fantasy
NdA: Questa storia è
nata sulle note e le parole delle canzoni dell’album “Dragonslayer” dei Dream
Evil, 2002. Consiglio di leggere il
prologo e il primo capitolo ascoltando “The Prophecy”.
Prologo
Hitomi Kanzaki mescolò il suo mazzo di tarocchi. Ogni volta
che le sue dita si posavano sulla liscia, lucida e vagamente scivolosa
superficie di quelle carte che custodivano così tanti ricordi, e ancor più
segreti, la sua mente tornava a volare verso Gaea, agli eventi che l’avevano
coinvolta in quel mondo al di là del cielo; avventure magnifiche e terribili,
che le avevano posto di fronte agli occhi meraviglie e orrori oltre la realtà,
tanto da farle pensare al suo viaggio come ad un magico sogno. Ma quando nella
sua mente ricomparivano i volti di coloro che aveva imparato a conoscere ed
amare, sentiva che il calore generato dal suo cuore non poteva essere
ingannevole: il suo caro Van e tutti gli altri non potevano essere mero frutto
della sua fantasia.
Sorridendo, permise alle immagini dei suoi amici lontani di
scorrere di fronte agli occhi della sua mente; per ognuno di loro aveva un
ricordo e un pensiero, felice e malinconico allo stesso tempo. Rivide con gioia
e nostalgia tutti quei volti tanto familiari, nitidi come quando, sei mesi
prima, li aveva salutati tutti al momento dell’addio: Van, che la guardava con
quei suoi grandi occhi scuri, il sorriso amichevole di Merle, Allen che la
salutava mantenendo una stretta mista di sollievo e incredulità sulle spalle
della sorella inaspettatamente ritrovata, Serena…
Hitomi avvertì improvvisamente un brivido, che la scosse con
violenza, facendole cadere una carta di mano: nel suo ricordo i limpidi occhi
azzurri di Serena Shezar s’erano accesi per un istante d’un infuocato bagliore
scarlatto, e il suo tranquillo sorriso celava una consapevolezza misteriosa.
Hitomi cercò di regolarizzare il respiro; era solo la sua immaginazione,
nient’altro; in realtà, durante la separazione dai suoi amici, nulla aveva
lasciato trapelare che nella ritrovata Lady Shezar si celassero ancora tracce
di…
Deglutì il nodo che le si era bloccato in gola e si chinò a
raccogliere la carta caduta. L’incubo era finito, non aveva intenzione di
pronunciare di nuovo, neppure nella sua mente, il nome del più temibile
guerriero di Zaibach, il demone di fuoco che alla testa dei suoi Dragonslayers
aveva contribuito a rendere Gaea un inferno di guerra.
Le sue dita tremanti si posarono sulla carta riversa a terra
e la raccolsero: dall’altro lato di quel piccolo specchio profetico le sorrise
il tetro ghigno della Morte.
Dragonslayer
Capitolo primo
La fresca primavera simboleggiava speranza e rinascita, dopo
un anno segnato indelebilmente dagli orrori della guerra che aveva sconvolto
Gaea. La novella stagione era però ancora agli albori, non ancora completamente
giunta a far sbocciare le campagne che circondavano la capitale d’Asturia,
Palas.
Le prime foglie degli alberi che circondavano la casa avita
degli Shezar, stillanti di rugiada nelle prime ore del mattino, scintillavano
sotto la pallida luce azzurrina della Luna dell’Illusione e della sua perlacea
sorella minore; quell’atmosfera sospesa tra sogno e veglia era la più indicata
a celare, col contribuivano del fitto sottobosco, le due tenebrose figure
all’apparenza umane: emerse dalla notte, sembravano portarne con sé l’oscurità
più profonda, sfidando i timidi raggi del sole nascente. Immobili al limitare
della selva, osservavano muti l’edificio davanti a loro.
La costruzione, grande ed elegante, parlava di antica
nobiltà e di una ricchezza forse recentemente un po’ decaduta, ma in grado di
sostentare in modo decoroso gli abitanti della casa, che in questo momento,
buia e silenziosa, appariva disabitata.
Questa supposizione venne però smentita dal lieve cigolio di
una porta aperta con cautela. Una figura snella ed agile scivolò furtivamente
fuori dall’abitazione, evitando di esporsi alla rivelatrice luminescenza
celeste, allontanandosi verso l’estremità più ombrosa del cortile, in cui
aleggiava ancora una tenue nebbiolina.
La fioca luce che precede l’alba si riflesse in un fulmineo
bagliore sulla lama snudata, e la persona che la impugnava, piccola e sottile
come solo un ragazzo appena adolescente poteva essere, cominciò l’allenamento
mattutino alla spada; a lungo si esibì in metodici esercizi di affondi, parate
e fulminei fendenti, rivelando una grazia e un’abilità davvero fuori dal
comune.
Quando il sole fu completamente oltre l’orizzonte i lievi
rumori provenienti dalla casa, che segnalavano il destarsi dell’altro
occupante, costrinsero il giovane spadaccino a interrompere la propria
esercitazione clandestina. Un veloce guizzo verso la porta fu l’unica cosa che
uno spettatore umano avrebbe potuto scorgere… insieme al meraviglioso
scintillare del sole su corti, luminosi capelli biondi.
Protette dalle tenebre, le due misteriose figure si
scambiarono uno sguardo compiaciuto.
L’improvviso alzarsi di voci concitate dall’interno della
casa riportò la loro attenzione alla soglia, che venne spalancata dall’uscita
di un uomo: lunghi capelli color grano, una divisa azzurra e una spada al
fianco. Il volto attraente del Cavaliere Celeste Allen Shezar era tirato da una
smorfia irata, ma la vista troppo acuta dei due osservatori riuscì a scorgere
chiaramente sotto il nervosismo un’ombra di lacerante paura.
La sua voce s’alzò, nascondendo dietro la rabbia la corrente
di emozioni negative che lo tormentavano: “Questa è la mia ultima parola,
Serena. Il tuo comportamento è assolutamente disdicevole per una nobile damigella
di Asturia; uscire da sola, prima dell’alba, per maneggiare le armi! Vestire da
uomo! Parlare ed esprimere opinioni con eccessiva libertà! Salire senza
permesso sul *mio* Guymelef! Ho tollerato per sei mesi credendo che si
trattasse solo di una fase d’irrequietezza, ma in nome dell’affetto che provo
per te credo sia giunto il momento di correggere le tue pessime abitudini e il
tuo atteggiamento…”
“Consegnandomi alla tua preziosa Regina Millerna e alle sue
petulanti damine? Imprigionandomi in una gabbia dorata e costringendomi a una
vita di reclusione che mi è odiosa? Trasformandomi in una bambola graziosa e
vuota, priva di anima e personalità? È questo che tu consideri amore, fratello?
Cancellare ciò che sono?”
Allen si bloccò come paralizzato, pugnalato alle spalle
dalle parole furiose e affilate della sorella, che lo fissava a testa alta e
con occhi scintillanti di fiera collera. Senza dirlo esplicitamente, lei lo
accusava di comportarsi come gli esecrati Alchimisti di Zaibach: loro avevano
manipolato il suo Destino, trasformando il suo corpo e la sua mente spinti
dall’ambizione di creare il soldato perfetto; lui stava facendo la stessa cosa,
per trasformarla nell’immagine della sorella perfetta che per anni aveva
cullato nella sua mente, ignaro della realtà della persona in carne e ossa che
ora aveva accanto.
“Non… tu non sei…” Allen inspirò profondamente e si voltò a
guardare la giovane donna che gli stava di fronte; la sua maschera
d’indignazione infranta, schiacciata, e tutto ciò che poté proferire fu la sua
unica certezza: “Tu sei la mia amata sorella: Serena Shezar.”
La rabbia di Serena sembrò placarsi, le fiamme cremisi che
bruciavano dietro i suoi occhi furono sostituite da un’azzurra, malinconica
consapevolezza:
“Per quanto tu ti sforzi, mio caro fratello, troppi fantasmi
inquieti ancora vagano su questa terra, e nella mia mente; la guerra è finita,
ma loro non hanno potuto trovare la pace.”
A quel tono così colmo di tristezza, Allen cercò di
ammorbidire la propria voce in cui si univano tremulo sollievo e disperata
speranza:
“Supereremo ogni cosa, Serena. Dimenticheremo tutto, sarà
come se nulla di tutto ciò fosse mai accaduto. Ora che ti ho ritrovato, non ti
lascerò mai più andare.” E d’impulso l’abbracciò.
Negli occhi di Serena, fissi oltre la spalla robusta di
Allen, passò un lampo d’insofferenza che sembrava dire –Cos’è, una minaccia?- ma quando li riportò sul viso del fratello
quell’ombra era già svanita.
“Ora devo proprio andare. Mi aspettano a Palazzo.” E si
diresse verso le stalle a prelevare la sua cavalcatura.
Serena si morse la punta delle dita, come a voler trattenere
le parole che però le uscirono ugualmente dalla bocca: “Allen, limitati a fare
salamelecchi a Dryden e Millerna; guai a te se prendi accordi per rinchiudermi
a corte! Tutti quei pizzi e quelle gonne mi danno l’orticaria!”
Allen le lanciò un’occhiataccia molto contrariata, ma si
limitò ad un teso “Ne riparleremo al mio ritorno” e partì a spron battuto.
Dopo che la figura del cavaliere fu scomparsa alla vista,
Serena si diresse nuovamente alla porta… ma prima ancora di arrivare alla
veranda, si voltò di scatto verso il bosco oltre il cortile e ordinò con voce
autoritaria: “Chi è là?! Mostratevi!”
Dai recessi dell’oscurità avanzarono due figure avvolte da
neri mantelli, e non appena misero piede sul terreno aperto Serena mosse
inconsciamente le mani verso la cintura, ad impugnare una spada che non c’era;
il solo modo di muoversi di quei due sconosciuti urlava pericolo al suo istinto
da guerriero veterano, la cadenza elastica e sicura del loro passo rivelava
un’attitudine al combattimento chiaramente riconoscibile agli occhi di un loro
pari… o di una fanciulla che, nascosta per dieci anni nel corpo e nell’anima
del soldato perfetto, aveva guidato eserciti in battaglia fin dall’infanzia.
Indurendo lo sguardo e ponendosi istintivamente in posizione
di guardia, ripeté: “Mostratevi e rivelate i vostri nomi, stranieri!”
Essi portarono ai cappucci due mani di insolito pallore,
dalle dita lunghe ed agili, ma forti e temprate dall’uso delle armi. La stoffa
che ricopriva le loro teste rivelò folte chiome di capelli corvini, benché uno
li portasse corti e l’altro più lunghi, fino a coprire la schiena. I due volti
avevano lineamenti finemente scolpiti, ma la grazia non nascondeva la loro durezza,
il taglio sottile e freddo delle bocche e gli occhi scuri, rapaci. Anche nella
corporatura erano piuttosto simili, non molto alti (poco più di lei, dato che
era alta per una ragazza), snelli, dai muscoli sottili ma ben definiti; quello
dai capelli corti vestiva completamente di nero con una casacca a maniche
lunghe e a collo alto, pantaloni di cuoio e stivali sopra il ginocchio. L’altro
si differenziava nell’abbigliamento solo per la presenza di un cappotto di
pelle lungo fino alle caviglie, lasciato aperto a rivelare una camicia di seta
color ruggine sbottonata sul petto; la pelle chiara esaltava in contrasto un
ciondolo color rosso scuro –rosso sangue-, una gemma a goccia assicurata al suo
collo da tre giri di un laccio di cuoio.
Fu proprio quest’ultimo a rispondere con voce calma,
rassicurante e piacevolmente morbida:
“Buondì madamigella. Il mio nome è Harold Midnight Hawk, e
il mio compagno si chiama Hiro Kurosuzaku no Shinigami. Chiedo scusa per essere
entrati senza invito nelle terre che vi appartengono, ma abbiamo compiuto un
lungo viaggio.”
“Questo è certo; non credo d’aver mai visto uomini con un
aspetto simile al vostro. Se non sono indiscreta, da quanto tempo siete rimasti
nascosti vicino a casa nostra?”
I due si scambiarono una fulminea occhiata, poi il giovane
dai capelli lunghi le rivolse un sorriso sibillino e, ignorando la domanda, le
chiese dolcemente
“Siete felice, Serena?”
Serena, presa alla sprovvista, si ritrovò a scendere i
gradini della veranda e fissare direttamente lo sguardo in quegli occhi oscuri…
che s’illuminarono di stupefacenti scintille dorate, quasi una corona attorno
alla pupilla, una raggiera di affilate schegge metalliche roventi e gelide al
tempo stesso.
“Cosa… intendete dire?” sussurrò quasi ipnotizzata,
catturata da quelle iridi da falco che sembravano conoscere sogni ed incubi
della sua anima enigmatica.
“Siete una guerriera, madamigella Serena.” Più
un’affermazione che una domanda, posta dalla voce tagliente e diretta
dell’altro straniero; essa squarciò il velo onirico che sembrava aver avvolto
la ragazza per un istante, riportando la sua attenzione sul giovane nerovestito
che si era fatto udire per la prima volta. “Era di questo che vostro fratello
si lamentava; volevate sapere se avevamo sentito? Si, e non sono d’accordo con
lui. Una donna ha il diritto di sapersi difendere da sé.”
Serena spostò lo sguardo verso il punto in cui il fratello
era sparito e non riuscì a celare una smorfia d’amarezza: “Allen mi proibisce
di allenarmi con lui. Dice che è ‘disdicevole’ per una dama. Sono costretta ad
esercitarmi da sola, di nascosto.”
Il giovane dai capelli corti scostò la falda del suo
mantello, rivelando una spada di squisita fattura: “Allora, mi farebbe l’onore
di disputare un breve scontro con me? Un semplice allenamento, nulla di più.”
Gli occhi di Serena brillarono quando vide la splendida
lama, che snudata sembrava rifulgere di lampi d’argento su un acciaio scuro
come lei non aveva mai visto. “Dove avete trovato un’arma simile?”
“Essa fu creata e mi venne donata dalla persona che a me è
più cara della vita stessa.”
Un fugace sguardo al suo compagno le fece intuire che tale
persona si trovava esattamente al suo fianco.
Esaltata dalla prospettiva di un autentico duello per la
prima volta (o forse solo dopo molto tempo?) la fanciulla corse in casa a
recuperare una delle spade del fratello dal nascondiglio non-più-segreto dove
lui le custodiva. Solo quando ebbe la lama tra le mani si rese conto che quegli
stranieri conoscevano il suo nome. Certo, potevano averlo sentito da Allen… ma
qualcosa dentro di lei le diceva che lo conoscevano fin da prima; e le strane
sensazioni che quei due agitavano nei recessi più tenebrosi della sua anima non
la lasciavano tranquilla. Strinse la presa sull’elsa della spada: lei non era
una comune fanciulla indifesa, tutt’altro; se quei due avevano cattive
intenzioni, avrebbero avuto modo di pentirsene amaramente.
I duellanti si misero in posizione e lo scontro cominciò.
Le lame guizzavano come serpenti di luce, fulminei,
sibilando nell’aria armonie mortali. Gioco di polsi e di gambe, occhi e
muscoli, nervi tesi e respiri affrettati; il cuore di Serena cantava un inno
alla battaglia, feroce e violento, sanguinario e selvaggio, il sangue che
bruciava di un fuoco mai dimenticato.
“Siete straordinariamente forte per essere una fanciulla
fragile e delicata.” Le giunse la voce del suo avversario mentre incrociavano
le spade vicino all’elsa.
“Sarò pure una fanciulla, ma chi vi dice che io sia
*fragile*?” replicò con un sorriso pericoloso sulle labbra rosse, ripartendo
all’attacco.
Il modo di combattere di Serena era basato su una
straordinaria velocità e precisione, un’energia la cui foga era imbrigliata da
un controllo totale, e una fantasia straordinaria che rendeva i suoi colpi
imprevedibili: sempre, perfettamente, potenzialmente letale. Un sorriso
compiaciuto sfuggì alle labbra pallide e severe di Shinigami:
“Ottima tecnica, Lady Shezar!”
“Non chiamarmi così!” ruggì lei, ridendo di pura
esaltazione.
“Perché? Non è forse questo il vostro nome?” stuzzicò
insinuante il suo avversario.
Serena rimase un attimo senza risposta, poi, nel momento in
cui intravedeva un’apertura nella guardia dell’avversario e si lanciava in
affondo, gridò:
“No! Non ora! In
questo momento io sono…”
Le spade s’incrociarono sprizzando scintille e Serena, colta
da un improvviso sconcertante pensiero, lasciò la presa sulla spada, che volò
nell’aria conficcandosi a terra molti metri più in là. Lei cadde seduta a
terra, lo sguardo perso nel vuoto… o dentro di sé.
Senza apparentemente far caso all’errore che aveva portato
alla fine dello scontro, Harold si avvicinò ai contendenti battendo
educatamente le mani: “Straordinario. Siete una spadaccina di raro talento,
Serena.”
Hiro posò su di lei uno sguardo intenso quanto quello del
proprio compagno: “Concordo. La vostra tecnica di scherma però non somiglia
affatto a quella in uso ad Asturia. Inoltre, è assolutamente perfetta…
*perfettamente* simile a quella padroneggiata dai migliori combattenti
dell’impero di Zaibach.”
A quell’osservazione, Serena sbiancò: “Credo che vi stiate
sbagliando…” ma un solo sguardo a quegli occhi oscuri screziati d’argento le
fece capire che no, loro *sapevano*.
Shinigami scrutò il suo volto pallido e l’anima divisa che
vi si celava dietro, e ad essa si rivolse: “Esisteva un solo spadaccino che
possedesse un modo di combattere tanto peculiare e inconfondibile quanto il
vostro… non desiderate conoscerne il nome?”
Serena rialzò lo sguardo; i suoi occhi azzurri rivelavano una
forzata calma e sicurezza di sé mentre fissavano senza timore i due oscuri
stranieri di fronte a lei:
“Conosco il suo nome. State parlando di Dilandau Albatou.”
NdA: Questo è l’inizio
di una storia che desideravo scrivere da molto tempo; amo troppo Dilandau e i
suoi Dragonslayers per accettare la loro scomparsa come la fine di Tenku no
Escaflowne ce la presenta. Personaggi del genere meritano molto di più che
un’etichetta di comparse troppo presto cancellate dalla storia. Intendo farli
tornare e dare loro l’occasione di dimostrare quel che valgono.
Ricomincia la Caccia
al Drago!