Non è
passato molto tempo dal postaggio dell’ultimo capitolo
di ‘Silenzio’ e questa è l’ultima ff intera che ho a
disposizione, poi davvero non so quanto tempo passerà prima che scriva qualcosa
di nuovo.
Il titolo
‘Tomosu uta ni kizu nado iyasenu’ è un verso di Dim Scene, canzone che amo
visceralmente. Il suo significato è pressoché questo: “ Ma la canzone luminosa
non può guarire le mie ferite “. Credo che ci vada a pennello in questa ff.
Saranno tre
capitoli in tutto, come al solito cercherò di postare un capitolo a settimana
^-^
Spero che
sarà di vostro gradimento.
Titolo: Tomosu uta ni kizu
nado iyasenu
Pairing: Uruha/Ruki -
Aoi/Uruha
Questa storia
tratta tempi omosessuali, anche se lievemente accennati, non racconto fatti
realmente accaduti è tutto frutto della mia immaginazione, i personaggi non mi
appartengono e infine, non scrivo a scopo di lucro.
Buona
lettura.
Tomosu uta ni kizu nado
iyasenu.
01
Seduto sul divano di pelle
nera, fissando un punto fisso dello schermo della tv a quaranta pollici rigorosamente
spenta, una bottiglia di birra rigorosamente a metà; senza badare alle altre
sette che sono riverse a terra abbandonate dopo essere state svuotate del loro
liquido.
Cerco un motivo, una scusa
plausibile per non correre a casa sua, per non prenderlo a pugni come invece
ogni cellula che compone il mio corpo, mi grida di fare.
Le sento indistintamente,
una ad una, loro che cercano di convincermi, vogliono che io commetta questo
brutto gesto nei suoi confronti e non so fino a che punto sarò in grado di
trattenermi.
Perché in realtà voglio
farlo, voglio far sanguinare quelle superbe labbra rosee come boccioli di rosa;
come lui sta facendo sanguinare il mio cuore da tanto tempo.
Si prende gioco di me,
riesce a farmi fare cose che non farei mai per nessun altro al mondo, questo
perché sono debole e lui lo sa.
Mi incazzo, perché IO non
sono così, sono un ragazzo forte, deciso e testardo; solo di fronte al suo
sguardo divengo una lumachina dal guscio debole, una di quelle che sicuramente
sarà mangiata o schiacciata.
Lui riesce a fare tutto
questo, ogni giorno mi mangia, mi schiaccia e poi mi getta via lontano; per
iniziare il giorno dopo a fare tutto d’accapo.
Dovrei essere io a dire
basta.
Dovrei essere io quello che
ora, dovrebbe prendersi la sua rivincita.
Dovrei essere io adesso,
quello felice e non lui.
Invece sono qui, a bermi il
dolore che affligge il mio petto, fino a ubriacarmi e non ricordarmi neppure il
mio nome; perché se penso al mio nome, lo sento sussurrato dalle sue labbra. Da
quelle corde vocali che incantano il pubblico, che incantano me.
Fa male, dannatamente male,
mi strazia il solo pensiero che domani mattina dovrò vederlo, dovrò parlarci,
dovrò sorridergli, dovrò dirgli di fumare di meno, dovrò.
Ed è proprio qui che iniziano
i pensieri malsani, quelli che mi fanno tramare alle sue spalle, quelli che mi
spingono ad escogitare un piano per fargli male. Per vedere in quegli occhi che
amo più di ogni altra cosa al mondo, sofferenza.
Perché avrei la mia
rivincita, anche se quella sofferenza non sarebbe comunque paragonabile alla
mia.
Perché io soffro da così
tanto tempo, che ormai non so più cosa voglia dire essere sereno. Alzarsi la
mattina, senza avere un peso sul petto, come se poggiato su di esso ci fosse un
macigno.
Il telefono che inizia a
squillare vorrebbe distrarmi dai miei pensieri, dai miei dolori, ma sono così
bravo e diligente che non gli permetterò di farlo; abituato a vivere nel
dolore, mi crogiolo in esso senza forse volerne uscire veramente. Perché sono
quattro anni che vado avanti in questo modo, quel dolore fisso che fa sì che io
capisca che sono ancora vivo.
Parte la segreteria
telefonica, dove la mia stessa voce invita a lasciare un messaggio, dopo il
segnale acustico posso udire un’altra voce, quella che amo, quella che odio. Mi
chiede se ci sono, di rispondergli che è una cosa importante, resto immobile,
non un fiato, anche i polmoni hanno smesso di adempiere al loro dovere. Perché
non posso, non posso alzarmi da qui, non posso raggiungere il telefono e assolutamente,
non posso parlargli.
Per oggi ho dato fin troppo,
le scorte di pazienza e di forza vanno affievolendosi; mi sento svuotato da
tutta la vitalità che una volta faceva parte di me. Mi ha tolto tutto, anche la
voglia di vivere, di suonare; non trovo più piacere nei live, non trovo più
stimoli per comporre.
Mi viene da ridere a pensare
che in passato era proprio lui la mia musa, mi bastava pensare ai suoi occhi
dolci e duri allo stesso tempo per scrivere miriadi di melodie, come Cassis. Ogni volta mi diceva che ero un genio, un fottuto
genio, e io volevo tanto rispondergli che era grazie a lui se ci riuscivo.
La chiamata viene agganciata
e posso riprendere a respirare, portandomi di nuovo la bottiglia alle labbra e
scolandola del tutto, fino a che nemmeno una goccia resti al suo interno. La
guardo, la fisso, ci rivedo dentro a quel vetro vedere, pezzi della nostra vita
passata; quando era amicizia vera la nostra e non ciò che è divenuta con il
tempo.
Sapevo di non dover cedere
alla mia debolezza, perché sapevo nel profondo del mio cuore che non mi amava.
Era afflitto quel giorno e voleva sfogarsi, Takanori non si sfoga mai come
qualsiasi altra persona farebbe, no, lui deve distinguersi anche in questo.
Sempre sopra le righe, anticonformista e controcorrente.
Tutti vanno a destra? Lui va
a sinistra.
Tutti salgono? Lui scende.
Lo amavo per questo, anzi,
lo amo per questo. Adoro il suo carattere forte e deciso, amo il suo essere
dolce con chi vuole, ma rude e crudele con chi se lo merita.
Mi chiedo quale sgarbo,
quale errore ho commesso io nei suoi confronti, per farmi tutto questo male.
Quella sera, quella
maledetta sera, non dovevo permettergli di fare sesso con me. Perché se per lui
di sesso si è trattato, per me era amore. Ho sperato, pregato con tutte le mie
forze che dopo quella notte insieme, lui si accorgesse del mio cuore
sanguinante.
Evito di dire, che così non
è stato.
Non contento ancora di
quanto la mia testa giri, mi alzo e lentamente, molto lentamente raggiungo la
cucina senza evitare che qualche sbandamento mi colpisca, costringendomi ad
appoggiarmi con una mano al muro, ma resisto. Qui apro l’anta del mobile ed
estraggo una bottiglia di Jack Daniel’s, quella che
tenevo per le occasioni importanti, questa è un’occasione importante.
La guardo come lei guarda
me, a piedi scalzi raggiungo di nuovo il divano dove mi lascio cadere. La
stappo, la alzo di fronte ai miei occhi brindando a lui e mando giù quanto più
alcool posso, fino a che le pareti del mio tratto gastrico non iniziano a
bruciare e allora mi fermo; devo riprendere fiato. Alcune lacrime scendono dai
miei occhi, quindi mi costringo a dire che è solo una reazione normale,
all’eccessiva quantità di whiskey che ho bevuto. È facile mentire a se stessi,
al proprio cuore, quando in corpo si ha tutto questo alcool. Quindi quella
realtà fittizia che ho creato diviene reale, sento i sensi quietarsi e i
ricordi farsi vaghi e confusi, mentre continuo a mandare giù l’amico ambrato,
quello che cura tutti i dolori, quello che riesce a farmi stare meglio.
Un colpo.
Un altro ancora.
Cerco di aprire gli occhi,
di metabolizzare dove mi trovo, ma ciò che ricavo è solo una fitta tremenda
alla testa.
Di nuovo un colpo, ma a
questo si aggiunge una voce.
Non riesco a capire di chi
si tratti, forse è uno di quei sogni confusi, quindi mi rilasso di nuovo
cercando di far passare l’atroce mal di testa. Ma se sento dolore, forse non è
un sogno come penso.
« Kouyou! »
Mi sento chiamare da
qualcuno, dunque cerco di aprire nuovamente gli occhi, questa volta con
successo, una luce accecante mi perfora le pupille, costringendomi a serrare le
palpebre e a portare una mano d’innanzi agli occhi per farmi ombra.
Sento la serratura scattare,
la porta aprirsi e qualcuno ringraziare qualcun altro, poi il tonfo della porta
che si richiude e dei passi. Essi sono veloci, ma si arrestano proprio quando
li sento vicini a me.
Ora sono più lucido di pochi
secondi fa, quindi ricordo tutto.
« Puzzi » la voce gelida del
mio secondo chitarrista.
So che ha ragione, ho bevuto
talmente tanto che saprò di alcool misto a sudore, non mi sono cambiato ieri e
non ho fatto nemmeno la doccia; sono pietoso e mi vergogno a farmi vedere in
questo stato da lui.
Lui che è sempre perfetto,
impeccabile, splendente.
Tutto quello che è stato
donato a lui, lo hanno tolto a me.
Se avessi la sua grazia, la
sua eleganza, forse Takanori mi guarderebbe con occhi diversi.
« Vattene..Yuu.. » soffio,
senza togliere la mano da davanti agli occhi.
« Ma quanto Cristo hai
bevuto? » mi chiede, ma forse non sta parlando nemmeno con me.
Non rispondo, può
tranquillamente tirarle lui le somme; sento il rumore del vetro che cozza, sta
raccogliendo le bottiglie.
« Da coma etilico.. » lo
sento bofonchiare a mezza bocca.
In tutto questo riesco
comunque a vegetare, non ho la forza nemmeno per alzare un dito, figuriamoci
parlare o addirittura affrontare una ramanzina.
« Mi avete rotto il cazzo
tutti e due ora » è arrabbiato con me, con Taka, perché questa situazione va
avanti da troppo tempo per passare inosservata agli occhi di chi ci vive
quotidianamente.
« Sono sveglio… » gli faccio
notare, per arrestare quel borbottio che mi da ai nervi.
« Sveglio, che parolone.. »
dice sarcastico, ma a me non viene da ridere.
Torna in salone e apre le
finestre, lo deduco dal rumore e dal gelo che entra da essa; rabbrividisco ma
evito di chiedergli di richiuderla, sta facendo prendere aria a questa stanza
che puzza come un’osteria.
« Alzati Kou » non è una
richiesta.
Non mi muovo restando
immobile, lo sento sospirare esasperato.
« Mi sembri un cazzo di
ragazzino, alzati ho detto e vatti a fare una doccia » la sua voce è più gelida
dell’aria che entra dall’esterno.
Ma non posso fare a meno di
starmene fermo, non riesco ad accontentare la sua richiesta. Mi sento alzare di
peso, preso dal colletto della camicia, solo ora apro gli occhi vedendo la sua
figura. Il volto ombrato, gli occhi rabbiosi, le labbra strette in una morsa
disgustata dalla scena pietosa che si è trovato davanti. È qui che reagisco,
puntando i piedi e afferrandogli i polsi; lo stacco da me spingendolo indietro,
preso alla sprovvista cede di qualche passo. Punta il suo sguardo furibondo nel
mio, dovrei abbassare gli occhi perché sono in torto marcio mentre lui nella
ragione, ma non lo faccio.
Non sono abituato a cedere,
a chiedere aiuto e non inizierò ora.
Non sono ubriaco, ma sento
ancora l’alcool scorrermi nelle vene, sono potente solo grazie a quello.
Mi avvicino a lui, lo guardo
dritto negli occhi, tutta quella rabbia che vorticava nelle sue iridi, profonde
e nere come un pozzo senza fondo, ora è svanita.
« Perché sei qui..Yuu.. » il
suo nome lo sussurro sensuale e se fossi nel pieno delle mie facoltà mentali,
mi fermerei adesso, quando sono ancora in tempo.
Lui assottiglia gli occhi,
forse capendo, forse solo per la rabbia che davvero prova nei miei confronti.
Non gli ho mai parlato del
mio amore per il nostro piccolo vocalist, del dolore che provo ogni volta che
lui mi parla delle sue conquiste, delle volte che ho saputo dei tradimenti
subiti dal suo compagno.
« Perché sei mio amico, ecco
perché Kou » vuole tenere un tono sicuro, ma questo accade con scarso successo,
la sua voce trema e io mi sento vittorioso.
Allungo la mano in sua direzione,
prendendogli la sua ma lui la ritrae come se si fosse scottato.
« Me ne vado, ho sbagliato a
venire qui » tenta di fuggire, cercando di sorpassarmi per raggiungere la porta
di uscita; unica via di salvezza.
Ma prima che possa davvero
arrivarci lo fermo afferrandolo per il polso, sono più forte di lui quindi non
mi riesce difficile far cozzare la sua schiena contro il muro del corridoio.
Premo con il mio corpo contro il suo, spingo il polso contro il muro
all’altezza del suo volto, mentre con l’altra mano arresto un suo tentativo di
schiaffeggiarmi. Con questa manovra urtiamo il vaso di vetro con dentro i
fiori, esso cade a terra infrangendosi e permettendo all’acqua contenuta al suo
interno, di spargersi sul pavimento.
Alzo lo sguardo da esso a
lui, il suo collo dalla pelle diafana, il suo profumo che mi inebria i sensi,
lo bacio sentendo il suo ribrezzo, percependo benissimo che non vuole e il suo
tentativo di sfuggirmi me ne da la conferma.
« Smettila Kou… » la
supplica uscita dalle sue labbra, con la voce spezzata dal terrore.
Mi blocco, rinsavendo tutto
d’un tratto, come se qualcuno mi avesse schiaffeggiato ma con più dolore.
Mi stacco da lui tremante
per il gesto che ho commesso, per i pensieri terrificanti che ho fatto su di
lui, proprio lui che ha subito quella violenza un anno fa.
Lo guardo negli occhi,
anch’essi terrorizzati come la sua splendida voce. Lo lascio andare,
staccandomi da lui. Uno schiaffo si abbatte potente sulla mia guancia ed io
accuso il colpo, convinto che sia nel pieno diritto di darmelo.
« Scu…sa…
» sussurro, lo sguardo ancorato a terra, con il volto ancora voltato verso il
lato opposto a cui ho ricevuto il colpo.
« Proprio tu mi fai questo
Kou?! » grida per la rabbia e per il terrore appena scemato.
Come prima resto immobile,
in silenzio, con quel peso sul cuore che ora è aumentato almeno del doppio;
alla sofferenza per Takanori, ora si è aggiunta anche quella per Yuu.
« Mi chiedi perché sono
venuto?! Per te idiota! Per il ragazzo che mi ha aiutato a sconfiggere la paura,
per colui che mi è stato accanto nel periodo più buio della mia vita! Per colui
che mi accarezzava i capelli dicendomi di tranquillizzarmi, dopo essermi
svegliato da un terribile incubo riguardante il mio aggressore! Ecco perché
IDIOTA! » urla ed ha tutto il diritto di farlo.
Non esita a buttarmi in
faccia la verità, quella notte in cui ha subito quella violenza Yuu è cambiato
nel profondo, vedere il terrore prendere forma nei suoi occhi era straziante.
Gli sono stato accanto come non mai, riuscendo piano piano,
a farlo tornare quello di sempre, o quasi.
Sono un bastardo egoista,
non merito la sua amicizia.
« Vai Yuu.. vai
via..lasciami solo.. » sussurro.
« No » aggrotto le
sopracciglia non capendo, se fossi stato in lui me ne sarei andato.
Alzo, in un attimo di
estremo coraggio, i miei occhi su di lui e mi chiedo che sia tutta quella
dolcezza che vedo nei suoi.
Gli occhi iniziano a
bruciare, ma con tutte le mie forze caccio indietro le lacrime che vorrebbero
far bella mostra di se, rivelando in questo modo tutta la mia debolezza.
« Perché..? Voi che ti
aggredisca di nuovo? » voglio che se ne vada.
« Non lo farai Kou.. » i
toni duri di poco fa sono solo un vago ricordo.
Cerco di dare tutta la mia
attenzione al quadro appeso al muro alla mia destra, ritrae un paesaggio verde,
con una bicicletta poggiata ad un albero; se non ricordo male è stato un regalo
di mia sorella.
Con la coda dell’occhio
percepisco i suoi movimenti, a qualche passo per polverizzare la distanza tra
di noi.
« N-o.. » faccio un passo
indietro, sbalordito dal mo stesso tono di voce, sto cedendo, la maschera si
sta sgretolando di fronte ai suoi occhi e non voglio che accada.
« Kou..per favore.. » alza
un braccio, per toccare con un dito il mio volto e di nuovo indietreggio.
« Va-ttene..Yu-u.. » non posso chiudere gli occhi, altrimenti le
lacrime avrebbero la meglio scivolando giù, sulle mie gote.
« Ricordi Kou, per quante
volte ti chiedessi di andartene, tu sei rimasto sempre al mio fianco,
imponendomi la tua presenza » è vero, mille e più volte mi ha urlato di
andarmene, di lasciarlo solo ma mai una volta l’ho assecondato.
Ora so cosa deve aver
provato lui a farsi vedere in quello stato, spezzato dalla sofferenza.
Ma io non sono lui, è
proprio qui la nostra più grande differenza, tra me e lui c’è un abisso.
Bene per il momento è tutto, diciamo che in questo capitolo si
iniziano a capire delle cose, al prossimo,
ciu! <3