Ciao.
Vorrei
poter dire che la prima
volta che la vidi fu in una fresca serata di settembre, silenziosa,
rischiarata
dalla luce della luna, che i nostri occhi si fossero cercati nella
folla, ma sarebbe
una bugia. La prima volta che la vidi era un qualsiasi pomeriggio afoso
di luglio,
il caldo era quasi insopportabile e io stavo lavorando.
E,
soprattutto, lei non si era
nemmeno accorta di me.
Dopo
le superiori, i miei genitori
non avevano potuto permettersi di farmi frequentare
un’università, ma mi avevano
lasciata libera di scegliere un lavoro in un campo che amassi. Dopo
qualche tentativo
fallimentare e quasi un anno a spasso, ero riuscita ad entrare nello
staff che si
occupava di organizzare le serate estive della mia città,
una banalissima quanto
piccola provincia del centro, e quindi da metà maggio fino a
inizio ottobre facevo
su e giù da casa mia all’angusto e umido piano che
ospitava sala stampa, ufficio
fotografi, sala riunioni e la piccola area dedicata alla radio
universitaria. Ero
diventata l’”assistente”: mi ero
ritrovata a raccogliere informazioni per i giovani
giornalisti in erba che ronzavano in quel piccolo alveare, a portare le
borse di
chi mi elargiva il - modesto - salario, ad occuparmi
dell’accoglienza. Mi avevano
persino insegnato a tenere in mano una macchina fotografica
professionale, che da
sola poteva costare quanto l’auto che non possedevo, e ad
assistere adeguatamente
i fonici che lavoravano nell’arena - “il”
palco della città -, oppure dovevo presenziare
ai concerti e agli incontri con arte e letteratura che si svolgevano
nelle mille
piazze della cittadina.
Mi
piaceva stare lì: eravamo in
molti, soprattutto nei giorni delle serate, e si parlava, si scherzava
e si beveva
parecchio. Si faceva rigorosamente tardi il venerdì, il
sabato e la domenica - un
orario che variava dalle due alle sei di mattina - ed era massacrante,
una vita
che amavo e che mi stordiva quasi quanto il vino. In tre anni avevo
guadagnato molte
amicizie diverse - i ragazzi universitari, un paio di fotografi, alcune
ragazze
dell’accoglienza all’arena -, un paio di brevi e
insignificanti relazioni - una
con il bassista di una band e l’altra con un giornalista
esterno che ancora bazzicava
in quei lidi - e un senso di pace interiore che non avevo mai provato
alle superiori.
Mi sentivo padrona della mia vita, e così volevo continuare
a vivere.
La
quarta estate era cominciata
come al solito: calda, umida, piena di zanzare. Un pomeriggio di
luglio, come dicevo
prima, mi avevano spedito alla presentazione del nuovo album di un
cantante mediamente
famoso, di cui conoscevo poco o niente, e del quale ero poco
entusiasta. Avevo salutato
Danielle ed Erica, le altre due ragazze che dovevano occuparsi
dell’accoglienza,
e avevo iniziato a mettere i volantini sulle sedie. Nella piazzetta non
c’era un
filo d’aria, e io sapevo già che sarebbe stata una
lunga, lunghissima serata.
«Maria
Sole, sai mica dove si
va stasera?», mi sussurrò Danielle, avvicinandosi
a me mentre continuava sorridente
ad invitare il pubblico a prendere posto sulle opache sedie nere di
plastica.
«Sentivo
prima Cristiano, probabilmente
al Trenovezero… Deb faceva le solite storie, dobbiamo ancora
decidere».
Sospirai,
allontanandomi e appollaiandomi
su un muretto, dietro lo spazio dedicato ai fonici, osservandoli
trafficare tra
bottoni, fili e microfoni.
«Mari,
aiutami qua», disse Gianluca,
mettendomi in mano un microfono. «Facciamo la prova e poi
sistemalo sul bastone,
che fra poco arrivano».
Obbedii
e tornai al mio posto,
aspettando che arrivassero gli ospiti della serata. In quel momento ero
vagamente
annoiata, preda di quell’insoddisfazione che, se avessi
ceduto al mio istinto, mi
avrebbe fatto alzare e andare via. Volevo solo scappare, fuggire; dove,
non lo sapevo
neppure io.
Mia
nonna Pilar mi ha sempre detto,
quand’ero piccola, che erano questi i momenti in cui accadeva
inevitabilmente qualcosa,
un qualcosa che dovevamo esser pronti ad afferrare, a stringere e a non
lasciarci
sfuggire. Era una donna superstiziosa, mia nonna: non iniziava mai a
mangiare se
mancava il sale in tavola, rideva con la bocca chiusa perché
gli spiriti non le
entrassero dentro e prima di entrare in chiesa si toglieva sempre le
vecchie scarpe,
per sfiorare la pietra sotto cui riposavano vecchi santi ormai
dimenticati.
Non
sono mai stata una persona
scaramantica, ma forse mia nonna non aveva tutti i torti; quel giorno
faceva veramente
caldo, i capelli mi si erano attaccati al collo sudato, eppure, quando
lei fece
silenziosamente il suo ingresso, un brivido gelido mi costrinse a
voltarmi verso
di lei.
Ero
una ragazza di ventidue anni,
dell’amore non sapevo nulla e nulla volevo saperne. Eppure,
in quell’istante capii
che un muro opprimente si era appena dissolto dentro di me.
La
trovavo bellissima. Aveva corti
capelli ricci che le sfioravano dolcemente il collo, di un castano
più chiaro del
mio, occhi scuri ed un fisico dalle forme fini ed eleganti, niente affatto
prepotente.
Indossava una camicia leggera di lino, che si apriva e si appoggiava
delicatamente
al seno, infilandosi quindi in uno stretto paio di shorts marroni. Era
scalza, e
la cosa mi colpì particolarmente: il ricordo della mia infanzia,
quella vissuta
insieme a mia nonna Pilar, mi strinse lo stomaco, e avvertii il bisogno
di avvicinarmi
a quella donna, di toccarla. Come se sfiorandola potessi riappropriarmi
di un passato
fatto da sudore, menta masticata e fiori freschi in vaso, di crocefissi
alle pareti
e di disegni tracciati col gesso per terra.
Il
cantante a cui si accompagnava
era un uomo di mezza età, un bell’uomo, ma di
quella bellezza che colpisce per la
sua serenità, per la quieta essenza che traspariva da sotto
la sua pelle. Insieme,
ispiravano un tal senso di pace, di armonia, che era impossibile non
rimanerne incantati.
Danielle
mi si avvicinò di nuovo,
facendosi aria con un dépliant e guardandomi con uno sguardo
reso vacuo dall’afa.
Provò ad attaccare bottone, ma io risposi a monosillabi,
troppo agitata per capire
realmente ciò che mi stava dicendo. Vedevo solo lei, il suo
sorriso tranquillo,
le sue movenze così leggere che non avevo mai scorto in
nessun altro.
«Com’era
stare con il nonno?»,
avevo domandato a donna Pilar, tanti anni prima. Lei mi aveva sorriso e
si era accarezzata
un polso.
«Non
penso si possa spiegare,
niña. Era come aver trovato una parte di me stessa che non
sapevo neanche di possedere,
era avere la sensazione che per quanto i tempi si fossero fatti duri,
noi saremmo
andati avanti; nonostante tutto, nonostante tutti. Sapevamo che,
dovunque fossimo,
eravamo amati. Questo mi è rimasto dentro, lui è
ancora vivo dentro di me. E so
che io sono da qualche parte, in qualche mondo, dentro di lui. Non ci
siamo mai
lasciati».
Di
mio nonno avevo pochi ma caldi
ricordi. Il suo sorriso bianco nella faccia abbronzata,
l’odore di tabacco, le canottiere
di cotone sotto la camicia, anche quando il caldo si faceva
insopportabile. Di loro
due insieme conservavo più che altro un senso di profonda
commozione, che mi aveva
sempre fatto aspettare la persona giusta. Quella che, come il nonno,
avrei riconosciuto
perché qualcosa di suo era in me, e nella quale avrei
distinto qualcosa di mio.
«E
tu la troverai, niña, lo vedo
nel tuo futuro. Tu sei destinata ad essere felice, felice come lo sono
stata io».
Mia
nonna era convinta che le
“anime belle” fossero destinate ad incontrarsi, a
completarsi. E che, quando io
avessi trovato la mia, l’avrei riconosciuta subito.
Quello
che mi lasciava incantata,
di lei, era il modo in cui si rapportava con la musica. Di cantanti ne
avevo incontrati
tanti, ma era come si approcciava alle melodie che mi sconvolgeva.
Vedevo che
muoveva impercettibilmente le labbra anche quando era l’altro
a cantare, che quando
modulava la voce si avvicinava al bastone del microfono come se volesse
fondervisi
- come se volesse fare l’amore con quella musica che la
circondava e le entrava
dentro -, che si tratteneva a stento dal danzare lì, davanti
a quegli occhi, ormai
nemmeno più conscia della realtà attorno. Non
avevo mai visto nessuno così preso
da qualcosa, non al punto di esprimere la propria gioia in maniera
così tangibile,
e riuscivo a sentire quello strano stato di ebbrezza fluire anche
dentro me, coinvolgermi,
lasciarmi senza fiato. Trovavo le parole dei testi di una poesia
straordinaria,
ma sapevo perfettamente che, se anche avessero cantato in una lingua
sconosciuta,
avrei comunque avuto gli occhi lucidi e la gola bloccata alla fine
dell’esibizione.
«Ci
accompagni?», mi aveva chiesto
Gianluca, io avevo solo fatto cenno di no con la testa e mi ero
intrufolata dietro
gli archi di pietra che si aprivano sul backstage. Un paio di ragazzi
aveva placcato
il cantante per fargli un’intervista, lei invece si era
seduta sopra una robusta
cassa nera e stava bevendo dell’acqua da un bottiglietta.
«Ciao»,
le dissi, avvicinandomi.
Da vicino era persino più bella.
Lei
alzò gli occhi e mi guardò,
sorridendomi. «Ciao».
Le
mie condizioni erano pietose:
la coda bassa non aveva impedito che i capelli si spettinassero
comunque, avevo
sicuramente delle occhiaie non indifferenti e indossavo una vecchia
canotta sbiadita.
Non facevo mai molto caso a quello che mi mettevo, non quando
l’unica cosa a cui
si faceva caso, là dentro, era il pass, fedelmente
agganciato ai passanti dei miei
larghi pantaloni neri. Ero un disastro, eppure in quel momento non mi
importava.
«Siete
stati eccezionali», mormorai,
e vidi i suoi occhi illuminarsi. «Davvero… Io non
vi conoscevo, siete stati una
gradevole sorpresa».
Lei
sorrise, chiudendo con il
tappo la bottiglietta e dondolando i piedi per aria.
«Di
sicuro non potevi conoscere
me… Lo accompagno in giro per aiutarlo nelle canzoni nate
per essere delle collaborazioni,
ma preferisco rimanere una voce di nicchia. Sai, poter gironzolare in
tutta tranquillità,
godermi le serate, un pubblico che non ti conosce e che ti deve
scoprire… L’anonimato
è una vantaggio che non tutti sono in grado di
apprezzare».
Io
annuii, turbata dal misto di
emozioni che stavo provando in quel momento.
«Mi
chiamo Maria Sole, comunque.
Sono solo una dell’organizzazione», mi presentai,
porgendole la mano che lei strinse
con ferma delicatezza.
«Io
sono Eirene. Non avevo mai
conosciuto qualcuno con un nome come il tuo!»
«Madre
argentina», spiegai semplicemente,
conscia che già la strana pronuncia di quel
“Sole” e i miei lineamenti avrebbero
fatto capire il necessario; avevo solamente voglia di parlarle di me,
di dirle qualcosa
di mio.
«Mia
nonna, invece, era greca.
In famiglia è rimasta la tradizione di battezzarci con nomi
inconsueti per il nostro
luogo di nascita».
«A
me piace molto!», esclamai
con sincerità. Lei sorrise di nuovo, e stava per aggiungere
qualcosa quando un ragazzo
si avvicinò e le toccò un braccio.
«Nene,
dobbiamo andare, gli altri
sono già nel furgone».
Mi
crollò il mondo addosso. Intontita,
la osservai alzarsi e darmi nuovamente la mano, che presi
istintivamente.
«È
stato un piacere, Maria Sole.
Spero ci incontreremo ancora», disse, e io balbettai un:
«Lo
spero anche io…»
Dopodiché,
mi voltò le spalle
e la osservai sparire oltre la piazza, in un vicolo piccolo e stretto.
Non
l’avrei rivista che dopo due
anni.
C’erano
stati molti momenti difficili,
nella nostra vita. Ero una bimba quando era morto mio nonno, e io avevo
passato
due giorni interi rannicchiata sul mio letto, rifiutandomi di alzarmi o
di mangiare.
Non ero voluta neanche andare al funerale. Nonna Pilar si era
presentata da me la
terza mattina e non aveva detto nulla, si era stesa accanto a me e mi
aveva abbracciata,
in modo che il mio capo si posasse sul suo vecchio petto materno che
profumava di
lacrime e lavanda.
«Non
perdere la speranza, niña.
Qualsiasi cosa accada, ricordati che è solo una prova, e che
chi sembra lasciarci
in realtà resta qui. Non se ne va nessuno, bambina mia, chi
ti vuole bene non ti
abbandona».
Non
ricordo altro di quella giornata,
se non la sensazione del cotone stropicciato e umido della sua veste
contro la mia
guancia bagnata, la sua catenina d’oro stretta nella mia mano.
In
due anni, non sembrava essere
cambiata di una virgola. Era sempre bellissima, delicata, aveva sempre
lo stesso
amore per ciò che faceva. In due anni, non ero ancora
riuscita a togliermi dalla
testa che fosse lei la persona che
stavo
cercando, e ancora non mi ero capacitata di come non fossi riuscita a
ritrovarla
che dopo tutto quel tempo. Era tornata, sempre affiancando
quell’uomo grande e buono
dalla voce rassicurante, e io ero decisa a parlarci di nuovo. Non avevo
idea di
cosa potessi dirle, perché mi rendevo io per prima conto
dell’assurdità della situazione,
ma non potevo farla andare via così.
Stavolta
si erano fermati dopo
l’esibizione, optando per passare la notte in un famoso pub
con un bel giardino
sul retro, e gli altri ragazzi avevano circondato il cantante, che
rideva bloccato
tra loro e il bancone. «Ti stavo cercando»,
sussurrai, trovandola sola, in un angolo,
che si muoveva seguendo il ritmo della canzone che stavano suonando
all’interno.
Lei si voltò a guardarmi, e capii che mi aveva riconosciuta.
«Ciao»,
mi salutò con un sorriso,
e sentii il mio stomaco sciogliersi e contrarsi. Mi chiesi se ci avrei
mai fatto
l’abitudine.
«Anche
stasera siete andati benissimo»,
incominciai, come se riprendessi un discorso lasciato cadere solo pochi
minuti prima.
Lei annuì, contenta del mio parere, e mi fece segno di
sedermi sul muretto, accanto
a lei.
«Maria
Sole, giusto? Mi era rimasto
impresso il tuo nome…», mormorò, senza
guardarmi. Sentii la faccia andarmi a fuoco,
ma non mi importò. «Ti sei tagliata i
capelli», continuò, sfiorandomi il collo con
due dita e prendendo in mano una ciocca dei miei lisci capelli neri,
che toccavano
a malapena le spalle. Io sospirai involontariamente, e lei
scoppiò a ridere.
«Scusa»,
e sapevo, sapevo di dover essere
imbarazzata, che i
miei sentimenti erano chiari e che lei aveva capito tutto, ma io non
riuscivo ad
esserlo. Non provavo imbarazzo, vergogna, solo la sensazione che essere
lì, con
lei, in quel preciso istante, era fondamentale, e un po’ di
paura per il fatto che
lei potesse allontanarsi e abbandonarmi. «Non sono mai stata
brava nel gestire queste
cose, sono troppo cristallina».
«Non
esiste bravura “in queste
cose”… In più, non mi piacciono le
reazioni costruite, preferisco quelle spontanee».
Mi
aveva sorriso, di nuovo, e
pur se davvero non volevo fare altro che baciarla, la ringraziai negli
anni a venire
di quello che disse dopo.
«Ti
va di parlarmi un po’ di te,
Maria Sole?»
Tutta
la nostra relazione fu improntata
all’insegna della naturalezza. Le prime uscite, il primo
bacio, il modo in cui cercavamo
di far combaciare i nostri impegni per vederci - fortunatamente era
venuto fuori
che abitava a meno di un centinaio di chilometri da me, e quindi
potevamo vederci
più spesso di quanto avessi dapprima sperato. Avevamo avuto
ore e ore solo per noi,
e le avevo raccontato di me, della nonna, del mio lavoro; di lei, avevo
scoperto
che era in realtà una figlia d’arte. Suo padre era
un personaggio piuttosto famoso
nel giro, ma lei non aveva mai ambito a quella notorietà.
Era una persona tranquilla,
riservata, gelosa del suo spazio, spazio che poi da
“suo” era diventato “nostro”.
«Mi
importa solo poter cantare,
ma non voglio farmi un nome».
Stesa
nuda sul letto di quella
grande casa al mare, ero ormai arrivata alla piena consapevolezza che
ciò che mi
aveva sempre detto nonna Pilar era vero.
«L’importante
è che tu faccia
quello che vuoi», mormorai con gli occhi chiusi, cominciando
ad entrare nel dormiveglia.
Sentivo la sua mano fresca carezzarmi la schiena, l’altra
imprigionata nella mia,
le nostre gambe intrecciate. L’aria era calma, immobile,
regnava una sensazione
di pace che riusciva a toccarmi come la prima volta. «Io
resterò sempre insieme
a te, è questa l’unica cosa che conta».
Mi
baciò una tempia, e io sorrisi
di riflesso, stringendole la mano. Adoravo dormire con lei, i nostri
corpi si incastravano
alla perfezione e sembrava che non potesse esistere
nient’altro, in quei momenti,
che noi due.
«Sono
contenta che tu mi abbia
trovata», sussurrò, chiudendo anche lei gli occhi
e arrendendosi al sonno.
«Sono
contenta che tu ti sia lasciata
trovare».
«Come
fai a essere così sicura
che incontrerò chi mi aspetta, abuela?»
Nonna
Pilar mi aveva fissato sorridendo,
chinandosi a lasciarmi un bacio sulla fronte e rimboccandomi le coperte.
«Perché
lo so», aveva risposto
lei, con uno scintillio nello sguardo. Poi era scoppiata a ridere ed
era uscita
coprendosi la bocca, per evitare che gli spiriti le entrassero dentro.
A te.
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