E’ nei miei occhi, certamente.
E’ lì che, anche senza luce, riesco a vederti.
E’ lì che tu rimani, sempre, anche mentre sei lontana.
Senti il vento? Batte contro i vetri, li fa tintinnare.
Sembra voglia entrare qui, nella nostra stanza.
Ma non avere paura, non lascerò che si insinui nei tuoi
sogni col suo respiro di ghiaccio.
Non temere. Puoi continuare a dormire.
Nulla disturberà il tuo riposo.
Tu dormi, io veglio. E’ sempre stato così.
Anche ora che è inverno. Anche ora che la notte cresce.
Cammino nella stanza a piedi nudi, senza fare rumore.
Conosco alla perfezione queste mura, il disegno del parato,
i listelli di legno del pavimento.
E’ il nostro odore quello che sento? Carne e sangue.
Respiro. E’ così bello e così terribile insieme.
Mi avvicino al letto e ti scorgo appena. Sei un’ombra di
velluto fra le ombre di velluto. I tuoi capelli sparsi sul cuscino, il tuo seno
che si alza ed abbassa nel respiro. Le tue mani, le tue dita abbandonate,
ripiegate contro il palmo. Sembra che tu stia cercando di stringere qualcosa,
inutilmente.
Posso ricordare ogni piccolo particolare del tuo corpo,
sai?
Le pieghe della pelle, la forma delle unghie,
l’attaccatura dei capelli. E come sono lucide le tue palpebre. Tasselli di
seta.
Ti ho guardato per così tanto tempo, in silenzio.
Ti ho guardato così disperatamente, e tu neanche lo
sapevi.
Mi chiedo come sia possibile. Come sia possibile che tu sia
sempre più bella.
Sei nel pieno della tua fioritura, ma vorresti essere già
appassita.
Le rose sono più belle un attimo prima di morire, dici, e
ridi.
Scosti le tue belle labbra scarlatte e ridi.
Ridi di me Bellatrix?
Ridi di quello che vedi nei miei occhi, nelle mie labbra
asciutte che hanno sempre sete di te, ridi della mia eterna debolezza?
Sei un cancro, e mi stai divorando.
Dall’interno. Stai nascosta, in agguato, in un angolo
buio e segreto del mio corpo. E io mi sono ammalato, e non posso guarire. Non
voglio guarire.
Mi uccidi e sorridi. E’ l’unica morte che vorrei, e tu
lo sai.
Sai tutto di me, e poi non sai niente.
Niente. Niente.
Per quanto tempo dovrò continuare a restare sveglio,
ascoltando il tuo respiro?
La mattina, nella luce fredda del sole grigio, ti guardo,
seduta al tavolo, col volto fra le mani. Sembri una bambina. Ti osservo
dondolare il capo, come al ritmo di una misteriosa melodia che sei l’unica a
poter sentire, e mi chiedo a cosa stai pensando. A chi, stai
pensando.
Sollevi gli occhi, li posi su di me, e sorridi in quel modo
che conosci tanto bene, piegando un angolo delle labbra, sollevando le
sopracciglia.
Chiunque potrebbe crederti perfettamente innocente. E per
un attimo lo penso anche io. Sei innocente e sei mia, semplicemente. Ti sorrido
di rimando e accendo un’altra sigaretta. Continuo a guardarti attraverso il
velo azzurro del fumo, e tu torni ad immergerti nei tuoi pensieri segreti.
Viviamo di poco, io e te.
Anzi, a volte ho l’impressione che non viviamo affatto.
Ci trasciniamo, senza fare rumore. Come spettri.
Parliamo poco, e se lo facciamo finiamo per non capirci.
Ci tocchiamo, spesso, quasi facendoci del male.
E io lascio che sia tu a guidare, tu a passarmi le braccia
attorno al collo, tu a premere le labbra contro le mie, tu a trascinarmi sul
letto. Tu a calciare via le lenzuola. Tu a prendere, tu a dare.
Tu ad essere violenta.
Sei sempre stata la più forte fra di noi, Bellatrix.
Quella che sapeva perfettamente come comportarsi. Quella che sapeva dove mettere
le mani, dove posare gli occhi.
Quando fermarsi. Quando ricominciare.
Siamo come il ghiaccio e il fuoco, io e te.
Entrambi bruciamo, ma in modo diverso.
La cosa più bella che ho visto è stata anche la più
terribile.
Era inverno, come ora. Il lago ghiacciato in una mattina di
sole, e io avevo cinque anni, sei forse. Stavamo pattinando, io e mio fratello,
fra molte altre persone, e c’era anche una bambina, proprio lì, poco lontano
da noi. Una bambina molto piccola, come tante altre.
Me la ricordo perfettamente: sciarpa e berretto rosso
scuro, cappotto color biscotto. Due trecce nere che le battevano sulle spalle
mentre avanzava goffamente fra gli svolazzi di lana dei mantelli .
E poi successe.
Il ghiaccio si ruppe, all’improvviso. Si aprì sotto le
lame dei suoi pattini.
E lo ricorderò per sempre: l’ultima immagine che
sembrava ritagliata nella carta colorata, l’ultima bellissima, tensione del
suo corpo che prima c’era e poi c’era ancora, ma lì, al di sotto del
ghiaccio grigio. Cadde senza emettere un suono. Senza un grido.
Fu tutto così improvviso che ci volle qualche minuto prima
che, tutti quelli che avevano assistito alla scena, si rendessero realmente
conto di quello che stava accadendo.
Quello che era accaduto.
Cercarono di salvarla, naturalmente, ma non ci riuscirono.
Provarono con le mani, tuffandole nell’acqua ghiacciata, provarono con dei
bastoni. Provarono con la magia, ovviamente.
Ma non servì a nulla. Era scomparsa, risucchiata
dall’acqua scura.
Come un misterioso insetto in una prigione d’ambra.
E’ stata la prima persona che ho visto morire, Bellatrix.
Poi sono venute tutte le altre, come sai. Tutte le altre
persone uccise da me. Da noi.
Ogni volta che vedo i laghi ghiacciati e le persone che
pattinano, penso che stanno danzando con la Morte e che la Morte è
tutt’intorno, nella neve, nei sorrisi sulle loro facce, nelle guance
arrossate. Nelle nuvole di fiato che si condensa uscendo dalle bocche.
E penso alla bambina che ho visto morire, tanti anni fa, e
mi sento come lei.
Vado a fondo. Nel nero, nel freddo.
Mi sembra impossibile che sia passata solo qualche ora.
Qualche ora da quando io ero te e tu eri me, e io respiravo nella tua bocca e tu
nella mia. Ed eravamo solo un groviglio di carne.
Ora sto qui, nel buio, seduto sulla poltrona di fianco al
letto, e guardo il tuo profilo per metà divorato dalle ombre. E la notte è così
lunga.
“Sei così complicato, Rodolphus!” dici sempre quando
cerco di parlarti.
E ti tiri a sedere, posi la schiena contro la spalliera di
ferro battuto nero del nostro letto, ti sollevi i capelli con entrambe le mani e
io vedo i segni della mia bocca sul tuo collo. Tra poco svaniranno e tu te ne
dimenticherai.
“Sei così complicato! Perché non ti giri dall’altro
lato e ti addormenti come fanno tutti gli altri?”
Chi sono gli altri, Bellatrix?
Non te lo chiedo e tu mi rubi le sigarette dal pacchetto,
te ne accendi una e guardi da un’altra parte. Sei ancora la ragazzina che a
scuola si arrotolava le calze, troppo lunghe, per far vedere le gambe, e
tagliava un paio di centimetri dalla piega della gonna.
Sei sempre la stessa, e io fingo di non vedere. Sono
veramente così debole?
Sono sceso così in basso?
Se guardo il mio viso nello specchio, non lo riconosco più.
A volte mi chiedo chi sia quell’uomo che mi fissa con tanta insistenza, con
tanto odio, quell’uomo che poi sorride crudele e mi compatisce. E’ il volto
di un assassino, il volto di un pazzo, il volto di quello che sono diventato.
Semplicemente.
Eppure non mi pento di nulla. Non riesco a considerare
quello che ho fatto un errore. Non mi vergogno e non rinnego quello in cui ho
creduto.
L’unica cosa che mi fa soffrire è questo continuo,
tormentoso, giro di pensieri.
Questo vagare senza sosta di sentimenti. Sì, perché i
sentimenti esistono. Ancora. Sono un diritto, forse l’unico, che vale davvero
per tutti.
Diritto di amare. Odiare.
E non c’è nulla che io possa fare, nulla che io possa
fare per liberarmi del loro eterno peso.
Il ghiaccio sta diventando sempre più sottile.
E’ l’alba. Una tarda, scura, alba invernale.
Il cielo è di quello strano colore azzurro carico, quel
colore che ti spinge a chiederti cosa stia succedendo lì, oltre le nuvole, quel
colore che per un attimo ti confonde. E’ primo mattino, ma potrebbe essere
tardo pomeriggio, quasi il crepuscolo.
C’è silenzio, immobilità.
Non nevica e non piove. Il vento si è zittito.
Io sono sempre seduto qui, sulla poltrona consumata, la
stessa su cui ti siedi tu a sistemarti le scarpe, ogni tanto.
La luce si arrampica sulle pareti, grigia e trasparente, si
muove con lunghe zampe di ragno, ti accarezza il viso. E tu ti volti,
lentamente, verso di me.
Apri gli occhi e vedo le tue ciglia d’ebano tremare.
Ci guardiamo in silenzio e mi chiedo cosa tu stia vedendo.
Il mio viso, le mie spalle, le mie mani, il brillio rosso della sigaretta.
“Rodolphus…”
Dici il mio nome come se ti piacesse. Come se avesse un
buon sapore.
“Che ci fai lì? Non hai freddo?” domandi e inarchi la
schiena, muovi le gambe al di sotto della coperta.
“Ti guardavo” rispondo. Come potrei spiegarti, come
potrei anche solo cercare di spiegarti quello che provo, quello che penso,
quello di cui ho paura? Probabilmente ne rideresti, come sempre.
Io vorrei che tu fossi spaventata, invece, almeno una
volta.
Forse riusciresti a capire come mi sento quando ti guardo.
Sorridi arricciando le labbra.
“Vieni qui” dici e tendi le braccia come farebbe una
bambina. Le tue mani e le tue lunghe dita nella luce che cresce, polverosa.
Tutti quelli che hai ucciso devono averti visto così, nel
loro ultimo minuto.
Pallida, nera, eterna. E tutti devono aver creduto che alla
fine, morire, smettere di esistere, non può essere tanto terribile. Non nella
tua luce scura.
A questo punto smetto di riflettere.
Mi alzo, spengo la sigaretta premendola sul pavimento, e mi
avvicino al letto.
Tu sei ancora lì, con le braccia sporte in avanti. Vedo il
brillio dei tuoi denti di perla.
E mi avvolgi, mi trascini giù. Mi soffochi.
Sento il tuo odore.
Fa quello che vuoi, ora. Questo è il tuo regno.
Ed è inverno, ed io devo smettere di pensare.
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