Occhi
azzurri scrutavano il campo di battaglia; capelli bianchi e lunghi
seguivano i movimenti della testa da sotto la corona dorata; la lingua
faceva capolino da una barba corta color rame per inumidire le labbra;
con lo spadone in mano, il mantello in spalla e i piedi nelle staffe
l’Imperatore diede finalmente la carica:
<<
Avanti! >>
Il
suo possente frisone non si mosse al passaggio di migliaia di suoi
simili lanciati all’attacco con feroce impeto.
L’imperatore fissò l’orizzonte: le forze
nemiche stavano avanzando con passo lento e deciso, con picche, scuri e
scudi alti. Il vento, causato dal passaggio dei cavalieri,
sollevò i capelli di Bihares che, colto da una scarica di
adrenalina e col sorriso sulle labbra, si lanciò
anch’esso alla carica per sconfiggere l’avversario
di tutta una vita: Surga, Re Anziano dei Suriaki.
Le
due armate si infransero l’una sull’altra:
cavalieri imperiali impalati dalle picche, soldati suriaki travolti dai
possenti destrieri. Tra Impero e Suriaki vi era sempre stata guerra; in
pochi ricordano di una collaborazione o di una pace tra le due potenze.
L’una governa sulle terre dell’Ovest,
l’altra sui deserti dell’Est e i motivi dei loro
contrasti non potevano essere che di natura economica: entrambe
volevano ciò che l’altra possedeva e nessuna delle
due si accontentava di ciò che aveva.
Scudi
accartocciati dai martelli, teste trafitte da lance, spalle recise da
spade: ecco come finivano la maggior parte delle dispute tra i due Re:
nel sangue, nella morte.
La
cavalleria imperiale era solo un diversivo; dalle retrovie un
battaglione di fanti pesantemente corazzati avanzava in formazione
serrata: sarebbe stato facile assegnare la vittoria
all’Impero, erano in superiorità numerica e meglio
equipaggiati. I soldati suriaki iniziarono infatti ad avere
difficoltà nell’affrontarli: le spade leggere e
sottili degli orientali non potevano scalfire le corazze temprate dei
fanti imperiali, spesse svariati centimetri, e di certo non era facile
colpire le giunture tra un pezzo e l’altro
dell’armatura. Ma i suriaki, benché meno numerosi
e diversamente armati, erano da sempre i migliori strateghi: un corno
risuonò nel marasma della battaglia. Urla di dolore, di
rabbia, di morte, smisero di uscire dalle gole di migliaia di soldati.
La battaglia sembrò fermarsi. Un brivido di paura scosse gli
imperiali, uno di speranza attraversò i suriaki.
Due
possenti macchine da guerra attraversarono l’orizzonte
riuscendo miracolosamente a piazzarsi nel bel mezzo del campo di
battaglia senza essere sfiorate dalle forze avversarie. Le ruote
vennero tolte, le basi fissate a terra. Due sfere di ferro, legate con
una catena, vennero fatte penzolare a tre metri da terra: uno stregone
iniziò a formulare strane litanie e a bagnare le sfere con
un liquido. Le sfere iniziarono a brillare e gli sguardi imperiali
erano fissi su di esse. Ogni soldato suriaki estrasse dalla cintola un
paletto e lo conficcò, in fretta e furia,
nell’armatura del soldato nemico più vicino. Lo
stregone finì di preparare le macchine, tirò una
leva e le sfere si mossero: un flash. Fumo e puzza di carne bruciata
iniziò a riempire il campo. Bihares non riusciva a crederci,
non sapeva cosa dire, cosa ordinare: le sfere si erano toccate e tutti
i soldati con un paletto addosso furono colpiti da una scarica
elettrica, un fulmine. Lo sguardo dell’imperatore si muoveva
frenetico sul campo dove guerrieri suriaki posizionavano altri paletti
nei corpi dei loro avversari, inermi alla loro velocità e
sveltezza di mano, inermi alle loro magie. Le sfere si mossero ancora,
si toccarono ed esplosero. Altri soldati caddero, altro fumo si
levò.
All’imperatore
non restò altro da fare: estrasse uno strano corno a spirale
e, con forza, richiamò la “sua” arma
segreta. Con il corno in mano e il volto soddisfatto per
l’imminente vittoria, Bihares spalancò le braccia
e salutò i nuovi arrivati:
<<
Cavalieri dei Draghi, rendetemi fiero di voi! >>
Tre
grandi figure attraversarono il cielo oscurando il sole e tutti i
soldati sotto di loro.
Una
di esse si appollaiò sull’altura dal quale
l’imperatore aveva dato la carica, l’altra
atterrò su una delle macchine da guerra mandandola in pezzi
e l’ultima rimase a volare in circolo, come un condor a
caccia di carogne.
Eito,
dall’altura, osservava seduto a gambe incrociate sulla testa
del suo drago, Tolus. Alto più del normale e col fisico di
un atleta, era uno dei cavalieri più rispettati
dell’Impero: indossava una casacca priva di maniche, lunga
fino alle caviglie e legata con una cintura. I volti di drago e
cavaliere erano simili: il drago aveva una testa affusolata, lunga e
liscia, senza occhi e con due strette fessure per naso; Eito invece
portava sempre un velo di fronte al viso e i capelli sempre nascosti
sotto ad una cuffia. I colori delle sue vesti, bianche e azzurre,
rispecchiavano la sua personalità e i suoi modi di fare,
nonché il suo titolo: il Pacifista.
Bihares
si voltò verso quest’ultimo come per ricevere una
conferma e un cenno del capo da parte del cavaliere placò le
sue paure. L’imperatore, il condottiero
dell’armata, poteva tornare sul campo di battaglia in tutta
tranquillità, sicuro che nessun soldato nemico sarebbe mai
riuscito a toccarlo, non con il Pacifista a coprirgli le spalle.
In
volo vi era Algos, la Guida dei Falchi, a cavallo del suo irto drago,
Baton. Considerato il miglior arciere dell’impero, Algos
rendeva onore al suo di titolo: mira infallibile con ogni tipo di arma,
occhio svelto. Un soggetto iperattivo, attento ad ogni minimo
movimento, obbediente e paranoico. Forse il miglior soldato che un
generale possa desiderare se non fosse per la sua schizofrenia, la
quale spesso riduce il povero cavaliere alla solitudine o
all’emarginazione per paura di un qualche attacco
d’ira.
Protetto
dalla sua armatura d’osso, con occhi verdi sgranati e coi
corti capelli al vento, Algos faceva strage di nemici
dall’alto col suo elaborato arco in ebano. Per grande
sfortuna dei nemici però non erano frecce quelle che
partivano da quell’arco, ma altre ossa. Baton era un drago
particolare cresciuto con una strana abilità: quella di
mutare continuamente le proprie squame e rigenerarle
all’istante se queste fossero state in qualche modo
danneggiate. Il vantaggio più grande per Algos,
però, era che le squame non erano neanche minimamente simili
a quelle degli altri draghi bensì erano enormi lance
d’osso. Bastava sfilare una lunga e affilata squama,
incoccarla e mirare; la morte era assicurata e il nemico a volte veniva
anche sbalzato a qualche metro di distanza con forza spaventosa. Spesso
Algos si divertiva a combattere corpo a corpo utilizzando le
“frecce” più grandi come lance o come
giavellotti. Ma questa volta, dalla schiena del suo drago, quasi fosse
una faretra di frecce infinite, la Guida dei Falchi massacrava i
suriaki trapassando anche due o più nemici insieme,
disarcionando cavalieri o impalando nemici al terreno.
Ma
il vero pericolo per i suriaki era a terra, proprio su una delle loro
amate macchine da guerra: Cikra il Dragone, seguito da Vantos, il Drago
Nero. Il nero era infatti il principale colore che ricopriva i due:
nere le squame del drago, nere le fiamme che sputava sui nemici
indifesi e nera la pelle del cavaliere che insieme alla lucente
armatura, donava a Cikra un aspetto maestoso e spaventoso. Maglio alla
mano, era una leggenda vivente e si diceva fosse inarrestabile. Forse
mortale, forse immortale. Le sue parole risuonarono nel silenzio del
campo:
<<
Facciamola finita in fretta, ho una cena in sospeso! >>
La
voce, profonda, bassa e minacciosa, spaventò a morte tutti.
Il Dragone stava per mostrare la fonte del suo immenso potere e
l’origine della leggenda della sua immortalità:
Vantos si sollevò su due zampe, spalancò le ali e
ruggì potente come non mai. Molti si strinsero le orecchie e
contemporaneamente assistettero ad uno spettacolo unico: il drago stava
lentamente svanendo, si trasformava in fumo e il suo ruggito si
arrestò nell’aria. Lo strano fumo però
era risucchiato da qualcosa che proveniva da terra: l’ombra
del suo padrone. Cikra aveva gli occhi completamente bianchi, le
braccia tremavano, il maglio cadde a terra. L’ombra
catturò tutto il fumo, assorbì l’intero
drago nero. E iniziò la magia: le componenti della corazza
di Cikra iniziarono a cadere lasciandolo a petto scoperto. Le ossa
iniziarono a fremere e poi a spaccarsi rumorosamente. Il cranio si
gonfiò e, all’altezza della nuca, due ossa
acuminate fuoriuscirono. Le spalle si allargarono e delle placche ossee
strapparono la pelle e andarono a coprire spalle e avambracci. Le
nocche divennero irte di ossa e il petto insieme alle costole si
dilatarono mostrando anch’essi delle placche ossee nere come
la pece. Cikra il Dragone si era ormai trasformato in un mezzo-drago.
Un ibrido con la forza e i poteri di un drago e con la coscienza e
l’intelletto di un uomo. Un sorriso bianco stagliò
sul nero del viso:
<<
Che inizino i giochi. >>
Detto
questo, le guance si gonfiarono e un’intensa fiammata nera
carbonizzò decine di nemici. Altri tentarono di attaccare e
di penetrare le ossa con spade, lance e asce ma
l’esoscheletro del drago era più resistente del
previsto. Possenti pugni sfondarono teste, poderosi urli fecero volare
soldati. Recuperato il maglio, Cikra era ormai in preda ad una furia
omicida.
Un
anziano, stanco e sdraiato su un trono di cuscini, osservava i
cavalieri di Bihares devastare le sue truppe. Barba lunga e bianca,
corona sulla testa e rughe sul volto, Surga era ormai allo stremo delle
forze.
<<
Vassor… >>
La
voce, flebile e rauca, era pronta ad impartire il suo ultimo ordine:
<<
Vassor…Vieni qui. >>
<<
Si, maestà. Eccomi. >>
Svariati
colpi di tosse resero l’immagine del potente Re Surga solo
quella di un vecchio malato e in fin di vita.
<<
Le nostre forze stanno per essere sbaragliate, i mercenari sono in
rotta e non abbiamo più rinforzi. >>
Un
dito rinsecchito fuoriusciva dalla manica delle rosse vesti sfarzose;
indicava il campo di battaglia, al sicuro dal trambusto, dalle polveri,
dal sangue e dalle urla in un baldacchino sull’alto di una
collina, protetto da un manipolo di forze d’elite.
<<
Hai il permesso di attuare il tuo piano. Fallo, fallo per il bene dei
Suriaki. Poni fine alla guerra… >>
Il
volto di Vassor, giovane e delicato, divenne deciso e pieno di rabbia.
<<
Non la deluderò, maestà. >>
Il
giovane si strinse gli ultimi lacci dell’armatura, prese con
se un pugnale e una pietra con sopra incisa una runa e li ripose nel
cinturone. Voltatosi verso l’Anziano Re, si
inchinò per poi proseguire in sella ad un cavallo senza dire
una parola e con le lacrime al viso.
Vedendolo
andar via, Surga parlò tra se e se:
<<
Buona fortuna, figlio mio… >>
La
battaglia era ormai agli sgoccioli: Cikra e Algos stavano ripulendo il
campo dagli ultimi soldati rimasti mentre Eito teneva
d’occhio il suo imperatore mentre errava alla ricerca di
qualche nemico facile da sconfiggere. Alla sua età Bihares
non era più un valoroso guerriero ma la sua
volontà era più forte di qualsiasi ramanzina dei
suoi fedeli consiglieri e, spesso, si ritrovava a vagare da solo per il
campo di battaglia.
Vassor,
abbandonato il cavallo, attraversò rapido le file alleate
scavalcando cadaveri e schivando fendenti ma senza troppi problemi
riuscì a giungere al cospetto di Cikra. Intorno a lui una
macchia di morte: cadaveri mutilati, ustionati, carbonizzati e
maciullati. Il Dragone era intento a spezzare una formazione di scudi
suriaki e di sicuro non poteva capitare momento migliore. Vassor
uscì allo scoperto, sotto gli sguardi terrorizzati dei suoi
compagni, e si diresse verso l’enorme guerriero. Vassor era
decisamente più basso del cavaliere posseduto e sembrava che
quest’ultimo non avesse neanche notato la presenza del
piccolo intruso. Dopo un attimo di esitazione, il principe estrasse la
pietra con la runa e con il coltello ne seguì
l’incisione. Una volta finito, la lama iniziò a
surriscaldarsi. Divenne incandescente e con forza Vassor la
conficcò nel fianco del possente Dragone,
all’altezza del rene. I soldati, sia nemici che amici, non
poterono credere ai loro occhi. Un singolo colpo, una singola
pugnalata, aveva scalfito l’impenetrabile corazza di Cikra
dove già altre asce e spade avevano tentato senza risultati.
Lo stesso cavaliere nero si voltò stupefatto e con un
sorriso soddisfatto parlò:
<<
Oh, complimenti. Sei il primo che ci riesce, ma mi dispiace. Addio.
>>
Un
veloce manrovescio scaraventò Vassor in aria facendolo
atterrare su un mucchio di cadaveri. Con la schiena dolorante e col
respiro mozzato, il principe benedì l’imbottitura
di squame di Viverna della sua corazza leggera e col cuore in gola
trovò le forze per alzarsi. In lontananza Cikra era ancora
intento a massacrare i suoi compagni ma il principe non poteva perdere
tempo.
<<
Devo trovare qualcosa. Ma cosa? >>
Lo
sguardo si mosse in ogni direzione, il collo e tutti i muscoli
tremavano ancora per il colpo ricevuto. Qualcosa catturò la
sua attenzione: un bagliore. Vassor si mosse, fortunatamente era in una
zona ormai piena di cadaveri e poté muoversi liberamente
senza essere attaccato. Finalmente individuò la natura di
quel bagliore: la corona dell’imperatore. Bihares cavalcava
in quel mare di corpi senza vita alla ricerca di un nemico e i due non
poterono che incrociare i loro sguardi: Bihares si paralizzò
notando la divisa di Vassor. Eito era la guardia del corpo
dell’imperatore e avrebbe fatto di tutto per impedire al suo
sovrano di farsi del male, ma l’imperatore si accorse che il
suo protettore era momentaneamente distratto, concentrato su un grosso
soldato suriaki che stava apparentemente tenendo testa a Cikra con la
pura forza bruta. Dopo attimi di silenzio e immobilità,
Bihares diete un’occhiata fugace verso Eito, poi verso Vassor
e infine si lanciò alla carica con sguardo feroce. Vassor
era pronto, estrasse il pugnale e con mano rapida ripeté
l’operazione con la runa sulla pietra. Bihares
sollevò la spada a pochi centimetri dal nemico ma per Vassor
fu piuttosto semplice: si spostò di un passò
lateralmente. Il colpo andò a vuoto e Bihares, perso
l’equilibrio, cadde da cavallo e batté forte la
schiena contro il terreno, perdendo la corona. Il principe
approfittò di quel momento e praticò un piccolo
foro sulla corona dell’imperatore. Una volta finito,
indietreggiò di qualche passo con aria soddisfatta fissando
Bihares. Prese un cadavere e lo posizionò nel punto in cui
lui avrebbe dovuto essere e lasciò che il vecchio
imperatore, una volta ripresosi dal colpo, credesse di aver finalmente
ucciso qualcuno.
Vassor
si allontanò correndo e una volta fuori dal campo visivo,
Bihares si risollevò da terra osservando con volto dolorante
l’operato della sua spada. Soddisfatto, estrasse il corno e
suonò. La vittoria era sua, l’Impero aveva vinto.
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