johnlock1
Quelli
che Restano
John si china
lentamente, con fatica. La gamba gli fa sempre male da
quando lui se ne è andato. Si siede di fronte alla lapide
del
suo ex coinquilino e si lascia uscire un unico, lungo, sospiro. Dolore,
rassegnazione, rabbia, tristezza.
"Ciao
Sherlock."
Si prende una pausa prima di continuare a parlare. "Continuo a zoppicare, ma non
prendertela con me. Lo so che è
un dolore psicosomatico, ma fa male comunque. Anche più di
prima, sai? Non posso fare a meno di questo." Alza il suo bastone e lo
mostra alla fotografia sulla pietra.
"Manchi a tutti, a
miss Hudson, a Mycroft, a Lestrade e persino ad
Anderson. Adesso che non ci sei più si rende conto che deve
lavorare il triplo per non fare casini. Ogni tanto io e Lestrade ci
vediamo, chiacchieriamo, beviamo una birra. Cerca di tirarmi su il
morale, ma non ci riesce granché. Manchi a me più
di ogni
altro. Dovevi portarmi giù di sotto con te, io per te il
salto
l'avrei fatto. Per te, con te. Invece hai fatto come diavolo ti pareva
e mi hai lasciato qui."
Si passa
una mano sugli occhi, cercando di scacciare le lacrime che gli
premono agli angoli delle palpebre. Tira su col naso e si costringe a
deglutire il nodo che gli chiude la gola e gli blocca la parola e
l'aria.
"Oggi ti ho portato un regalo."
Sorride
alla foto, mentre estrae il violino e l'archetto di Sherlock e li posa
di fronte a lui.
"E' bello lucido vero? Lo pulisco io ogni settimana, di
giovedì
sera. Ho scoperto un sacco di cose che non sapevo sulla cura dei
violini. Ho dovuto far spazio nella mia testa. Anche se ancora non
riesco a scordare che la terra gira intorno al sole."
John
resta in silenzio, le sue orecchie si riempiono delle note
prodotte dalla dita di Sherlock, le stesse che suonava dopo cena,
mentre lui lavava i piatti. Chiude gli occhi per concentrarsi di
più sulla memoria evocativa che permette a quel violino
immobile
di essere vibrante.
Resta
fermo per un tempo imprecisato. Forse venti minuti, forse trenta.
Quando li riapre la lapide è ancora lì, lui non
è
nel suo comodo salotto e la realtà fa quasi più
male
della consapevolezza della fantasia.
Rimette
lo strumento nella sua custodia in silenzio, toccandolo con
delicatezza. Sherlock ci tiene a quel violino.
Si sporge
in avanti e accarezza con la punta dei polpastrelli il viso
statico della foto. E' a colori, ma non rende giustizia alla meraviglia
dei suoi occhi o al magnifico pallore della sua pelle. Neanche gli
zigomi sono belli come lo sono, erano, nella realtà. John
ogni
tanto si confonde tra presente e passato. Tra morto e vivo. A volte non
è nemmeno sicuro che ad essere morto non sia lui stesso.
Chissà
perché tutti piangono quelli che muoiono e mai
nessuno che si disperi per quelli che sopravvivono. Sono quelli che
restano quelli che vanno pianti, compatiti. I morti sono solo morti. I
sopravvissuti invece sono costretti a trascinarsi in giro, a sentirsi
lacerati, spaccati. John respira, mangia, beve, lavora. Ma dentro
è morto. Arido, secco, accartocciato come un foglio che
è
stato bruciato.
John si
sente fatto di cenere.
Si rialza
piano, con ancora più dolore di prima. Guarda un'ultima
volta la tomba.
"Ci vediamo domenica prossima. Magari trovo qualche caso interessante
di cui parlarti."
Sherlock, non la foto
ma quello vero, lo guarda andare via. Segue John
in ogni movimento da tre giorni, da quando, dopo sei mesi, è
stato finalmente sicuro che non ci fosse alcun pericolo a tornargli
vicino. Vederlo ridotto in quella maniera lo fa sentire in colpa.
Quando le dita di John hanno accarezzato la sua foto, Sherlock avrebbe
voluto essere al posto di quell'immagine. Si è chiesto se
sarebbero state delicate come se le è immaginate. Ha un
brivido
lungo la schiena. E' uno dei miracoli di John, quello di fargli provare
cose che non proverebbe di norma. Ma con lui niente è mai
stato
nella norma da quando ha traslocato nel suo appartamento.
Quando
l'ha visto davanti alla sua tomba avrebbe voluto corrergli
incontro e fargli capire che non l'ha mai lasciato. Non davvero,
almeno. Si è trattenuto. Per paura e perché
sapeva che
non era il momento giusto. John ha bisogno di un posto familiare, in
cui si sente a suo agio, al sicuro, per non lasciarsi travolgere
completamente dal colpo che la sua riapparizione causerebbe. E il
cimitero di certo non era il posto adatto. Può pazientare un
altro po', Sherlock ha pazientato per dei mesi, resistendo all'impulso
di tornare a casa in quella routine che non si era reso conto di amare.
John
che prepara il caffè per sé e il
tè per
lui. Solo tè, perché la caffeina lo manda troppo
su di
giri e non ce ne è bisogno.
John che carica la
lavatrice, borbottando per le macchie di sangue
sulle camicie di Sherlock, che lui dovrà prelavare a mano.
John che trasale
quando trova pezzi di pelle tatuata sotto formalina, in barattoli
etichettati, riposti accanto alle spezie.
John che alza il
volume della televisione per coprire la sua voce che ha da ridire su
qualunque cosa passi in tv.
John che dice
"fantastico" alle sue deduzioni facendogli sentire nel petto un moto
d'orgoglio.
John che gli ha tolto
i proiettili dalla pistola, perché i
vicini cominciano a pensare che forse sarebbe il caso di cacciarlo dal
quartiere.
John che gli sorride
in quel modo alla John Watson.
John.
John.
John.
Salire le scale
è diventata una fatica. Miss Hudson ha provato a
suggerirgli di cambiare appartamento con le condizioni della sua gamba,
ma lui si è nettamente rifiutato. Paga l'affitto pieno,
anche se
la donna ha provato a dirgli che non ce n'era bisogno. Ma John ci
tiene, perché non vuole un altro coinquilino e non vuole
essere
iniquo nei confronti di Miss Hudson. Lavora il doppio, ma non gli
importa, almeno quando la sera torna a casa è abbastanza
sfinito
da non avere il tempo materiale di pensare a quanto solitario sia
quell'appartamento. E poi lavorare tanto lo fa sentire un po' meno
inutile. Solo un pochino, ma è meglio di niente.
Si
abbandona sul divano, lasciando che il bastone scivoli a terra e si
stringe la gamba con entrambe le mani. Potrebbe tornare dalla
terapista. Potrebbe prendere degli antidolorifici. Potrebbe un sacco di
cose. Ma non ne farà nessuna, perché quel dolore
pulsante, che non lo abbandona mai, gli ricorda che è vivo.
C'è solo quello a ricordarglielo. E l'unico motivo per cui
è ancora vivo è che uccidersi lentamente con i
ricordi e
la solitudine gli è sembrata la scelta migliore.
John ha
visto molta gente morire mentre era in guerra. Davvero molta.
Ma la morte di Sherlock l'ha privato di qualcosa. Gli manca qualcosa
dentro, quella cosa che di solito spinge le persone a sorridere in una
giornata di sole.
Allunga
la mano alla sua destra e afferra un maglione di Sherlock. Se
lo porta al petto, stringendoselo addosso, lasciando che le lacrime
escano da sole. Non tenta neanche di fermarle, si è abituato
a
quelle domeniche di pianto, dopo le sue visite all'amico. Durante la
settimana il lavoro occupa la maggior parte del suo tempo, ma le
domeniche sono un lento stillicidio. Quel maglione John non l'ha rubato
dalla stanza di Sherlock, era solamente abbandonato su una sedia della
cucina. Non ci è entrato più nella sua stanza. Ha
mandato
Mycroft a chiudere le imposte e lui l'ha fatto senza obbiettare e senza
chiedere nulla. John non ha toccato nulla delle cose di Sherlock.
L'intera casa è un museo alla sua memoria. Ci si diletta e
ci si
distrugge. L'unica cosa che è cambiata è stata la
rimozione degli esperimenti nel frigo. Ci ha pensato Lestrade un
pomeriggio, facendo irruzione nell'appartamento. Era stato chiamato da
Miss Hudson perché John non rispondeva e da lì
veniva
odore di putrefazione. Si era limitato ad annuire, lasciando che il
poliziotto facesse quello che riteneva più opportuno. Lui si
era
rimasto seduto in poltrona nella più perfetta
immobilità.
John
sorride al niente. Ogni tanto gli sembra di vedere il corpo
nervoso e scattante di Sherlock camminare nel salotto. Ogni tanto sente
la sua voce. Adesso lo sente chiedergli di comprare il latte. Sa da
quale giorno dove viene quella frase con quell'intonazione. Se lo
ricorda perché stavano per prendere il tè e si
erano
ritrovati senza latte.
John comprerebbe tutto
il latte del mondo, se solo servisse a qualcosa.
Sherlock è
immobile, la mano sulla maniglia e la fronte sulla
porta. Per la prima volta in vita sua non sa assolutamente come
andranno le cose. E' come un'equazione fatta di variabili impazzite.
Lui vorrebbe solo entrare e ricominciare come se fossero passati sei
giorni e non sei mesi. Vuole solo riavere la sua vita con John. Di
tutto il resto non gliene frega molto. Anzi, non gliene frega proprio
nulla.
Sa che John non si
limiterà a sorridergli. E' un'opzione
altamente improbabile. Teme che reagirà in modo inaspettato
come
al solito. John, che è un uomo d'istinto più che
di
logica, reagirà secondo uno di quegli schemi emotivi che lui
non
è mai riuscito a capire, con suo sommo disappunto.
Sta
temporeggiando.
Entra
silenzioso, vedendo John rannicchiato sul divano esattamente come
un tempo faceva lui. La sua schiena sussulta. Probabilmente piange.
Sicuramente piange, ma lo fa in silenzio, perché
è pur
sempre un soldato.
Si guarda
intorno, aggrottando la fronte. E' tutto come l'aveva
lasciato, per un attimo ha la strana sensazione di non essersene mai
andato. I fogli sono impilati esattamente come aveva fatto lui, il suo
microscopio è vicino al frullatore dove l'aveva appoggiato
l'ultima volta ed è sicuro che lo troverebbe calibrato per
lui.
John non ha mosso uno
spillo delle sue cose.
Oh, John.
Il cuore
gli precipita nello stomaco. Si sente in colpa più di
prima. Si sente un imbecille. Non aveva capito niente né di
se
stesso né di John. Ha sprecato un mucchio di tempo. Si
chiede se
non sia troppo tardi. Non ha la risposta. Sa solo che gli sono mancati
persino i suoi rimproveri.
Si
avvicina al divano, con ancora il cappotto addosso, e lo osserva un
secondo, se aspetta troppo potrebbe cambiare idea. Gli stringe una
spalla e lo costringe a voltarsi.
Si fissano in
silenzio. Uno perché non sa cosa dovrebbe fare
esattamente, l'altro perché lo shock gli ha paralizzato il
cervello. John riprende a respirare. Dopo la sorpresa sente montare la
rabbia.
"Tu sei
morto."
Lo sibila tra i denti, la rabbia che non gli permette di articolare le
mandibole come dovrebbe.
"Mi
permetto di dissentire. Sono vivo. E' una deduzione abbastanza ovvia
anche per te John." Ha
il dubbio di aver detto la cosa sbagliata quando lo sguardo del
dottore si fa d'acciaio, gli occhi si socchiudono e lui scatta in piedi
fronteggiandolo. Sherlock è più alto, ma si sente
un
ragazzino di fronte a quella furia. Sa perfettamente di aver detto
qualcosa che non va quando il pugno di John gli arriva in piena faccia.
Cartilagine che scricchiola, cede, si rompe. Sangue in bocca. John gli
ha appena rotto il naso.
Sherlock arretra sotto il colpo, ma non reagisce. Sa di esserselo
meritato.
John lo
guarda, le mani a coppa intorno al naso, e riesce a ripetersi solo una
cosa: è
vivo. Vivo. Vivo.
Lo guarda imbambolato dalla situazione e dalla sua reazione. Non sa
bene cosa fare, con ancora la scarica di adrenalina che gli circola in
corpo. Per cui fa l'unica cosa che gli riesce bene anche con il
cervello che non funziona a dovere. Fa il medico.
Si siede
accanto a lui sul divano e gli toglie la mano da volto. Si
è raddrizzato il naso da solo. Bene, ma gli verranno
comunque
due begli occhi neri. Gli passa il sacchetto del ghiaccio avvolto in un
panno pulito e lo guarda mentre se lo preme sul naso.
"Fa male?"
"Ovviamente."
"Sono contento."
"Sei un medico, il sadismo non è nelle tue corde."
"Stai zitto."
Sherlock
tace. Sa che John è arrabbiato con lui, ma spera che il
fatto che sia seduto accanto a lui e che gli abbia appena
passato
del ghiaccio, siano un buon segno. Deve esserlo. Le persone che non
vogliono davvero avere niente a che fare con te, non ti accudiscono. Ma
John è una variabile impazzita. La sua variabile impazzita. Prova a
farsi avanti timidamente.
"Allora..."
"Stai
zitto." John
non sa cosa fare. Quello che ha desiderato per mesi, quello per
cui ha implorato, pregato, sperato, ora sta premendosi un impacco
freddo sulla faccia. Si infila le mani nei capelli tirando le ciocche
come se volesse strapparle via. Come se potesse strappar via anche il
cranio, i pensieri, i ricordi, fino a non lasciare più
niente.
"Hai fatto credere a tutti che tu fossi morto."
"Mi
dispiace."
"Hai fatto credere a me che tu fossi morto."
Sente il
tono d'accusa nelle parole di John, ma non ha il coraggio di guardarlo
in faccia.
"Mi dispiace."
"Dimmi
perché. Dimmi perché l'hai fatto."
"Volevo proteggerti."
John
sente una parte della rabbia svanire, sostituita dal calore di
averlo di nuovo lì. Vorrebbe perdonarlo immediatamente, ma
non
può perché il cuore gli fa ancora male come se ci
avessero infilato un ferro arroventato nel centro. "Perché sei
tornato? Perché ora?"
"Ho
aspettato per essere certo che tu fossi al sicuro. Non potevo
pensare di rivivere quel terrore un'altra volta. Avrei dovuto
rendermene conto dopo la piscina e prima di quel tetto."
"Non hai risposto. Perché sei tornato?"
"Perché
non sopportavo di non tornare."
"Chi altro sa che sei vivo?"
"Solo tu."
John si sente lusingato. Prima di chiunque altro, persino del fratello.
Non riesce a reprimere un sorrisetto, ma non importa, tanto Sherlock
non lo vede. Ha ancora la testa reclinata all'indietro sulla spalliera
e gli occhi socchiusi. "Capisco."
John
mormora, ma l'altro sente il cambio di intonazione. Da rabbioso e
guardingo a tranquillo. Potrebbe giurare di aver colto una nota di
compiacimento. Sempre senza guardarlo allunga la mano sinistra verso di
lui. La tiene a mezz'aria, aperta, il palmo verso l'alto come quando
chiedeva a John di passargli qualcosa. Il dottore la guarda senza
capire. Non sa cosa vuole. Non avendo niente da passargli, gli riempie
la mano con la sua. Ha fatto la mossa giusta. Sherlock gli intrappola
le dita con le sue e finalmente si volta verso di lui.
John non
resiste. Non credeva che avrebbe mai rivisto quelle pozze blu
in cui perdersi. Accorcia la distanza tra loro e gli si preme addosso.
Non va a nessuno dei due di parlare, a qual punto sarebbe superfluo.
Non sa bene come muoversi, perchè non sa bene come ci si
comporta con gli uomini, ma soprattutto non sa bene come comportarsi
con Sherlock. Così si limita ad accarezzargli la mano col
pollice, in un movimento circolare, cercando di mantenerlo costante.
Se John
si sente confuso, lui lo è dieci volte di più.
Non ha esperienza con quella sfera della vita umana, specialmente
quando sono coinvolte anche le emozioni. Così si limita a
stringergli più forte le dita. Non ti
lascerò mai più, John.
Fine
Non ci credo che sono
arrivata fino in fondo. E' la prima volta che
scrivo su questo pairing, ma davvero non potevo più
resistere.
Quei due sono oltre il bromance.
Ero molto tentata di
renderla una rating rosso, ma poi mi sono resa
conto che andava bene così, che si capiva comunque che quei
due
sono più di semplici amici. O almeno spero che si sia capito.
Fatemi sapere che ne
pensate.
Baci,
Aria
Per
qualsiasi cosa, mi trovate QUI
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