Salve
a tutti! Lo so, spunto come un fungo velenoso in questo fandom, ma
ormai ho la
fissa e me la tengo.
In
questa fanfiction ho racchiuso le ultime follie (che sono durate 13
pagine di
Word). Quindi, prima di leggere questa one-shot prendete una buona dose
di
coraggio, un secchiello per vomitare arcobaleni e una lametta
perché l’angst
iniziale vi farà venire voglia di usarla.
Per
tutto il resto io avviso che: Il Johnlock e Benedict Cumberbatch
possono
nuocere gravemente alla salute. E' un presidio medico chirurgico,
leggere
attentamente il foglietto illustrativo non somministrare al di sotto dei
dodici anni.
Buona
lettura, miei amati.
Shine
Nobody
said it
was easy, no one ever said it would be so hard
Oh,
take me back
to the start.
And I’m gonna miss you like a child
misses their blanket.
“Hello?”
“John?”
“Hey,
Sherlock. Are you okay?”
“Turn
around and walk back the way you came.”
“No,
I’m coming!”
“Just
do as I ask! Please!”
Sangue,
c’era sangue ovunque.
Perchè c’era tutto quel sangue? Era impresso nella
retina e bruciava come se
fosse fuoco. Da dove provenivano quei capelli scuri e densi? E
perché non c’era
più luce in quegli occhi azzurri, ora intensi e immobili? Sherlock era a
terra e poi sul
cornicione e poi di nuovo a terra. Che
cosa stava succedendo?
Basta, basta.
“Nobody
could be that clever.”
“You
could.”
“Stay
exactly where you are. Don’t
move.”
Cos’era
tutto quel rumore? John
non riusciva più a respirare, il nome di Sherlock incastrato
tra le labbra, la
testa che pulsava dolorosamente.
“Keep
your eyes fixed on me, please, will you do this for me?”
Come se avesse
potuto fare
altrimenti, come se non avesse fatto sempre quello in tutta la loro
conoscenza.
Guardarlo.
“Goodbye
John.”
Sherlock.
Sherlock
“SHERLOCK!”
John
si svegliò di soprassalto, inarcandosi sul letto, madido di
sudore. Buio. Il
buio di uno squallido monolocale. Nei suoi incubi precedenti
all’accaduto di
solito aveva paura di perdere Sherlock. Ora che si svegliava e intorno
a lui
c’era solo buio e solitudine e odore di chiuso, si accorgeva
che l’aveva perso
per davvero, che lui non c’era più.
John
si alzò stancamente dal materasso, lanciando
un’occhiata alla sveglia sopra al
comodino e notando, con una punta di irritazione, di aver nuovamente
anticipato
l’alba. Andando verso il piccolo cucinotto ad angolo John
vide che la data di
quel giorno diceva 15 aprile* ed era stato disegnato un piccolo cerchio
intorno
al numero.
Oh no.
Odiava
quell’appartamento nella periferia di Londra, odiava la vista
fuori dalla
finestra che dava su quella strada sempre piena di ubriaconi, odiava
risentire
la fitta alla gamba, odiava il silenzio e odiava che quel giorno, quel
maledetto giorno di aprile, segnasse il terzo mese dalla morte di
Sherlock
Holmes. Restò paralizzato davanti a quel muro, mentre
sentiva per un momento le
forze venire meno. Avrebbe voluto che fosse passato più
tempo -sembravano decenni, ma tanto
non
sarebbe cambiato nulla perchè nel suo cuore da quel giorno
era sempre la stessa
ora.
Respirò
a fondo, stringendo le labbra in una morsa serrata, la testa alta –in una perfetta postura militare,
pronto a cominciare una nuova giornata. Caffè bollente senza
zucchero, bagno,
peso sulla bilancia - 56 Kg, ancora
sottopeso, vestiti, cellulare, chiavi, specchio. Dio, aveva
un’aria
distrutta e quelle occhiaie peggioravano solo la situazione. John
sapeva
benissimo che quella domenica aveva già un percorso
stabilito, un percorso che
ripeteva una volta ogni mese.
Era
un medico e capiva che tutto quello era nocivo per la sua salute, sia
fisica
che mentale, ma era come se avesse una specie di “sindrome
dell’arto fantasma”,
come se Sherlock fosse stato un suo braccio o una sua gamba –o il suo bastone per reggersi e camminare,
e ora il solo pensare che non ci fosse più, la sola
mancanza, gli procurava dolore.
Aveva
chiuso il portone con la mano destra che tremava leggermente e si era
gettato
tra la poca folla mentre la città era rischiarata dalla
fievole luce del
mattino. Tutto quello che vedeva erano strade e negozi chiusi e
macchine,
niente era più interessante, non c’era nessun
campo di battaglia, nessuno con
cui combattere ogni giorno.
Passeggiando
per il parco in cui aveva incontrato Mike Stamford, John sentiva
scorrere nelle
vene il pentimento di non aver mai stretto Sherlock tra le braccia -nemmeno una volta, nemmeno per sbaglio,
perché ora non l’avrebbe più potuto
fare. Aveva stupidamente pensato, in quei
giorni in cui condividevano l’appartamento e non
c’era proprio nessuna oscurità
ad incombere minacciosa, di voler sentir dire da Sherlock che qualunque
scelta
John avrebbe preso, lui l’avrebbe appoggiata.
L’amore
rendeva idioti, probabilmente. Si sedette su una panchina,
impossibilitato ad
andare avanti dalla gamba che aveva incominciato a pulsare
dolorosamente.
Cercava di ricordarsi che era solamente un problema psicosomatico, ma
non ci riusciva,
il dolore era lì ed era vero, un qualcosa che lo teneva
ancorato alla realtà,
per lo meno.
John
non si era mai rassegnato alla morte di Sherlock come gli altri
credevano,
aveva solamente deciso di tacere per far stare tutti più
tranquilli. Respirò
profondamente, socchiudendo gli occhi mentre la brezza pungente di
Londra gli
sfiorava il viso. Riusciva a sgombrare la mente, ogni tanto.
Semplicemente chiudeva
gli occhi e si lasciava trasportare dagli altri sensi, separandosi da
tutti i
problemi. Alle volte funzionava, riusciva finalmente a respirare senza
nessun
macigno incastrato tra i polmoni, ma durava ben poco.
Non
c’era niente di più triste che un viso visto per
l’ultima volta e i primi
giorni dopo la sua morte, quelli in cui aveva il cervello
così annebbiato da
non poter fare nulla, ricordava il suo continuo cercare Sherlock nei
volti
degli altri. I ricci particolari, il colore degli occhi, la linea del
naso, le
labbra delicate, gli zigomi pronunciati, il cappotto, la sciarpa, il
cervello, il
cuore.
Lo
ricordava come se lo avesse appena incontrato e questo gli faceva
paura. Avrebbe mai potuto andare avanti?
Era
questa la domanda che gli rimbombava in testa continuamente. Quando
incominciò
a sentire le urla divertite dei bambini, John si distrasse dai suoi
pensieri,
guardando l’ora sull’orologio da polso.
Era
già mattina inoltrata e le sue mani faticavano a muoversi –ah, era primavera, si era dimenticato
anche di mettere il giubbotto.
La seconda tappa, era, forse, la più ardua. Il taxi che
aveva fermato lo stava
portando in vie che conosceva come le sue tasche, troppo vicino a posti
in cui
conservava eccessivi ricordi.
John
si chiedeva ancora perché fosse così masochista,
perché non la facesse finita e
basta, accantonasse tutti i pensieri e li gettasse in un cassonetto
immaginario, pronto a ripartire. Ma quell’angoscioso
itinerario mensile aveva
come punto centrale il non dimenticare nulla di ciò che
aveva vissuto, perché
trascurare quella parte della sua vita –così
intensa, così radiosa, l’avrebbe portato
solo a stare peggio. Era così
giunto a Baker Street e la gola gli si era fatta improvvisamente secca
e
stretta.
Scese
dall’automobile e lasciò la mancia al tassista che
ringraziò con un cenno del
capo. Sarebbe stato facile, insomma, bussare, salire le scale, guardare
l’appartamento in cui per diciotto lunghi mesi avevano
convissuto e poi
andarsene. Lineare, preciso.
Bussò
alla porta e pochi istanti dopo l’amabile signora Hudson
venne ad aprire la
porta con un sorriso tirato. “John, la stavo
aspettando!” Si fece da parte per
lasciarlo passare e John si fiondò subito su per le scale,
senza dare il tempo
ad altre parole di infierire su quell’atmosfera
già tesa.
Era
ancora tutto lì, quando aprì la porta che dava
sul disordinato salotto. Tutto
lì, come se nessuno se ne fosse mai andato.
Poi
gli occhi di John caddero sul vecchio divano e tutto si perse in un
ricordo.
“John,
potresti smetterla di
starnutire? Mi deconcentri.” John gli lanciò
un’occhiata irritata dal divano,
coprendosi meglio con la calda coperta di lana che si era portato
dietro dalla
camera da letto. Sherlock continuò a guardare nel suo
microscopio sul tavolino
della cucina, incurante dello sguardo mortale che il suo coinquilino
gli stava
dedicando.
Pensava davvero
che se avesse
potuto non avrebbe smesso? John si accovacciò ancora di
più, sprofondando nel
comodo angolino e poggiando la testa sul cuscino con la bandiera
dell’Inghilterra. Aveva passato due giorni
d’inferno con la febbre alta e un raffreddore
allucinante mentre continuava a correre per Londra a inseguire killer
di vario
genere. Chiuse gli occhi e cercò di godersi quei pochi
minuti di silenzio che
quell’appartamento concedeva raramente. Ora, finalmente, la
temperatura era
scesa ad un livello accettabile ma il naso continuava a restare tappato
e le
tempie continuavano a pulsare dolorosamente.
La suoneria di
un cellulare gli
fece aprire gli occhi arrossati, portandolo a guardare oltre al buio
della
stanza dovuto alla sera. Sherlock sbuffò, lanciando
un’occhiata al telefono e
rispondendo immediatamente. Probabilmente Lestrade, probabilmente un
altro
caso, probabilmente niente riposo per molto tempo.
“Sì, sì, ok, arriviamo.” Ma
perché lo doveva sempre mettere in mezzo? Lui stava bene
lì, con la sua coperta
e…”John, dai alzati, dobbiamo andare a
Picadilly.” John borbottò, sotterrando
la faccia nel cuscino e starnutendo subito dopo. Sentì
silenzio nella stanza –troppo
silenzio, e
riemerse dal suo nascondiglio per guardare
che fine avesse fatto Sherlock. Che se ne fosse andato da solo e lo
avesse
abbandonato lì? Ma Sherlock non era uscito, anzi. Stava
immobile davanti al
divano a fissarlo.
Fissarlo in un
modo che rendeva
John inquieto. E elettrico, tremendamente elettrico.
“C’è
qualche…problema?” Chiese
John con voce leggermente rauca. Senza preavviso, Sherlock si sedette
nello
spazio che le gambe raggomitolate di John avevano lasciato libero,
prendendo il
telecomando e accendendo la televisione con una smorfia disgustata sul
viso.
John non voleva
davvero illudersi
che quella fosse una resa con una sottile e apprezzabile dose di
sentimentalismo nei suoi confronti, ma il piccolo sorriso che gli stava
increspando le labbra non voleva smettere di crescere.
“Pensavo
dovessimo andare ad
aiutare in un altro caso.” Mormorò, tormentandosi
il maglione con la mano
sinistra da sotto la coperta. Dio, sembrava un adolescente alla prima
cotta!
“Beh,
tu non avevi intenzione di
alzarti, era perfettamente deducibile.” Disse, continuando a
tenere lo sguardo
fisso davanti a sé.
“Saresti
potuto andare da solo.” Continuò
a insistere John, sperando in un glorioso cedimento da parte di
Sherlock.
“Sì,
ma non era un caso
importante, sicuramente di livello tre.” John continuava a
fissare Sherlock ed era
sicuro che lui se ne fosse accorto perché ostentava un
interesse maniacale per
il documentario iniziato da pochi minuti. John si mise più
comodo, rivolgendo
il viso verso la televisione e cercando con la mano fuori dalla coperta
quella
di Sherlock, appoggiata mollemente vicino al telecomando, sul divano.
Abbassò
piano lo sguardo quando
strinse l’indice di Sherlock tra le dita –sì,
era
decisamente tornato alle elementari,
aspettando una sua qualsiasi reazione negativa. Ma ciò non
avvenne, facendo
ricomparire il sorriso sul viso di John che si sistemò
meglio sul cuscino. Il
suo stomaco continuava a fare capriole così intense da non
dargli un attimo di
respiro e non riusciva a fare altro che rallegrarsene. In fondo,
nessuno dei
due avrebbe voluto essere da nessun’altra parte –per
sempre.
John
deglutì rumorosamente, spostando il peso da un piede
all’altro. Dio, era così
complicato! Sherlock Holmes era
diventato suo da troppo poco tempo e
la
vita gliel’aveva rubato dalle mani senza alcuna
pietà, prima che ne potesse
godere appieno. E John era pieno di rabbia verso se stesso,
perchè l’aveva
ascoltato quando gli aveva detto di rimanere esattamente
dov’era, e verso
Sherlock, che l’aveva lasciato da solo senza pensarci due
volte, raccontandogli
bugie improponibili senza una motivazione valida.
Oh,
ma probabilmente lui aveva seguito uno dei suoi piani contorti,
ragionò John, macchinando
e tessendo la sua tela fatta di intelligenza allo stato puro, tenendolo
all’oscuro –ancora una
volta di
tutto.
Eppure
gli era sembrato che il loro legame fosse andato oltre
l’apparenza, che fosse
diventato sostanza invisibile, ma tangibile. Aveva pensato che si fosse
creata
della complicità, della fiducia reciproca. Aveva pensato che
fosse diventato
finalmente sentimento, che fosse amore. Però ora John non
sapeva cosa pensare e
ciò lo infastidiva più di quanto volesse
ammettere.
Doveva
uscire da lì, doveva andarsene e ritornare a respirare senza
il soffocante
magone che si stava formando al centro del suo petto. Era sceso dalle
scale con
la stessa, incalzante fretta con cui ci era salito, declinando
l’invito a
restare per il the che la signora Hudson gli aveva dolcemente proposto.
Perché
era rientrato in quell’appartamento? Al diavolo il
mesiversario, al diavolo tutto,
voleva solo tornarsene a casa e seppellire la testa sotto al cuscino,
mettendo
fine a tutti i pensieri. Quando sorpassò il piccolo
cancelletto arrugginito
arrivando sul marciapiede, John si permise di rilassare i muscoli in
tensione. Si
diresse immediatamente verso il suo appartamento, camminando a passo
militare
tra la folla senza vederla realmente. John credette di essere in salvo
dalla
sua stupida idea quando si accorse di essere entrato nuovamente in una
parte
privata della frequentazione tra lui e Sherlock.
Angelo.
Espirò
forte dal naso, stringendo le mani a pugno lungo i fianchi tanto forte
da
sentire le dita fargli male. Restò a fissare la vetrata
illuminata che dava
all’interno così tanto che sembrò
essere passato un secolo quando si decise ad
entrare, facendo suonare il campanello sopra la porta.
“John,
che piacere! Come stai?” Angelo gli venne incontro, dandogli
una generosa pacca
sulla spalla. John sorrise –un
sorriso
che non arrivava mai fino agli occhi.
“Tutto
bene, grazie.” Gli sembrava tanto una falsa frase di
circostanza, ma preferì
evitare di far sorbirgli tutto il tumulto interiore che si trascinava
dietro da
mesi.
“Prendi
il…solito posto?” “Sì,
sì il solito posto è…okay.”
John si sedette a destra del
piccolo tavolino che si affacciava sulla strada e una vena di
malinconia lo
trafisse in pieno, facendogli appoggiare la testa sulla mano mentre lo
spazio
vuoto accanto a lui
pulsava più di cento
vite.
Forse
era perché era stato così vicino a Sherlock –a
tutto quel calore e intelligenza e ancora calore, che ora lui
sentiva così
tanto freddo vicino ad altre persone.
Sherlock
ormai non c’era più, eppure lo sentiva come si
sente l’angoscia, come si sente
l’abbandono. Lo sentiva nelle ossa, nel silenzio, lo sentiva
solo lui. Solo e
sempre lui, mentre tutto intorno a John diceva che Sherlock non
c’era. Non
ordinò nulla, restò solo lì, cercando
un qualunque motivo che potesse spingerlo
in avanti, che potesse riaprirgli gli occhi dopo tutto quel buio.
Angelo
non venne a disturbarlo, ma le sue occhiate preoccupate lo
raggiungevano come
una carezza rassicurante.
Quando
John si accorse che stava per arrivare l’ora del tramonto, si
alzò dal comodo
divanetto per dirigersi verso l’ultima tappa del suo, tanto
doloroso,
itinerario. Il cimitero dove era stato sepolto era enorme e
così verde da poter
anche ammirarlo, lasciando perdere la nota assolutamente drammatica del
contesto.
Girovagò
un po’ tra le tombe di sconosciuti prima di convincersi ad
affrontare quella di
Sherlock Holmes. Gli mancavano sempre le parole davanti a quella lapide
di
marmo lucido -non era lui quello bravo a
parlare nella coppia.
Rimase
semplicemente in silenzio, accarezzando con lo sguardo le lettere
dorate e
sentendo gli occhi inumidirsi lievemente. Non c’era via
d’uscita a quel circolo
vizioso e chiudersi in un bozzolo pieno di pungiglioni non avrebbe
aiutato John
in niente.
Eppure,
qual era stata la sua colpa nell’amarlo con tutto se stesso?
Avrebbe voluto
dargli un addio urlato, agitato, rabbioso, furioso.
Gli
avrebbe voluto sbattere la porta in faccia, con nessuna telefonata
strappalacrime, con nessuna foto in fondo al cassetto. Senza incubi a
tormentare l’anima, con nessuna forma di contatto fisico o
mentale. Ma John non
riusciva a dare un vero addio a Sherlock, solo un flebile arrivederci
ripetuto
all’infinito.
Un
rumore lo distolse dai suoi pensieri, facendogli strizzare gli occhi
per vedere
che cosa si muovesse dietro agli alberi secolari che facevano ombra su
tutto il
prato.
Il
cuore lo si poteva legare, far tacere, bendare, ma quando tremava
c’era poco
che teneva.
“Sh…erlock?”
Un mese
dopo…
La
prima cosa che John sentì appena si svegliò fu
calore. Calore e odore di
dopobarba. Calore, odore di dopobarba e, sicuramente, un altro corpo
vicino al
suo.
Socchiuse
gli occhi e tutto ciò che riuscì a vedere furono
due palpebre abbassate
contornate da una nuvola di capelli neri. Nel silenzio della camera
passò in
rassegna i giorni passati, chiedendosi come diavolo fossero finiti a
letto
insieme.
C’era
stato un pugno –o due?,
c’erano state
parolacce e sguardi delusi, poi John aveva deciso di far finta che non
esistesse –per tanti, troppi giorni,
prima
che la continua insistenza di Sherlock –se
l’era cercata lui, se lo ricordava bene!, gli
facesse perdere tutte le
inibizioni fino a baciarlo. Dal baciarlo a tornare a vivere insieme il
passo
era stato corto, fino alla richiesta borbottata da parte di John di
voler
dormire insieme a lui.
Aveva
pensato potesse essere strano, imbarazzante, con Sherlock che
cominciava a
ciarlare senza sosta di cose che non avrebbero avuto il minimo senso,
ma, a
sorpresa di John, era stato tutto il contrario. Ricordava di averlo
stretto
così forte da togliergli il fiato, così tanto da
dimenticare perché era stato
triste, e lui era rimasto lì, tra le sue braccia, senza
replicare nulla. Gli
aveva lasciato addosso il suo cuore, era riuscito a fargli passare la
paura di
perderlo.
L’aveva
baciato così tante volte da perdersi e aveva pensato che
fosse bello, confondersi
uno tra le labbra dell’altro. John si era addormentato
così, sfinito da quel
fiume di emozioni che traboccava da tutti i margini.
Ancora
non riusciva a non imbarazzarsi al pensiero di star veramente
condividendo il
letto con un altro uomo, ma il fatto che fosse proprio il suo uomo, gli faceva perdere di vista
tutte le barriere che si era
creato davanti. Cercò di muoversi piano per non far
svegliare Sherlock, mentre
appoggiava la nuca sul suo petto.
Battiti.
Regolari, cadenzati, battiti di un cuore che troppo spesso John aveva
temuto
non esistesse o che si fosse fermato per sempre. Avrebbe voluto
rimanere immobile
così per l’eternità, in un replay
infinito di quel momento così perfetto.
Sherlock,
il suo Sherlock –gli piaceva
tantissimo
poterlo finalmente puntualizzare nella sua testa senza sentirsi in
soggezione,
poteva essere paragonato al mare. Quelli che amavano il mare lo amavano
così,
come se ti fosse sempre dentro, perché non ti serviva per
andarci in spiaggia o
per farci il bagno: avevi proprio bisogno della sua presenza
lì, di fronte. Di
sentirlo, di toccarlo, di averlo intorno. Chi amava il mare lo amava e
basta,
in qualsiasi stagione. Forse ancora di più quando non era
estate, ed era
incazzato, grigio, freddo e malmostoso, che pareva dir:
“Provaci, su, a starmi
vicino!” John poteva definire il mare il suo unico amore, ora
come ora.
Quando,
dopo aver lasciato un piccolo bacio, come un soffio, sul petto di
Sherlock si
accorse di due occhi fissi su di lui. Sentiva ancora un po’
quell’imbarazzo che
caratterizzava ogni suo gesto prima che diventassero qualcosa di
più, ma se ne
curò poco. Lasciò un altro bacio sulla fronte del
detective prima di
risistemarsi al suo posto originario. La seduzione che trasmetteva la
sua mente
originale, acuta, intuitiva e brillante non era epidermica come una
qualsiasi
attrazione fisica, era abissale, intima, viscerale. Era come immergersi
nel
sublime, senza bagnarsi, come librarsi in volo, senza essere dotati di
ali,
come attraversare il sovrannaturale, senza essere un Dio. Una
sensazione di cui
John era sempre stato consapevole e che sentiva ancora più
amplificata, ora che
aveva passato l’inferno per tre mesi consecutivi.
Eppure,
si stupiva ancora di come la sua lingua fosse sempre pronta nelle
risposte,
tranne quando si parlava di sentimenti. Sherlock lo considerava un
pregio, ma
quando arrancava spiazzato da una manifestazione da parte di John, come
ora,
con gli occhi ancora più liquidi e chiari di sempre –magnifico, storceva la bocca
stizzito, volgendo lo sguardo da
un’altra parte. A volte borbottava qualcosa di indefinito, ma
sinceramente a
John bastava. Perché era lì, con lui, e questo
riempiva tutti i suoi sensi,
ricuciva tutte le ferite e stendeva un balsamo su tutto il suo corpo.
“Buongiorno!”
Sherlock rispose con uno sbuffo che gli fece ondeggiare alcune ciocche
sulla
fronte.
“Mi
annoio.” Ecco, ora ricordava perfettamente
come fosse vivere con Sherlock Holmes, pensò John mentre gli
occhi volavano
verso l’alto. “Come diavolo fai a essere annoiato
di prima mattina?” “Il
mio cervello non ha un orologio, John, e
tutta questa improduttività mi irrita. Non seguo realmente
un caso da…mesi.”
La
sua smorfia orripilata fece intendere a John che niente e nessuno
l’avrebbe
fatto rimanere un secondo di più su quel letto per una
sessione extra di
coccole. Beh, tentare non nuoceva a nessuno. Appena vide la gamba di
Sherlock
sgattaiolare da fuori le coperte, lo fermò per un braccio,
mettendo in scena la
miglior faccia da cucciolo bastonato che possedeva.
“Dove
stai andando?” “Vado a chiamare Lestrade,
sicuramente avrà qualcosa da propormi
vista l’incompetenza dilagante di Scotland Yard.”
“Non puoi chiamarlo dopo?”
“John, non fare il bambino, adesso non ho tempo
per…” Gli catturò le labbra in
un bacio traditore, trattenendolo per la nuca con una mano.
Mosse
la propria bocca su quella dell’altro, mordicchiandogli
debolmente il labbro
inferiore. Sherlock rimase rigido e immobile in un chiaro segno di
protesta,
fino a quando il dottore non scese fino al mento e poi giù,
fino al collo, per
torturargli con i denti quella pelle tanto candida. Quando
ritornò all’altezza
del viso di Sherlock, John riuscì a vedere il cedimento
dietro quelle palpebre
socchiuse e se ne rallegrò mentalmente, mentre riprendeva
possesso della bocca
del detective, senza più alcun ostacolo ad impedirgli di
approfondire il
contatto.
John
riuscì ad aggrapparsi alla maglia del pigiama e a tirarselo
di più addosso,
prima di finire sdraiati sul letto. Se il buongiorno si vedeva dal
mattino,
quella sarebbe stata una giornata favolosa.
Quando
notò Sherlock farsi più insicuro, tenendosi con
un braccio alzato per non
pesare su John, quest’ultimo cercò di ribaltare le
posizioni, con successo. Sentire
Sherlock in tutta la sua fisicità e presenza sotto di lui
era forse l’emozione
più intensa e bella che avesse provato in tutti i suoi anni
di vita.
Poteva
sentire le rotelle del suo cervello lavorare febbrilmente prima di
incepparsi e
così ancora e ancora e ancora. John prese a lasciargli
piccoli baci lungo tutto
il viso –naso, mento, zigomi, fronte,
prima di rituffarsi sulle labbra dell’altro, accarezzandogli
con la lingua il
contorno delle labbra a cuore e poi l’arcata dei denti e il
palato.
Tutto
di lui continuava a farlo maledettamente eccitare e la cosa cominciava evidentemente a complicarsi.
“Non
credo che…” Mormorò John, non sapendo
nemmeno lui che cosa volesse dire
realmente, con le mani che non stavano ferme un momento e stringevano
lenzuola
che improvvisamente diventarono il cotone della maglia di Sherlock.
Si
staccò un momento dal bacio, osservando se fosse davvero
pronto per una cosa
tanto importante che non era sicuro avesse già sperimentato
con qualcun altro.
Sherlock teneva gli occhi chiusi, la testa reclinata verso
l’alto, scoprendo il
collo sensuale, le labbra appena più rosse del normale che
sembravano
richiamarlo con un urgenza che John non era certo di poter contrastare
ancora a
lungo.
Era
così bello che rimase un momento senza fiato riscontrando
con quanta sicurezza
si stesse affidando a lui. Aspettò pazientemente che
Sherlock riaprisse gli
occhi prima di continuare, cercando un consenso che sperava
più ardentemente di
quanto potesse immaginare. Era stato Sherlock a sorprenderlo questa
volta,
portando la mano tra i suoi capelli corti e continuando a baciarlo.
Davvero
un’interessante mattinata, senza ombra di dubbio. Arrivò con le
mani fino all’estremità della
maglia del detective, aspettando qualche cenno di disturbo che non
arrivò.
Strattonò via quell'indumento fastidioso, godendosi la
visuale assolutamente
paradisiaca di uno Sherlock a petto nudo.
Accarezzò
con i polpastrelli la zona dei pettorali, prima di passare alla pancia
piatta
dove si intravedeva il profilo delle costole. E al diavolo le persone
che
dicevano che fosse solo una cavolo di macchina tutto cervello! Sherlock
era carne
e bellezza ed era lì, insieme a lui, mentre tratteneva il
respiro sotto le sue
carezze e si mordeva le labbra, impaziente. Nessuno avrebbe potuto
rovinare
quel momento.
Gli
sorrise sulla bocca prima che un cellulare cominciasse a suonare per la
stanza.
John trattenne un ringhio di fastidio quando gli occhi vigili di
Sherlock si
aprirono di scatto. “Lascialo perdere.”
Borbottò John, cercando di baciarlo di
nuovo con deludenti risultati. Infatti il suo caro compagno
l’aveva già
scaraventato nello spazio di letto non occupato, pronto a correre verso
la
sedia dove aveva lasciato cadere il cappotto la sera prima.
“Pronto, Lestrade?”
John si maledisse per non avergli spento il telefono e tutti gli
oggetti che
potessero richiamarlo al mondo esterno, prendendo nota per la volta
futura.
“Sì,
certo…no che non sono impegnato, arriviamo
subito!” Sherlock chiuse la
telefonata con un sorriso che avrebbe potuto illuminare tutta Londra
mentre
John contemplava tutta la pelle che era riuscito a scoprirgli mentre i
capelli
tutti arruffati gli facevano nascere un sentimento strano al centro del
petto.
“Dai, alzati dobbiamo andare a Trafalgar Square, hanno
assassinato una
persona.”
L’occhiata
che John gli lanciò dovette chiarire a Sherlock cosa stesse
pensando. “No,
scordatelo, togliti da quel letto e vai a vestirti, non mi irretisci
più.”
Irretire? Il dottore strabuzzò gli occhi, incerto tra il
ridere o l’essere
scandalizzato. Decise di andare a fare una doccia per far sbollire i
muscoli
ancora in tensione per il momento appena sfumato. Passò
vicino a Sherlock che
stava scegliendo l’abbigliamento per quella giornata,
protendendosi in avanti
per avere un ultimo bacio che gli negò, guardandolo come se
fosse un bambino
pronto alla prossima marachella.
John sbuffò
sorpassandolo, chiedendosi perché
diavolo avesse trovato un fidanzato così ossessionato dal
lavoro.
John
era rimasto elettrizzato come se fosse stata la prima volta. Aveva
guardato
Sherlock aggirarsi per la scena del crimine con il cuore che batteva
più veloce
del solito, l’aveva sentito ridere e dare
dell’idiota a Anderson, prima di
sciorinare tutti i dettagli della vita privata di quella donna italiana
trovata
con un colpo di pistola in fronte e un altro dritto al cuore.
L’aveva
osservato mentre indagava, analizzava e scartava ipotesi ed eventuali
indizi
superflui come se fosse un gioco da ragazzi. Ogni tanto lo vedeva
buttare uno
sguardo dalla sua parte, in ricerca di quei complimenti che, sapeva,
gli
facevano più che piacere. Sally Donovan se n’era
stata in disparte, distorcendo
la bocca ogni qualvolta Sherlock parlasse, borbottando con Anderson di
chissà
cosa. Lestrade, invece, era sembrato più contento dei giorni
in cui seguivano i
casi insieme, mesi prima, e sorrideva continuamente, felice di aver
ritrovato
un vecchio collega e amico.
Era
parso strano a John, all’inizio, tornare come ai vecchi
tempi, come se niente
fosse successo, come se tutti quei mesi di dolore e nostalgia non ci
fossero
mai stati, ma poi aveva guardato negli occhi di Sherlock e aveva notato
quella
particolare luce che si accendeva solo quando era all’opera,
quando finalmente
il suo cervello aveva una valvola di sfogo che fosse
all’altezza della sua
intelligenza, e non era riuscito a sentire più nulla. Nessun
senso di
oppressione o inadeguatezza, aveva solamente ripreso il suo posto nel
circolo
della vita, il posto che gli spettava di diritto: quello al fianco di
Sherlock.
Aveva
risolto il caso in qualche ora e l’aveva trascinato da Angelo
per cena mentre
lo sentiva parlare di come essere adulteri al giorno d’oggi
fosse davvero
pericoloso. “Insomma –disse mentre prendeva posto
al solito tavolo, sistemando
il cappotto dietro la sua sedia– quella donna non sapeva
sicuramente mantenere
un profilo basso, visto che il marito l’aveva scoperta dopo
soli pochi mesi.”
A
John sinceramente non fregava nulla, perso com’era
nell’ammirare finalmente
Sherlock nello spazio vuoto che l’aveva accompagnato per
mesi. Era lì ed era
vivo, doveva continuare a ricordarselo per sentire una pace interiore
diffondersi in tutte le sue membra. “Bisognerebbe vivere la
propria vita senza
nessun legame, solo così si farebbero scelte
giuste.” A quella frase John
ritornò a prestargli reale attenzione.
“Credi
sul serio che si possa davvero scegliere per chi provare dei
sentimenti?”
Domandò John, stroncando la risata ironica che gli stava
nascendo dal profondo
della gola. Sherlock lo guardò sorpreso, agitandogli la
forchetta davanti al
naso con un’armonia tale da farlo sentire a disagio. Era solo
una banale
forchetta, diamine! “Io l’ho fatto per tutta la mia
vita passata.” Le
sopracciglia di John volarono verso l’alto mentre
un’idea gli si affacciava
nella mente.
“E
ora è cambiato qualcosa?” Chiese con disinvoltura,
salutando con un sorriso
Angelo dall’altra parte del salone –un
sorriso che arrivava fino agli occhi. “Che domande
fai, John? Ovvio che è
cambiato qualcosa!” Si sorprese nel sentirlo ammettere
così esplicitamente il
loro rapporto e stava già per dire qualcosa di carino quando
la sua risposta lo
congelò all’istante.
“Ti
sei già dimenticato del mio amato teschio? L’ho
trascurato per troppo tempo.” Mantenere
la calma, bisognava solamente mantenere la calma.
Lo
sguardo che John gli rivolse lo fece scoppiare a ridere, stroncando la
conversazione appena i piatti arrivarono al tavolo. La serata era stata
più
piacevole del solito, Sherlock non si era lamentato poi così
tanto spesso o
almeno non aveva minacciato il cameriere solo perché si
annoiava, la candela
che Angelo aveva acceso per loro si era quasi del tutto consumata e
John,
guardando con un’occhiata stanca l’orologio,
pensò che fosse decisamente l’ora
di andare a casa.
Sherlock
era stato taciturno nel viaggio di ritorno in taxi e John si chiese,
con un
brivido di terrore, se non stesse per complottare qualcosa alle sue
spalle o,
peggio, contro di lui.
Non
era ancora abituato agli spari di notte contro al muro e preferiva
ritardare il
loro fatidico incontro il più possibile. Quando la macchina
si fermò, Sherlock
scese velocemente, lasciando a John il tassista impaziente del suo
denaro.
Si
voltò appena in tempo per vedere la stoffa del cappotto nero
di Sherlock
sparire nel corridoio che portava al loro appartamento, lasciando la
porta
aperta. John sbuffò, aumentando il passo e ringraziando che
il dolore
psicosomatico se ne fosse andato per sempre dopo la ricomparsa del suo
pazzo
coinquilino.
Salì
le scale e chiuse la porta alle sue spalle, notando che Sherlock aveva
quel
tipico sguardo poco raccomandabile e che lo stava rivolgendo proprio a
lui.
“Stanotte
ho voglia di sperimentare, John.”
Sperimentare. Stanotte. John. Voglia. Il detective si
avvicinò lentamente a
lui in un’intima attesa che fosse proprio John a prendere in
mano la
situazione, come faceva sempre con quelle faccende.
“Aspetta!”
Sussurrò John, ponendo una mano sul petto di Sherlock per
fermare la sua
avanzata. Quest’ultimo lo guardò accigliato, in
una muta domanda alla quale non
ci fu risposta. Il medico incominciò a tastare le tasche del
cappotto di
Sherlock, in cerca di chissà diavolo cosa.
Quando
trovò ciò che stava cercando lo portò
davanti agli occhi, vittorioso, mentre
schiacciava il pulsante di spegnimento e lo lanciava sopra al vecchio
divano.
“Così
almeno nessuno potrà più disturbarci.”
Mormorò John, riprendendo finalmente possesso delle labbra
del suo compagno.
Tutto
il resto si tinse di indefinito.
Note:
-
Nei suoi
incubi precedenti all’accaduto di solito aveva paura di
perdere Sherlock – E’
una frase rivisitata da Hunger Games/ Peeta Mellark
-
Perché
il
cuore lo si poteva legare, far tacere, endare, ma quando tremava
c’era poco che
teneva – Di
I. Tudgiarov
-
La seduzione
che trasmetteva la sua mente originale, acuta, intuitiva e brillante
non era
epidermica come una qualsiasi attrazione fisica, era abissale, intima,
viscerale. Era come immergersi nel sublime, senza bagnarsi, come
librarsi in
volo, senza essere dotati di ali, come attraversare il sovrannaturale,
senza
essere un Dio. – Di Paolo Melone
Grazie
a tutti per aver letto e per essere arrivati fino a qui.
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