Travolti
da un insolito destino
Capitolo
1
-Non ci andremo-
-Cosa? Perché no??-
Manuel fece abilmente finta di non sentirla mentre cercava una cravatta
scura che si abbinasse alla camicia azzurra. Doveva trovare il tempo di
riordinare il casino nel suo armadio.
-Nera?-
-Meglio quella a righe blu- rispose lei stizzosa, poi riprese da dove
si
era interrotta comodamente sdraiata sul suo letto: -Perché
non vuoi andarci? Tuo
padre ha detto che ci sarà- non che quella fosse una valida
argomentazione per
convincerlo ma Kate sapeva essere estenuante quando voleva ottenere
qualcosa.
Da due settimane lo tormentava senza interruzione per colpa di quella
maledetta busta.
Quand’era arrivata aveva provato ad occultarla nel cassetto
degli
strofinacci, ma quella aveva un sesto senso per i suoi tentativi di
raggiro.
Ovviamente l’aveva beccata subito.
Non sarebbe stato poi così facile tenerglielo nascosto visto
che due
giorni dopo suo padre l’aveva chiamata dicendo che aveva
già guardato i voli:
il vecchio maledetto era suo complice.
Manuel però era deciso a non arrendersi, non aveva alcuna
intenzione di
andare a quel fottuto matrimonio e non si sarebbe lasciato fregare
ancora da
Kate, anche a costo di chiedere una trasferta in Asia.
Trovò la cravatta giusta e finalmente riuscì a
trascinare la sua
coinquilina fuori di casa. Dovevano andare ad un’esposizione
di design anni ’60
a cui a cui era stato spedito lui per rappresentare
l’ufficio. A Kate piaceva
accompagnarlo a questi eventi; per lui era solo lavoro, un susseguirsi
di
clienti da paraculare, stime, valutazioni, contrattazioni a non finire,
per lei
invece erano solo buffet e vino gratis e uomini d’affari
tirati a lucido da
rimorchiare. Più di una volta era tornato a casa da solo, o
l’aveva riportata
mezza ubriaca.
-Taxi o metro?- le chiese annodandosi la cravatta mentre scendeva le
scale.
-Metro, poi se vuoi torniamo in taxi-
Kate adorava i mezzi pubblici quanto lui li odiava. Erano sporchi e
puzzolenti, soprattutto la metropolitana dove non era difficile fare
incontri
di dubbio gusto. Per lei invece era meglio di un trattato di
sociologia, le
piaceva proprio vedere come le persone si rapportano le une con le
altre in
spazi comuni e limitati come le carrozze della metro.
-E metro sia..- rassegnato la seguì verso la stazione.
Presero la linea rossa affollata come a tutte le ore del giorno, la
stessa che lui prendeva varie volte al giorno per andare al lavoro, poi
cambiarono a Holborn per prendere la blu dove riuscirono finalmente a
sedersi.
Naturalmente Kate colse al volo l’occasione di tornare
sull’argomento.
-Ma dai, che vuoi che succeda?-
Non ci fu bisogno di chiederle di cosa stesse parlando,
bastò incontrare
il suo sguardo da cucciolo bisognoso d’affetto. Era nauseante
quella donna.
-Non ho paura di quello che potrebbe succedere, solo che non ho voglia
di rivedere gente con cui non parlo da una vita-
-Phil e Jack li hai visti a Natale-
-Non fare la finta tonta-
-Va bene allora ci vado da sola con Sergio-
-Come ti pare-
Sperava di irritarlo ma non aveva fatto i conti con la sua ostinazione.
Suo padre era deciso ad andarci quindi si sarebbe fatto accompagnare
molto
volentieri da Kate, lui invece non faceva che macerare in mille
ripensamenti.
Non tornava a Verona da oltre cinque anni, e all’improvviso
quella lettera
voleva costringerlo a tornare sui suoi passi. Appena l’aveva
vista nella
buchetta poco più di due settimane prima, più
piccola rispetto alla normale
corrispondenza e di una carta azzurrina, aveva pensato ad un invito a
qualche
convegno o mostra importante. Poi aveva notato il suo nome e quello di
Kate
scritti a mano in bella calligrafia, infine il francobollo e il timbro
postale
italiano. Se l’era rigirata tra le mani per ore nella
solitudine della cucina,
ne aveva studiato la forma quadrata e discreta, la calligrafia
svolazzante e palpato
la delicata carta di riso celeste di cui era fatta. Quando
l’aprì era solo,
seduto a tavola di fronte al solito cous cous del take away
vegetariano, e
l’unica parola che gli venne in mente fu
un’imprecazione in una lingua che non
usava da anni.
Quella a cui si trovò di fronte non era una semplice
partecipazione di
nozze: quello era l’invito al matrimonio dell’anno,
quello che Filo aspettava
da una vita, quello che lei e le
sue
amiche progettavano fin da bambine. Era l’invito ufficiale al
matrimonio del
suo migliore amico di sempre, Jack Zonin. Simpaticamente accompagnato
da un
appunto vergato a mano che lo minacciava di morte violenta se non
avesse mosso
il suo deretano ossuto da Londra per partecipare.
-Non puoi non andarci..- decretò quella perfida creatura
alzandosi per scendere
a Green Park.
Imboccarono le scale mobili e subito fuori Kate prese a saltellare sul
marciapiedi davanti a lui, ignorando bellamente la sua aria funerea.
Lei già
sapeva che alla fine avrebbe ceduto.
-Ehi stasera c’è quel figaccione del tuo stagista?-
-Non è il mio stagista,
e
comunque non lo so: io di certo non l’ho invitato- non che
con quello lei
avesse qualche possibilità, era vistosamente gay. Per Kate
era solo un
dettaglio, amava definirsi un’estimatrice di
“nature vive” e spesso lo prendeva
in giro dicendo di averlo scelto come coinquilino solo per poterlo
rimirare
ogni mattina. La maledetta.
-Beh allora speriamo che si sia autoinvitato!-
-Kate, è gay-
-Potrebbe sempre cambiare idea no?-
Manuel la guardò trotterellare attorno a lui sul
marciapiedi, con
addosso una camicetta svolazzante color canarino e una gonna elegante
un po’
fuori moda, rideva come una cretina.
-Per te, brutto sgorbio di nanerottola rompipalle?-
Kate continuò a saltellare e ridere mentre gli agitava
davanti al viso
un dito medio alzato.
Davanti al palazzo che ospitava l’esposizione saltarono la
fila grazie
all’invito personale di Manuel, un uomo in completo nero
controllò la presenza
dei loro nomi su una cartelletta e con un cenno altezzoso diede loro il
permesso di passare. Superarono una scalinata coperta da un tappeto blu
e
guadagnarono la soglia del palazotto liberty con una certa fretta,
erano già
stati a parecchie esposizioni lì dentro e nessuno dei due
era particolarmente
interessato a notarne l’architettura. All’interno
venne consegnata loro una
brochure che illustrava la disposizione su due piani di mobilio e
complementi
d’arredo dei primi anni ’60 e a Manuel venne una
crisi immediata di claustrofobia.
Non era un fan del design, lo capiva e apprezzava in certe forme, ma
non
riusciva a considerarlo una forma d’arte e quindi mal
tollerava le mostre
dedicate solo a futile oggettistica dalle forme accattivanti.
Seguì Kate al
buffet preso dallo sconforto sperando almeno che ci fosse un vino
decente.
Dopo l’iniziale crollo la serata prese la solita piega: lui
intratteneva
relazioni di lavoro con collezionisti e venditori, mentre Kate si
aggirava per
i corridoi armata di bollicine e guardando più i culi degli
astanti che le
opere esposte. Inoltre, per una qualche fortunata congiunzione astrale,
quel
rompipalle dello stagista non era presente, o forse aveva avuto
l’ottima idea
di stargli lontano.
Verso le undici andò alla ricerca di Kate e la
trovò bellamente
accomodata su una poltrona di pelle che faceva parte della collezione e
valeva
quanto casa loro.
-Alzati da lì scriteriata, finisce che mi tocca comprarla
quella
poltrona se la rovini-
-Scriteriata io? Ha parlato l’uomo che fugge dai matrimoni..-
gli bastò
quella frase per constatare che almeno non era ubriaca.
Lasciarono il palazzo dopo una serie snervante di convenevoli e con una
manciata di numeri di nuovi clienti.
-Mi ha scritto Judith, lei e Mike sono all’Empire. Chiedono
se li
vogliamo raggiungere?-
Judith era una ex collega lesbica di Kate, scriteriata pure lei, la
donna meno pudica che Manuel avesse mai conosciuto. Lo minacciava
letteralmente
di portarselo a letto ogni volta che si vedevano, quasi gli faceva
paura. Mike
era un discreto compagno di bevute, non esattamente un amico ma era pacato e tollerabile,
doti che Manuel
riscontrava di rado negli amici di Kate. Per questo
l’accoppiata Mike-Judith
era alquanto bislacca.
-Come vuoi- le rispose quanto più atono possibile.
Kate per fortuna non era in vena, forse anche perché sapeva
quanto poco
lui sopportasse Judith, quindi si ritirarono verso casa.
Fermarono il primo taxi libero dopo un paio di minuti e Kate
indicò
all’autista l’indirizzo mentre Manu guardava fuori
dal finestrino le persone
che lasciavano la mostra. Tra loro c’era una ragazza con un
vestito nero che
aveva notato anche all’interno; era molto bella, alta e con
un corpo sinuoso,
lunghi capelli mori e ondulati, ci aveva parlato qualche minuto ma gli
era
sembrata insignificante.
Se l’avesse incontrata a diciott’anni probabilmente
non si sarebbe fatto
tanti scrupoli: l’avrebbe avvicinata offrendole un drink, un
paio di minuti di
chiacchiere in cui avrebbe testato il suo livello di inibizione, poi le
avrebbe
proposto di bere qualcosa a casa sua. E ci sarebbe andato a letto di
sicuro,
magari non avrebbe nemmeno aspettato di essere a casa e se la sarebbe
scopata
sui lavandini del bagno. Non sarebbe stato così difficile,
li aveva notati
anche lui gli sguardi lascivi che gli lanciava.
Con gli anni però era diventato sempre più
selettivo.
Kate gli si accoccolò accanto passandosi un suo braccio
sulle spalle e
prese a parlargli di una delle ultime conquiste di Judith, una donna
della City
a cui pareva piacessero molto corde e frustini, tutti particolari di
cui Manuel
avrebbe volentieri fatto a meno. Kate blaterò ancora di
altri particolari
osceni ridendo e farcendoli con commenti ancora più osceni.
Lui e il taxista
incrociarono gli sguardi nello specchietto retrovisore e non seppe dire
chi
guardasse l’altro con maggiore commiserazione.
Finalmente giunti a destinazione, Manuel pagò il taxi e lo
congedò
trattenendosi dall’arrossire. Arrancarono per le scale fino
al secondo piano e
con immensa gioia si chiusero la porta alle spalle con tanto di
catenaccio. Kate
raggiunse il bagno per prima e con un urlo gli ordinò di
aspettarla ad aprire i
biscotti che aveva già in mano. Quindi, maledicendo il suo
stupido intuito
femminile, si arrese ad andare a spogliarsi e mettere sul fuoco
l’acqua per il
the.
Come quasi ogni notte finirono a guardare Gordon Ramsey nel letto di
Kate muniti di biscotti e the alla menta corretto alla vodka: ricetta
speciale
ideata da Manuel in una notte di profonda depressione.
Era quasi addormentato quando la voce di lei mischiata alle
imprecazioni
di Ramsey, lo svegliò da torpore.
-Davvero non vuoi andare al matrimonio?-
Non credeva sarebbe tornata alla carica tanto presto.
Di solito l’arma che funzionava di più su di lui
era la sua tediosa e
logorante costanza, in pratica la assecondava per sfinimento;
però era
abbastanza brava a dosarsi, non lo portava quasi mai ad incazzarsi.
Aveva usato
in effetti il tono più delicato e discreto, quello di
Kate-la-migliore-amica,
non di Kate-la-coinquilina-despota. E quello di solito lo faceva
sciogliere.
Nonostante tutto non sapeva cosa risponderle. Era ovvio che ci sarebbe
voluto andare, era il matrimonio di Jack, il suo più vecchio
e caro amico,
quello che non l’aveva mai mai mai abbandonato sebbene avesse
tentato di
allontanarlo più volte, quello che gli scriveva mail tutti i
mesi e chiamava
Kate di nascosto per sapere come stesse quando lui non rispondeva.
Ovvio che
sarebbe voluto andare al suo matrimonio, anche solo per sfotterlo un
po’.
Però.
C’erano un sacco di situazioni spiacevoli che avrebbe
volentieri
evitato.
-Non lo so- affondò la faccia nel cuscino e
inspirò a fondo quell’odore
così familiare.
Non le disse altro, Kate avrebbe capito, come aveva sempre fatto.
Rimasero in silenzio a guardare i prodigi culinari di Ramsey per una
mezz’ora, Manuel dormicchiava a tratti e si perse
metà dei dialoghi, Kate
invece continuava a mangiare biscotti senza guardare davvero lo
schermo. Alla
fine si arrese ad alzarsi per riportare tutto in cucina e
lasciò che dormisse
abbracciato a lei.
Il sonno di Manuel, nonostante fosse stato tra le uniche lenzuola che
lo
facessero sentire a casa, fu costellato di incubi e risvegli
improvvisi. Sognò
di corridoi senza fine, di inseguimenti senza capo ne coda,
finchè ad un certo
punto non si accorse di star inseguendo la sua stessa ombra. Kate lo
tenne
stretto a sé per molte ore prima di cedere anche lei al
sonno; non era raro che
dormissero insieme, ma di solito era lei ad accoglierlo
perché bisognosa di
rassicurazioni e contatto umano, quella notte invece lo
guardò agitarsi e mormorare
parole senza senso accarezzandogli i capelli per ore.
La sveglia suonò alle 7.30 come tutte le mattine, ma si
affrettò a
spegnerla per lasciarlo dormire ancora un po’. Si
alzò a preparargli la sua
colazione preferita e i vestiti, dopodiché scaldò
la doccia appena prima di
svegliarlo e sbattendocelo poi dentro con poca premura.
Così iniziava la loro giornata-tipo.
Quando ne uscì dieci minuti dopo, nudo come un verme,
incazzato nero e
arruffato come un pulcino, lei era seduta a gambe incrociate sul
gabinetto e
gli porgeva una tazza di caffè con un sorriso che non aveva
nulla di
rassicurante.
-La tua stronzaggine non ha confini- le vomitò addosso
prendendosi il
caffè.
-Grazie. Anche la tua- espletati quei pochi convenevoli del buongiorno,
lo lasciò da solo per dargli modo di riprendere contatto col
mondo.
Dopo parecchi minuti al suo arrivo in cucina Manuel trovò
due toast al
prosciutto e formaggio, una mela,
spremuta d’arancia e altro caffè
già caldo. Kate voleva farsi perdonare
per averlo pressato. Aveva indossato esattamente quello che lei aveva
preparato
sul letto, comprese mutande e calzini coordinati, non aveva voglia di
stare a
cercare delle alternative e alla fine aveva divorato tutto
ciò che c’era sul
tavolo sotto il suo sguardo vigile. Quando uscì le
baciò la guancia e le
promise che l’avrebbe chiamata prima di pranzo.
Al suo arrivo in ufficio c’era un discreto caos, a breve ci
sarebbe
stata un’importante asta di gioielli appartenuti a dive
famose del passato,
roba che attirava gente dai quattro angoli del pianeta. Per queste aste
c’era
sempre un gran casino, soprattutto alle pubbliche relazioni.
Fortunatamente il
suo studio era al secondo piano.
Verso le nove quasi tutti i suoi colleghi erano già arrivati
e
ciondolavano per i corridoi recuperando la posta cartacea o il
materiale per il
meeting organizzativo della mattina. Presentarsi impreparati
all’appuntamento
del mattino per la sua capo reparto era considerato alla stregua di un
peccato mortale,
ma dopo tre anni sotto il suo comando aveva smesso di mettergli paura.
Da Sotheby’s la gerarchia aziendale era estremamente
complessa ma
soprattutto estremamente importante. Era entrato come catalogatore
all’assunzione, poi era riuscito a farsi notare dalla
Sullivan grazie ad alcuni
agganci con un collezionista di Milano, e da lì la sua
carriera era decollata.
Mrs. Sullivan era il suo diretto superiore, nonché capo del
dipartimento
di arte contemporanea, era un’americana mostruosamente lucida
per l’età che
aveva: non che qualcuno la sapesse con precisione, ma dimostrava di
aver
superato la settantina da un po’. Era una donna
d’altri tempi, tutta d’un
pezzo, severa e meticolosa, una che sapeva il fatto suo. Lavorava
là dentro
praticamente da sempre ed era considerata uno dei massimi esperti
d’avanguardie
artistiche del mondo. Per quanto anziana apparisse, era assolutamente
al passo
con i tempi masticava
di tecnologia
molto più di alcuni dei suoi collaboratori, tanto che non
riusciva mai a
separarsi dal suo Ipad, al contrario di Manuel che lo perdeva di
continuo. I
primi tempi l’aveva trovata spaventosa: varcava ogni giorno
le porte
dell’ufficio alle 9.30 precise, con addosso degli
agghiaccianti completini colorati
che facevano invidia solo alla Regina e maltrattava la sua segretaria
personale
come una nazista. Poi però aveva preso confidenza e scorto
l’animo progressista
che la manteneva sulla cresta dell’onda da oltre
trent’anni. Quella donna aveva
portato ad un asta il primo Fontana di Sotheby’s contro il
parere di tutti e ne
aveva ricavato oltre 50.000 dollari.
I suoi meeting delle dieci erano molto temuti, revisionava
personalmente
il lavoro di tutti e dettava precise istruzioni ad ognuno dei suoi
collaboratori con tono pacato e al tempo stesso dispotico, era una a
cui non si
poteva disobbedire. Sceglieva personalmente i propri sottoposti e a
chiunque
bastava dare uno sguardo dentro gli uffici del dipartimento per capire
che
dietro i tailleurini colorati e le collane di perle, in quella donna
dimorava
una mente perversa.
Oltre a Manuel aveva tre colleghi e una segretaria personale, tra i
quali lui faceva quasi la figura del perfetto bravo ragazzo.
La più appariscente era di certo Missy, la gothic queen, un
essere di
dubbio gusto perennemente truccata come un’inquietante
bambola di porcellana e
vestita come la schiava sessuale di un impiegato giapponese con la
perversione
delle cameriere vittoriane e dei merletti. Al lavoro, o
almeno negli eventi importanti, sapeva
contenersi e indossare abiti meno appariscenti, senza mai negarsi
però
accessori pieni di pizzi e ammennicoli rigorosamente neri, il preferito
di
Manuel era l’ombrellino parasole di pizzo nero, un tocco di
stile per mantenere
la carnagione lattea. Dimostrava molti meno anni dei trentasei che
risultavano
all’anagrafe grazie al trucco e all’aria svagata da
bambolina, e ovviamente
scatenava gli istinti peggiori di tutti gli uomini del loro piano.
Manuel si
trovava molto bene con lei, era intelligente e preparata, anche se con
lei si
poteva parlare quasi solo di lavoro perché ogni altro
argomento scadeva in
qualche gothic band che lei adorava,
confrontati a lei gli altri due erano apparentemente
normali.
Apparentemente.
Robert era il dirimpettaio della scrivania di Manuel, un quarantenne di
media statura, media corporatura, media bellezza e medio interesse,
sposato con
un’insegnante di scuola elementare brutta come un porcospino,
con un figlio
altrettanto mediocre. Il giorno che si erano conosciuti aveva creduto
di
trovare il lui il collega sano di mente che non aveva visto in Missy,
invece dopo
pochi giorni si rassegnò vedendolo lavorare. Rob era un
ossessivo compulsivo
dell’ordine, la sua scrivania era inquietante, completamente
bianca, con la
corrispondenza allineata per data in un contenitore, le matite,
rigorosamente
sei e rigorosamente temperate della stessa lunghezza, in un contenitore
diverso
dalle penne, tutte rigorosamente nere. I cassetti con adesivi per
identificarne
il contenuto, tre contenitori per la raccolta differenziata e uno spray
igienizzante con cui ogni mattina puliva telefono, mouse e tastiera.
Confrontata a quella di Manuel, su cui regnava la filosofia
dell’accatastamento compulsivo e troneggiava un cactus mezzo
morto (regalo di
Kate), sembravano quasi due uffici diversi. Certo se avesse dovuto
scegliere
forse tra i due avrebbe preferito Missy e le sue penne glitterate.
Il pregio assoluto di Rob era la memoria visiva, tante volte se
qualcuno
non ricordava la collocazione di un opera in questo o quel magazzino
passava da
lui prima che dal computer perché era molto più
veloce della ricerca nel
software aziendale. Il
difetto più grave
era la tediosa insistenza con cui ad ogni pausa pranzo cercava di
convincere
Manuel a riordinare la scrivania.
E infine c’era il francese Julien, aveva pochi anni
più di lui ma
nonostante questo non avevano legato granchè. Era un uomo
distinto, sempre in
giacca e cravatta, barba fatta in giornata e i capelli biondi pettinati
con
cura, aveva lavorato alla sede di Parigi per qualche anno poi si era
trasferito
qualche mese dopo l’arrivo di Manuel. Ovviamente
approdò direttamente all’apice
della scala dei collaboratori per la sua precedente esperienza; non era
molto
preciso sul lavoro, spesso tralasciava particolari importanti, ma
soprattutto
era uno che non sapeva assumersi le responsabilità. Non
faceva altro che
scaricare i propri errori sulle spalle di altri, attribuendo a loro le
sue
mancanze, per questo Manuel non lo tollerava. Proprio non poteva
vederlo e il
loro rapporto ne aveva risentito parecchio, al punto che anche Julien
non
vedeva Manuel di buon occhio e quindi per tacito accordo cercavano di
interagire il meno possibile fino quasi ad evitarsi.
Oltre a questi strani soggetti, c’era Kendra la segretaria
martoriata
dalla nazista e a mesi alterni ogni dipartimento ospitava degli
stagisti da
varie università o dal Sotheby’s Institute of Art,
lo stesso in cui si era
specializzato lui.
Quella mattina Missy presentò la valutazione di alcuni
lavori di nuovi
artisti russi, Julien e Rob si stavano occupando della preparazione del
catalogo dell’asta prevista per giugno mentre Manuel era
stato incaricato già
da due settimane di seguire il prestito di un loro cliente ad una
galleria di
Liverpool per una mostra. Era un lavoro tedioso e poco entusiasmante,
fatto di
controlli telefonate e continui sopralluoghi, ma almeno era da solo,
lavorare
in gruppo con quegli scoppiati era sempre un rischio.
Fu una mattinata di telefonate, prima al museo di Liverpool, poi per
rassicurare il cliente ed infine per organizzare il rientro
dell’opera alla
sede originale. Mrs. Sullivan lo chiamò verso mezzogiorno
nel suo studio per
affidargli un altro incarico simile: sarebbe dovuto andare ad Amsterdam
per
controllare il prestito di
un loro
cliente ad una mostra per una serata di beneficenza. Altro lavoro
noioso, ma
almeno c’era il diversivo della trasferta.
Prima di uscire dallo studio del capo gli venne in mente
l’argomento per
il quale Kate lo tormentava da due settimane e decise di tastare il
terreno
prima di prendere una decisione definitiva.
-Mi scusi capo, ha un minuto? Dovrei chiederle una cosa-
Mrs. Sullivan lo guardò con discreto stupore. Lo conosceva
abbastanza
per sapere che Manuel era uno di poche parole e che di rado andava ad
importunarla per qualche sciocchezza.
-Sì, su siedi- e lo invitò ad accomodarsi su una
delle sedie trasparenti
di fronte alla sua scrivania: -Hai problemi con quelli di Liverpool?-
-No affatto, è una questione personale- fece una piccola
pausa, colto da
un accenno d’imbarazzo, era la prima volta che le si
rivolgeva con una
richiesta del genere: -Avrei bisogno di alcuni giorni di ferie-
Anche Mrs. Sullivan colse evidentemente il suo imbarazzo ma non fece
molto
per metterlo a suo agio, solo gli fece segno di proseguire.
-Da l’anno scorso ho accumulato molti giorni di ferie, solo
in via
ipotetica, potrei usarli dopo l’asta serale di giugno?-
-Certo. Dovremo accordarci sul periodo con precisione, ma non vedo
ostacoli
alla tua richiesta- accennò un sorriso senza troppo calore,
piuttosto lo
squadrò con attenzione: -Non hai mai fatto richieste di
questo genere. C’è
qualcosa che ti preoccupa?-
-No nessun problema: ho due amici che si sposano in Italia e vorrei
approfittarne per portare un po’ mio padre a casa-
In realtà di problemi e situazioni che lo preoccupavano ce
n’erano una
valanga ne suo padre aveva mai avuto bisogno di lui per farsi una
vacanza, ma
non era il caso di metterla al corrente. Quella donna sapeva essere
molto
impicciona.
-Saggia decisione. Non ci torni molto spesso mi pare?-
-Non ho più molto per cui tornare là ormai-
A Mrs. Sullivan non sfuggì la sottile malinconia che aveva
velato la sua
ultima frase, eppure non gli diede modo di capirlo. Ammirava Manuel,
era uno
dei migliori degli ultimi anni, ed erano anni che lo vedeva lavorare
sodo con
precisione e professionalità, per questo gli avrebbe
concesso le ferie senza
opporsi e magari avrebbe trovato anche un lavoretto da svolgere in
Italia per
gratificarlo un po’.
-Fammi sapere quando questa ipotesi diventerà qualcosa di
più preciso-
Si congedarono e Manuel tornò alle sue telefonate ancora
pieno di dubbi
su questo ritorno in Italia.
Da Liverpool gli scrissero che l’opera era già in
viaggio, e per il resto
della giornata si occupò di organizzare la nuova trasferta.
Ci sono molti
protocolli di sicurezza da rispettare per muovere un quadro che vale
svariati
zeri, assicurazioni, firme, autorizzazioni: tutta roba che richiedeva
troppa
carta e pazienza per i gusti di Manuel anche se ormai ci navigava in
mezzo da
tempo ed aveva imparato ad orientarsi. In più
c’era la serata di beneficenza a
cui Manuel a quel punto sarebbe stato costretto a partecipare. Doveva
pure ripescare
un abito decente dal casino del suo armadio.
Come quasi tutti i giorni Kate lo raggiunse per pranzo. Vivendo
lì da
molti anni, si era pian piano plasmato sulle abitudini inglesi: al di
là degli
stereotipi da thè e fish and chips, una delle consuetudini a
cui aveva aderito
con più entusiasmo era quella di consumare i pasti fuori.
Sua madre sarebbe
inorridita al pensiero, e Sonia pure, ma lui e Kate come la maggior
parte dei
giovani londinesi, mangiavano quasi tutti i giorni fuori casa. A lui
piaceva il
thai o il messicano e odiava il macrobiotico, sebbene non disdegnasse
le
preferenze di Kate per il vegetariano. L’unica regola che si
erano comunemente
imposti era il pranzo domenicale, quello doveva essere rigorosamente
homemade
come nella migliore tradizione italiana: niente take away da Subways o
cinese a
domicilio, a turno cucinavano in casa, e le domeniche in cui Manuel si
metteva
ai fornelli richiamavano gran parte dei loro amici.
Quel giorno scelsero un bistro vicino a Sotheby’s
perché doveva tornare
in ufficio quanto prima, mentre Kate si sarebbe data allo shopping in
Carnaby
street.
Ordinarono un’insalata di pollo lui e pasta lei -Manu si
rifiutava da
anni di mangiare pasta che non fosse cucinata a lui-, poi lo travolse
con le chiacchiere
sulla nuova relazione di Andrew, uno dei loro migliori amici.
-Parlando di relazioni ambigue, vorrei farti una proposta..-
-Non ci vengo a letto con te, ci abbiamo già provato ed
è stato un
disastro- Manu le rispose senza nemmeno alzare gli occhi dal bicchiere
e si
guadagnò un calcio in uno stinco da manuale.
-Idiota- sibilò lei tra i denti e riprese a ciarlare come se
lui non
fosse piegato in due dal dolore con le lacrime agli occhi, -Visto che
io non
sono mai stata in Italia, quando e se
andremo a quel matrimonio, potremmo rimanere qualche giorno in
più e visitare
Venezia no!?-
Manuel tra i gemiti di dolore riuscì a fulminarla e zittirla
per appena
tre secondi.
-Ho controllato su Google Maps e non è lontana da Verona-
insistette
lei.
-Lo so- constatò lapidario prima di afferrare il bicchiere
colmo di
vino.
Ci furono attimi di tensione, in cui si limitarono a guardarsi negli
occhi. Kate sapeva di aver già vinto, Venezia, Roma, Firenze
e tutte le città
d’arte erano uno dei suoi nervi scoperti, se avesse voluto
davvero vincere con
un colpo da maestra le sarebbe bastato nominare la Cappella Sistina.
-Potremo noleggiare una macchina e andar..-
-No, andare in macchina a Venezia è un incubo- la interruppe
subito
senza rendersi conto di essere caduto nella sua rete: -In treno ci
vuole meno
di un’ora-.
Kate rise sotto i baffi.
-Promettimi che ci penserai- mormorò con gli occhi dolci e
sbattendo le
ciglia come colpo di grazia.
Manuel grugnì invece di rispondere e si avventò
sulla sua insalata di
pollo.
Circa una settimana dopo la conversazione con la Sullivan, suo padre
chiamò a casa.
Fu Kate a rispondere, ma gli fu chiaro già dalle prime
battute chi ci
fosse dall’altro lato dell’apparecchio. Sergio
Bressan non era un uomo che
mollava facilmente, soprattutto dopo che si era fissato con qualcosa,
in questo
caso con un fottuto matrimonio. Ora poi che aveva l’appoggio
di Kate sarebbe
diventato insostenibile.
-Lo so, lo so, è testardo e ostinato. Vedrai che tu
riuscirai a farlo
ragionare-
Certo come no!
La voce di Kate rimbombava lungo tutto il corridoio, la poteva sentire
dal bagno con il rubinetto acceso. Sapeva che stavano parlando di lui,
e sapeva
che presto Kate avrebbe fatto irruzione senza bussare, quindi
finì di farsi la
barba alla svelta e assicurò il nodo della cinta
dell’accappatoio. Non che ci
fosse nulla che lei non avesse già visto, ma almeno a lui un
po’ di pudore era
rimasto.
Come aveva previsto la sentì avvicinarsi e irrompere in
bagno con il
cordless stretto contro la spalla e un toast nella padella.
-E hai già chiamato? Se hai bisogno di una mano posso fare
io qualche
telefonata – nella piccola pausa per la replica di suo padre,
Kate gli ficcò il
toast in bocca con violenza – Non se ne parla Sergio. Veniamo
a prenderti noi
la sera prima del volo, e non discutere. Te lo passo subito. Baci-
Manuel ancora agonizzante per aver ricevuto la colazione bollente
direttamente in gola, si ritrovò anche con il telefono
piantato nella spalla e
suo padre dall’altra parte che gli urlava di essere un amico
degenere e un
figlio ingrato. Come
se non sapesse che
alla fine avrebbe ceduto.
-Fafà fafami farfare-
-Cosa?-
Si levò il toast dai denti e tornò in camera sua:
-Lasciami parlare-
-Ti ascolto-
Da quando vivevano entrambi in Inghilterra avevano preso a parlare in
inglese anche tra loro, solo quando litigavano o non volevano
coinvolgere Kate
nella conversazione parlavano in italiano. Oramai era raro anche solo
che
pensasse qualche parola in italiano.
-Non ho detto che non ci andremo, solo devo organizzarmi. Lo sai che ho
molti impegni, la prossima settimana sono ad Amsterdam e poi
c’è il catalogo
dell’asta serale di giugno da preparare, in più
temo che non sia il periodo
adatto per chiedere delle ferie. C’è un
ridimensionamento in corso in ufficio-
tutte balle ovviamente ma non poteva che mostrare un piccolo spiraglio
di buone
intenzioni, per poi usare l’arma del lavoro come scudo.
-Io intanto ho confermato il volo-
-Come? Ma perché dannazione ve ne fregate tutti dei miei
impegni?!-
-E’ solo una precauzione, così potremo spendere
meno. Hai parlato con
Jack?-
-No-
-Allora vedrai che ti manderà una mail entro il finesettimana. Vogliono che
tu vada anche
all’addio al celibato-
-Sì certo! Ma sono tutti disoccupati in quella
città di merda?! E poi tu
come fai a saperlo?-
-Mi ha chiamato Jack per accertarsi che le partecipazioni fossero
arrivate. Non farne un dramma. Ho prenotato per il 5, perché
l’addio al
celibato sarà il sabato prima del matrimonio.
Così magari puoi portare Kate un
po’ in giro-
Ovviamente l’idea di Venezia non era solo farina del sacco di
Kate.
-Siete una coppia di stronzi-
-Anch’io ti voglio bene figliolo. Bacia Kate da parte mia-
Odiava sentirsi una pedina nelle mani d’altri. Ora come ora
la trasferta
ad Amsterdam era la cosa migliore che potesse capitargli. E poi aveva
ancora
quasi due mesi per decidere.
Inutile
spazio autrice:
Ebbene rieccoci qui. Veramente non ho molto da dire se non che attendo
con ansia i vostri commenti.
Lo so che in questo capitolo non succede niente di eccezionale, ma
volevo presentare bene la situazione prima di addentrarmi nelle
vicende, e in questo caso bene conoscerla per comprendere. I
capitoli, per quanto sarà possibile, seguiranno le vicende
dei protagonisti alternandone il 'famoso' pov anche se non ho alcuna
intenzione di modificare il mio stile, mi serviva per mostrarvi come si
solo evolute le vite dei personaggi.
I capitoli saranno mediamente di questa lunghezza quindi mi ci
vorrà del tempo per scriverli ed editarli decentemente, non
aspettatevi aggiornamenti regolari. E' tutto ciò che posso
offrirvi se vorrete seguirmi. Non so che diamine stia succedendo ad
Nvu, ma il capitolo non appare come vorrei, ci ho provato per un po' ma
le mie doti di grafica sono nulle. Sorry.
Grazie in anticipo a tutti quelli che recensiranno e a tutti quelli che
hanno letto.
1Bacio. Vale.
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