DISCLAIMER
Questa
è una fan
fiction:
molti dei personaggi coinvolti non mi appartengono, ma sono proprietà
dei rispettivi autori; per una lista dettagliata (verrà via via
aggiornata): [SPOLER,
ATTENZIONE, SCONSIGLIATO LEGGERE]
LISTA PERSONAGGI ALTRUI /ATTRIBUZIONI
Capitolo 2: Stelle Cadenti.
“Inutile epiteto per far sembrare una cosa di
fatto terrificante come fosse, invece, quasi epica. No.
Epica un cazzo.” “A cadere ci si fa solo male al
culo.”
-
-
“Buondì.”
-
Buondì, rispose mentalmente lui. Ma non aprì gli occhi.
-
Continuava a pensare che, in fondo, dormire fosse la cosa migliore
da fare. Forse era l'unica che sapeva fare – di sicuro gli
riusciva particolarmente bene. Un lontano pensiero gli suggeriva che
questa era una strategia sbagliata, considerato che l'ultima volta
si era dimostrata più che fallibile.
-
Ma c'era qualcosa di diverso, qualcosa che lasciava aperto lo
spiraglio delle possibilità – ovvero il poter continuare a
dormire.
-
Dicono che chi dorme molto, se non malato fisicamente, è depresso.
-
Lui non si sentiva depresso, o almeno nulla gli faceva pensare di
esserlo. Forse lo era, dato che non ricordava nulla – magari non
ricordava di essere depresso –, e, per certi versi, si rendeva
conto di sapere molto poco, il che avrebbe effettivamente potuto
deprimerlo.
-
La storia della depressione, però, la sapeva. Un punto in più
per... …. per lui.
-
“Io non penso che tu possa dormire per sempre, ed anzi, da che ne
so dovresti essere già ben che sveglio. Sono passati a controllarti
meno di cinque minuti fa.”
-
“In cinque minuti ci si può riaddormentare.” rispose il
ragazzo, tradendosi più che consciamente.
-
“Buondì, dunque.”
-
“Buondì.”
-
Ma rimase con gli occhi chiusi. Forse, si disse, era un modo per
nascondersi dalla realtà in cui si era ritrovato.
-
Forse ne sapeva, prima, di queste cose: per questo continuava ad
elucubrare in merito. Magari aveva qualcosa a che fare con la
psicologia. O con la filosofia. O con entrambe.
-
O con nessuna, realizzò – aprì gli occhi, turbato da quel suo
ultimo pensiero: e se ciò che credeva di sapere, invece, non
esisteva? Se erano parole prive di significato, frutto della sua
mente? Era quella la sua storia? No, una storia era un
susseguirsi di eventi, di cose, di fatti. Queste erano solo piccole
luci nel suo universo, bagliori di conoscenza. Reale o fittizia?
-
“Esiste la psicologia?” domandò, di colpo, in un sol
fiato: solo poi levò gli occhi sulla persona lì presente,
scoprendo che non era affatto il medico con cui aveva discusso...
prima. Non sapeva quantificare quanto prima, ma poco importava.
-
“Certo, è – diciamo – lo studio della mente umana.” rispose
quello, con un sorriso accondiscendente.
-
Il ragazzo osservò il suo nuovo interlocutore, notando che aveva
poco o niente a che vedere con il medico: era grosso, anzitutto, e
abbondante di muscoli; leggermente alto, ma non troppo – il medico
pareva allampanato, in confronto – : ma, alla fine, il tratto
distintivo non poteva che non essere la lunga barba castana
contornata da altrettanto lunghi capelli, sconsideratamente folti e
voluminosi. La sua voce era bassa e confortante.
-
“Ed esiste il rugby?” domandò poi il ragazzo, dopo
averlo osservato per qualche istante.
-
L'uomo abbozzò una risata, roboante, che si quietò rapida in un
sorriso largo sui denti banchi e dritti.
-
“Sì, certo. Non sei il primo a darmi del giocatore di rugby. E'
bello sapere che tutti si ricordano del rugby – ma no, non gioco a
rugby.”
-
Preso in contropiede, il ragazzo lo osservò muto per qualche altro
istante.
-
“Forse dovresti pensare di iniziare.” concluse.
-
“Sì, forse dovrei.” annuì l'altro, sedendosi. “Allora, io mi
chiamo Sib. Tu?”
-
“Boh.”
-
“Seriamente?” fece quello, perplesso.
-
Evidentemente era un'opzione possibile, per quanto ai limiti, vista
l'espressione di Sib. Il ragazzo corresse rapidamente il tiro,
spiegando:
-
“Nel senso che non me lo ricordo.”
-
“Intendo quello della tua storia.”
-
“Uh.” mormorò, aggrottando le sopracciglia. “A quanto pare
non ho una storia.”
-
“A quanto pare?”
-
“Ne avevo parlato prima – non so quanto prima – con il
medico.”
-
“Quale medico?”
-
Il ragazzo tacque un istante, riconoscendo nel tono una vaga
sorpresa. Non stava chiedendo 'chi?', ma piuttosto 'come/perchè
diamine tu hai parlato con un medico?' .
-
Non serviva essere particolarmente lucidi per realizzarlo.
-
E a dire il vero, ora come ora, il ragazzo si sentiva decisamente
poco lucido: i dubbi si susseguivano. Forse non esisteva
medico? Se lo era immaginato?
-
Fantastico, quindi era anche fuori di testa, oltre che depresso.
Oppure le due cose andavano di pari passo.
-
Sib, vedendolo disorientato, giunse in suo soccorso: “Alto, volto
irregolare, fronte ampia, burbero, ti ha chiesto della tua storia?”
-
“Sì.” rispose il ragazzo, in un sospiro di sollievo.
-
“Ah. Quel medico. Non ti preoccupare, dunque. Andiamo
avanti.”
-
“Cos'ha che non va?” domandò invece l'altro, preoccupato.
-
“Niente di particolare, puoi stare tranquillo. Semplicemente non
è un medico.”
-
“Perché” – irruppe una voce, roca, dalla porta – “ti
ostini a sabotare i miei metodi di comunicazione con i novellini?”
-
Il ragazzo, sollevando il busto, vide la figura del
medico-non-medico avvicinarsi a lui, comparso dal nulla.
-
“Quindi tu non sei un medico.” fece il giovane, lentamente,
quasi volesse convincersi della cosa.
-
“Non ufficialmente. Diciamo che aiuto.”
-
“Piantala con questa storia, Serge.” lo ammonì Sib, roteando
gli occhi. “Poi si capisce perché i nuovi sono disorientati. Eri
appostato? Origliavi?”
-
Serge rimase lì, in piedi, scrutando i due, senza dar risposta.
-
“Sì, ovviamente.” si rispose da solo Sib.
-
Silenzio, ancora.
-
“Serge, per favore” – un 'per favore' non molto educato
– “puoi andartene così posso fare il mio lavoro?”
-
“Nessuno vieta che io stia qui” ribatté l'altro. “Così
possiamo lavorare in due – sinergia, Sib. Vedrai che
efficacia.”
-
“Certo, sinergia, infatti non ti sei nemmeno degnato di
darmi il rapporto sulla storia del ragazzo.”
-
“Il ragazzo non ha una storia.” tagliò corto Serge.
-
“A maggior ragione...” rincarò Sib, i denti stretti in
quello che quasi pareva un ringhio.
-
“Stavo facendo ricerche in merito, per la cronaca. Il mio
lavoro. Bastava che aspettassi il rapporto, felix.”
-
Nella vignetta, il ragazzo si era messo maldestramente a sedere,
ascoltando interessato lo scambio di battute fra i due. Pro: pareva
esserci un'organizzazione, dietro a tutto questo marasma in cui si
trovava. Contro: Serge non era un medico.
-
“Andiamo avanti, allora.” riprese Sib, con l'aria di chi più
che un rospo ha ingoiato una vacca, per giunta gravida. “Facciamo
questa cosa della sinergia.” Marcò l'ultima parla con
palese disappunto incredulo, e si voltò verso il ragazzo. Cercò,
dunque, di riprendere con metodo quanto iniziato prima: “Sei senza
nome, il che è normale. Di solito estrapoliamo un nuovo nome da
quello della tua storia, almeno per iniziare ad avere un riferimento
– ma se quanto riferito qui da Serge è vero, sei senza storia, il
che ci complica la faccenda.”
-
“Tutto questo caos per un nome?” domandò il ragazzo, perplesso.
“E' solo un nome.”
-
“E' importante.” rispose Sib, calmo e quasi paterno “Se inizi
dal nome hai un punto per costruire chi sei. Se è, diciamo, 'uguale
ma diverso' al nome che avevi nella tua storia, ti aiuta a
dissociarti da essa in modo meno traumatico.”
-
“Tanto, poi, nessuno si dissocia dalla sua storia” interruppe
Serge. “Pippe mentali che non servono a niente.”
-
“Grazie, Serge, il tuo contributo è molto sinergico.”
-
Il ragazzo espirò, confuso, ma determinato a risolvere quanto prima
la questione. Non voleva farsi bloccare da un semplice nome. Voleva
andare avanti, aveva bisogno di saperne di più: e tutto lasciava
intendere che ci sarebbe voluto tempo, un sacco di tempo, che non
voleva perdere così scioccamente.
-
“Posso chiamarmi Bianco e la finiamo là?”
-
“Bianco?” domandò perplesso Sib. Serge, divertito, annuiva.
-
“Boh. La stanza è bianca, è la prima cosa che mi è venuta in
mente. Magari posso chiamarmi Rugby, se Bianco non ti piace. A me
non interessa.”
-
“Pragmatico, il ragazzo” commentò Serge.
-
“Senti” fece Sib, sospirando pazientemente “non puoi avere un
nome così casuale. Voglio dire, alla lunga bisogna anche
considerare le implicazioni sociali...”
-
“Sib, lascialo chiamarsi Rugby. E' fico.”
-
Sib sfiatò, esausto a causa della compagnia di Serge: portò lo
sguardo sul ragazzo, guardandolo dritto negli occhi:
-
“Vuoi veramente chiamarti Rugby? Ne sei certo?”
-
Il ragazzo non rispose.
-
Adesso iniziava ad avere dei dubbi.
-
“Va bene” ammise infine il giovane “forse è un po' troppo
frettolosa, come scelta. Tirata a caso. Ma non ho una storia, quindi
non ho bisogno di slegarmi da qualcosa che non ho, no? Non è poi
così importante, da quel punto di vista. Forse lo è da, quello che
hai detto tuo, il punto di vista sociale. A dire il vero non so
quali siano nomi 'socialmente accettabili'. Aiutatemi voi.”
-
Serge e Sib si guardarono, improvvisamente carichi di una
responsabilità più gravosa del solito.
-
Di norma, l'iter che affrontavano con i nuovi era leggermente
diverso: si iniziava convincendoli che no, la loro storia non
era vera – compito semplificato dal fatto che lentamente i ricordi
in merito si facevano sempre più vaghi. Entro qualche ora si era
riusciti a spiegargli in che condizione si trovavano, e che
avrebbero dovuto iniziare un percorso di reinserimento nella società
piuttosto prolisso. Nella ricerca del nome erano sempre
collaborativi e tranquilli – non che il ragazzo si stesse
dimostrando poco collaborativo, anzi, ma per allora Serge avrebbe
già dovuto dargli una rapida infarinata riguardo la loro infezione,
il loro passato ed il loro futuro.
-
Qui, il disgraziato, continuava a brancolare nel buio: a conti fatti
c'era da stupirsi che si fidasse di loro due.
-
Alcuni tentavano di scappare, all'inizio – più volte Sib le aveva
prese (più raramente rese) da qualcuno intento a cercare
un'ipotetica libertà. Libertà che non esisteva, a meno di tentare
un suicidio. Da quel mondo non si scappava. Dalla realtà non
si scappava.
-
Ma no, il ragazzo, nonostante fosse ancora all'oscuro della
questione principale, era più che collaborativo.
-
Sin troppo collaborativo.
-
Forse era proprio perché non aveva una storia.
-
“Sai...” ammise infine Sib “In genere ci limitiamo ad
anagrammare il nome della storia finché non ne esce qualcosa che
agli altri suona orecchiabile e civile.”
-
“... ok.” fece il ragazzo, senza tradire alcuna delusione in
merito: voleva davvero solo chiudere la faccenda quanto prima –
era più che evidente.
-
“Quindi...” cercò si riprendere Sib, mentre pensava ad una
strategia alternativa.
-
“Anagramma Rugby e Bianco, allora. Tanto fa... le lettere sono
solo lettere, alla fine.”
-
Sib fece per sospirare profondamente, ma Serge lo interruppe prima
ancora che potesse finire d'inspirare: “Bair.”
-
“Bair?” fece il ragazzo
-
“O, se vuoi complicarti la vita, Bayir.”
-
“Bayir.” ripetè quello, marcando la 'y' aggiunta. “Bayir.
Sì. Ok.”
-
“Va bene?”
-
“Bene. Benissimo.”
-
“Bayir...” sembrò masticare Sib. “Ok...”
-
“Fatto?” domandò Bayir.
-
“Fatto.” fece Sib, annuendo perplesso, come fosse deluso dalla
semplicità in cui si era risolta la cosa. “Adesso hai un nome.”
Ma, in fondo, era solamente un problema in meno.
-
-
***
L'aria fredda dell'esterno giungeva a lei in una bava di vento, una
vaghissima brezza che si infilava nella mastodontica galleria in cui
camminava. Poche centinaia di metri, da percorrere su di un cemento
leggermente accidentato, e si sarebbe ritrovata all'aria aperta,
circondata dalla vegetazione scheletrica della tundra autunnale. Che
immensa forza, però, trasparivano quegli arbusti rachitici. Il
terreno, duro, sembrava essere sterile – eppure no, v'era
qualcosa, v'era di che a sufficienza da lasciar vivere quelle
piante, insistenti ed ostinate. La tundra non era affatto
sterile, si ripeteva lei – e lo ben sapeva: d'estate, poi, per
quei due mesi in cui la tundra viveva, era magia pura. Sorrise
leggermente nel riscoprirsi a rinnovare tal pensiero, mentre copriva
gli ultimi metri che la separavano dall'esterno. La giubba che
portava, lunga e squadrata, era fatta apposta per uscire all'aperto:
Tessera, la città, se ne stava sotto. La gente preferiva non
uscire, normalmente. Questo faceva sì che, in quel che lei
riteneva un paradosso, fosse assai più semplice organizzare gli
incontri alla luce del sole. C'era qualcosa di sbagliato, in
questa dinamica. Di solito era il contrario. Era sempre stato
il contrario. Tranne che a Tessera, evidentemente. “Tu pensi
troppo.” Sussultò, colta di sorpresa – tanto da rischiare di
perdere la presa sulla sacca che portava con sé –, voltando con
uno scatto il capo verso la figura che l'aveva affiancata nel suo
incedere. Inspirò profondamente, cercando di calmarsi, dopo averlo
riconosciuto. “La cosa ti dà fastidio?” rispose all'uomo,
con un certo astio – un po' forzato. “Fai interferenza.” si
limitò a rispondere quello, il quale, dal passo più lungo, la
superò come se nulla fosse. La ragazza si morse le labbra,
infastidita dall'aver concesso così facilmente l'ultima parola
all'altro. Ne osservò la schiena per qualche istante, finché non
venne, finalmente, investita dalla luce del sole. Si fermò,
socchiudendo gli occhi e respirando l'aria gelida
dell'esterno. “Muoviti.” parve ordinarle l'altro, la voce
profonda e greve, senza nemmeno degnarsi di voltarsi. Lei schiuse
le palpebre, roteando gli occhi e riprendendo a camminare. Due
anni che lo conosceva, ed ancora lo percepiva come un estraneo più
che inquietante: anzitutto perché quello si ostinava a rimanere il
più freddo possibile, ed in secondo luogo per quella sua dannata
caratteristica, quel suo passo inumanamente felpato ed impossibile
da percepire – almeno, per lei. Lo considerava quasi un fantasma,
un essere che compariva e scompariva dal nulla e le cui interazioni
si limitavano al minimo indispensabile – salvo, come in questo
caso, dilettarsi in qualche frecciatina gratuita. Sospirò,
riprendendo a camminare, costringendosi a non accelerare il passo
per raggiungerlo. “Hai sentito quelli dell'Unione?” fece, con
un tono sufficientemente alto da farsi sentire, ma non abbastanza da
far intendere di voler essere sentita. In pratica, costrinse l'altro
a tendere le orecchie. “No.” rispose quello, con un tempo di
reazione sufficientemente lungo da farle capire che la tattica era
riuscita. “Dicono che ne hanno trovato uno nuovo, ma non sono
riusciti a prenderlo. ” “Sono degli idioti.” l'uomo aveva,
in minima parte, decelerato. La ragazza riuscì a raggiungerlo:
missione compiuta. Non che lui lo avrebbe mai ammesso. Ma, in
fondo, le informazioni gli interessavano, anche se doveva sorbirsi
la ragazza come tramite. “Sta al centro di
riabilitazione.” “Quelli dell'Unione sono dei coglioni. Sarà
il quarto, questo mese. Non ne hanno tirato su nemmeno uno, in
pratica, quest'anno. – se vanno avanti così, possiamo anche
sospendere la collaborazione.” “Ma bisogna considerare
che...” Quello grugnì, sbuffando. “Lascia perdere.”
tagliò. E il discorso si chiuse, senza un chiaro
motivo. Probabilmente David si era stufato di parlare,
nient'altro. La ragazza sospirò, continuando a pensare mentre
camminava di fianco all'altro. “E' noto che il servizio di
'Consulenza e Sostegno per i Caduti' dell'Unione è molto migliore
di quello dell'Alleanza, le statistiche degli ultimi tre anni –
” “Lascia Perdere è troppo complicato da capire, per
te?” “No, ma, David –” L'uomo grugnì, nuovamente,
sopra al suo nome. La ragazza lo scrutò perplessa, notando il
fastidio al riguardo. “Non eravamo d'accordo di chiamarci con
il nostro vero nome?” domandò, lei per prima incapace di capire
se la domanda era reale o retorica. “Lascia Perdere.” Quella
si fermò, definitivamente inacidita: “Possibile che non si riesca
a fare un discorso coerente con te?!” David, dapprima, non
rispose, continuando ad avanzare. L'altra rimase immobile,
osservandolo allontanarsi. “Muoviti.” fece poi l'uomo. Fu
lei, questa volta, ad emettere una specie di grugno. “Io
non...” “Servizio di Consulenza e Sostegno...” lo sentì
mormorare, scettico. “Sono solo accalappiacani.” “Ma le
–“ “Muoviti!” rincarò. E il discorso, se tal si
potesse definire, terminò.
***
Sib fece per uscire dalla stanza, quando Serge lo
richiamò: “Dove stai andando?” “A fare rapporto –
almeno abbiamo un nome.” “Io devo fare rapporto prima
di te.” “Tu devi fare il tuo lavoro, prima di
fare rapporto.” Bayir, ormai, aveva capito che c'era una
dinamica consolidata nel rapporto tra i due. Una specie di paventato
antagonismo – forzato da Serge ed ogni tanto palleggiato da Sib –
il quale, se di sicuro divertiva il primo, non si poteva escludere
fosse solo una seccatura per il secondo. Bayir – ormai il
ragazzo l'aveva capito – era uno a cui piaceva pensare: al
momento, pensava al motivo per cui si era venuta a creare una
relazione del genere. Poi, di colpo, si rese conto che non stava
prestando attenzione alle cose importanti. O almeno quelle che
sapeva essere importanti: come, ad esempio, capire dove fosse di
preciso e cosa stesse succedendo. Non aveva ancora capito dove si
trovava, a dirla tutta: di certo c'erano solo i medici (ma non
Serge), la psicologia ed il rugby. Quei due potevano essere dei
rapitori, ora che ci ragionava sopra: una stanza apparentemente
d'ospedale non aveva stretta necessità di esserlo. L'idea che
forse era nei guai gli soggiunse relativamente tardi. Per
l'ennesima volta, sapeva che doveva essere preoccupato. Ma non si
preoccupò. E sapeva che il suo non preoccuparsi era
sbagliato. “Allora, prima che tu faccia rapporto, io
faccio il mio lavoro, com'è giusto che sia, e io faccio
rapporto, com'è giusto che sia.” “E così io faccio la
figura del ritardatario perché tu hai perso tempo a fare non
so quali assurde ricerche, o cose del genere – No. Grazie.”
Sib espirò, scuotendo il capo sotto la massa di capelli castani.
“Perdonaci, Bayir.” “Sapete” fece il ragazzo “mi
domando come mai battibecchiate così tanto.” I due lo
scrutarono, atterriti dalla sua sincera curiosità – no, non
ingenua, ma sincera: li osservava con gli occhi di chi scruta
interessato l'agire di due macachi. “Domanda interessante.”
fece Serge, dopo un isto di silenzio. “Forse il nostro psicologo
di fiducia qui presente potrebbe aiutarci. Allora, Sib?” Sib
sfiatò: “Possiamo smettere di divagare?” “Da cosa
stiamo divagando, di preciso?” chiese Bayir, con un accenno di
sorriso in faccia. “Dallo spiegarti come funziona il tutto.
” Serge annuì, storcendo le labbra: Bayir lo scrutò
perplesso, facendo poi spallucce. “Sto ascoltando.” “Sib è
un ottimo narratore.” proruppe Serge “Sarà divertente
ascoltarlo. Io vado.” “Dove?” ringhiò Sib,
inacidito, gli occhi sgranati per lo stress che evidentemente si
doveva provare nell'essere colleghi di Serge. L'altro non
rispose, ma mosse un paio di passi verso l'uscita. Quando gli fu
accanto, posò una mano sulla spalla di Sib: quello sentì tutto il
suo peso premergli sul muscolo –Bayir stesso notò l'innaturalità
del movimento: l'uomo si stava appoggiando a Sib per compiere il
passo successivo. “A prendere il bastone, tanto per
cominciare.” Il passo successivo, che lo divideva dalla porta,
lo compì barcollando. “Serge...” Quello lo ignorò,
girando la maniglia e infilandosi nella stretta apertura che si era
creato – la gamba destra rigida. Bayir lo osservò, le palpebre
quasi chiuse per la concentrazione, cercando di estrapolare qualcosa
di sensato da quanto stava avvenendo. Ma, no, aveva bisogno della
favola: Sib aveva un volto fra l'iracondo ed il preoccupato – la
seconda una sfumatura nuova, nella sua espressione, specie se si
considerava chi era la causa di tal preoccupazione. “Vado a
fare il medico.” concluse Serge, fra il secco e l'esultante, prima
di chiudersi la porta alle spalle. Bayir, che continuava la
politica della silente osservazione, attese. Dopo qualche istante
Sib fece un lungo sospiro, talmente prolisso da sgonfiare del tutto
i suoi probabilmente enormi polmoni. Le spalle gli si incurvarono a
poco a poco, assieme al capo, che andava chinandosi. Rimase in
quella posizione, involuto, per qualche altro momento. “Va
bene...” fece, poi, parlando a sé stesso: inspirò, riacquistando
in un sol respiro tutta la sua altezza e possenza, voltandosi verso
Bayir. “Scusaci. Non è semplice nemmeno per noi – immagino
avrai le idee parecchio confuse.” Bayir si strinse nelle
spalle, sedendo sul letto a gambe incrociate: “Più semplicemente
direi che non ne ho.”
Erano stati chiamati Stelle
Cadenti. Un nome su cui Sib aveva qualcosa da ridire, sebbene
il commento al riguardo fu fatto a voce molto bassa, parlando
praticamente fa sé e sé. La teoria, al momento, sosteneva che
fossero stati infettati da un virus – ignote le modalità del
contagio – che scombinava le loro menti procurandogli un'amnesia,
per quanto se ne sapeva, irreversibile: in compenso forniva loro un
set di ricordi nuovo di zecca, tendenzialmente sconclusionato ed
inverosimile. Come gli aveva detto Serge, era normale trovarli in
stato confusionale o svenuti, per strada, sistematicamente nudi.
Come piovuti dal cielo, figli di un altro mondo, convinti di vivere
in una realtà diversa – ma non troppo – dalla loro. Un
problema che per Bayir non sussisteva, dato che di realtà
alternative a cui fare riferimento non ne aveva affatto. Tutte le
stelle cadenti, o i caduti, erano stati qualcuno, qualcosa –
spesso pure abbastanza importante, da che ne dicevano. Bayir
ascoltava, mentre nel sottofondo della sua mente continuava a
ronzare uno scetticismo inascoltato: era vero? Non era vero? Poteva
fidarsi? Il ragazzo zittiva – anzi, ignorava – la
pseudocoscienza, assorbendo come una spugna. Perché, si chiedeva
ogni tanto, dovrei credere a Sib? Perché gli sto credendo? Dovrei
essere diffidente, andava, lentamente, ripetendosi. Dovrei essere
molto diffidente. Ma, nonostante questi pensieri, avido di
informazioni, ascoltava. E credeva. Cos'altro poteva fare, in
fondo? Qualche certezza, fosse anche quella di non essere nessuno in
un mondo di ignoti, doveva averla. Doveva assorbirla. Voleva una
base. Ascoltava. Riservandosi la possibilità di rinnegare
tutto, un giorno – ma no, non ora.
“Ora come ora ti
ritrovi al Servizio di Consulenza e Sostegno per i caduti
dell'Unione.” la voce di Sib era profonda e confortevole. Parlava
con un tono sì serio, ma anche sconsideratamente dolce. Lo si
guardava in volto, se ne scrutava la massa muscolare, e tutto
lasciava intendere un enorme contraddizione. Una contraddizione
confortante, in fondo: sembrava che quel molosso fosse lì, paterno,
pronto a proteggerti. Non era male, come idea. “Ah, già.”
fece poi l'uomo, come se avesse dimenticato un punto fondamentale
“Il mondo – che, per la cronaca, è circa sferico – ma a ben
pensarci anche su questo in pochi hanno avuto da ridire – dicevo,
il mondo, ora come ora, è diviso in due grandi paesi: l'Unione, il
nostro e l'Alleanza. Negli ultimi decenni le cose vanno
relativamente bene, a parte qualche screzio. Non sono due imperi in
guerra, tanto per intendersi. Non ora.” “Quelli dell'Alleanza
come sono?” domandò il ragazzo, inclinando il capo, le mani
poggiate sulle caviglie. “Come noi. Più o meno. Devi avere
pazienza, ci sono alcune cose fondamentali che devi sapere – e che
si è constatato la maggior parte dei caduti non sa – e sono
parecchie. Resterai al centro di riabilitazione – cioè, qui –
per un po'.” “Quanto po'?” Sib si strinse nelle spalle.
“Dipende da come reagisci. Alcuni escono in due settimane, altri
in sei mesi.” Il ragazzo parve sospirare, nascondendo una vaga
rassegnazione. “Domande?” Bayir levò un sopracciglio,
scrutando Sib: “Troppe.” L'uomo inclinò il capo,
meditabondo. “Ho ancora una ventina di minuti per te – poi devo
andare. Prova.” “Andare a fare cosa?” “Non intendevo
questo genere di domande.” “Ah. Scusa – non volevo
impicciarmi.” Sib si trattenne dal ridacchiare per l'ingenuità
di Bayir: il ragazzo lo vide compiere un paio di sussulti, risate
smorzate che si erano trasformate in un paio di profondi singhiozzi
ed un sorriso sul volto. “Ci sono tanti
Caduti?” “Abbastanza.” “Quanti, nel centro?” “Credo
che avrai cinque o sei compagni 'di studi' . ” “Non mi paiono
tanti – a meno che … quanti abitanti ci sono nel
mondo?” “Una decina di miliardi.” Bayir sapeva
decisamente fare i conti – quando si rese conto di tale abilità,
se ne compiaque tanto da lasciarsi scappare un gaudente
sorriso. “Considerato il tempo medio di permanenza e anche
ammettendo che la gente 'cada' da un centinaio di anni, a occhio è
comunque impossibile raggiungere anche solo l'un per mille della
popolazione – non mi paiono tanti.” Sib sorrise, vedendolo,
entusiasticamente, prodigarsi in tentativi di statistica. “Hai
ragione, ma è abbastanza da poter creare un problema.” Il
ragazzo storse le labbra, dovendo riconoscere che l'altro aveva
ragione. Rimase in silenzio, mentre le domande gli si affollavano
in mente: chi era Sib, anzi tutto? E chi era Serge? Serge lo
incuriosiva di più, considerata la pantomima a cui aveva
assistito. Quello che proprio non gli interessava era chi era
lui, Bayir. Quello non lo scalfiva. Meglio così, si
disse. Ma una domanda più insistente delle altre sgomitò nella
sua testa: “Ma noi non siamo veramente Caduti, direi. No?
Voglio dire... la gente normale è come noi?” “Oh, sì, certo
–” Sib rispose frettolosamente, temendo il seguito. Bayir
tacque ancora un istante, e poi continuò: “Quindi, se l'idea è
che siamo affetti da amnesia, prima dovevamo essere qualcun
altro – sbaglio?” Sib sospirò. “Così pare.” “Quindi
immagino che famiglia, o amici, o conoscenti – qualcuno... noi
abbiamo qualcuno, no?” L'ultimo sospiro di Sib fece
intendere quanto poderosa fosse la capienza dei suoi polmoni. “Ecco
– questo è un punto leggermente delicato.” fece poi, con il
tono di chi sta camminando sulle uova. Cercava disperatamente le
parole per riuscire a dare una risposta che non fosse esattamente
una risposta piena – troppo lungo da spiegare, uno dei problemi
principali era educarli a gestire quel particolare aspetto
della loro esistenza – ma che fosse abbastanza soddisfacente da
non fargli scatenare la tipica valanga di domande che affligge il
Caduto in tal situazione. “Abbi pazienza, Bayir... ti verrà
spiegato.” non era una risposta molto confacente, si rese conto,
man mano che andava pronunciando le parole che la
componevano. “Quindi non c'è nessuno.” concluse il ragazzo.
“Com'è possibile? E' legato al virus? La gente muore? Magari tu e
Serge siete vaccinati?” Sib si alzò, rendendosi conto di non
essere in grado di sostenere oltre la conversazione. “Non è
quello il punto... diciamo che – mh – diciamo che non è
semplice riconoscere un Caduto.” sbuffò. “Ti prego, fai tesoro
di questa piccola informazione ed abbi pazienza.” Bayir scrutò
l'uomo, resosi conto di quanto l'aveva messo in difficoltà. E
poi c'era sempre la vocina, in fondo: chissà, si ripeteva. Chissà
se è vero. La porta si aprì – uno spiraglio da cui comparì
prima un bastone, e poi la testa di Serge. “Scusate se
interrompo –” proruppe, in un tono ben lungi dall'esser
di scuse “ – siete arrivati alla parte dei Caduti, sì?” Sib
assottigliò le palpebre tanto da non aver quasi più luce ad
incontrar le sue pupille. “No, gli ho esposto un trattato di
fisica che spiega in modo ragionevole e incontrovertibile perché il
cielo è blu durante il giorno.” “Ah. Ah. Divertente.”
Serge voltò lo sguardo verso Bayir, fissandolo. “Devo solo dire
una cosa a Bayir, che dico sempre a tutti.” “... prego.”
rassegnato era un eufemismo, per Sib. “Ricorda: a cadere ci si
fa solo che male culo.” La porta si chiuse. Bayir decise
che non valeva la pena di essere confuso già ora, altrimenti
avrebbe passato la sua vita in stato confusionale. Registrò, e
lasciò correre. Sib sospirò.
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[NDA]
Buonsalve. Spero che quanti non hanno letto lo spoiler (spero che
non leggiate lo spoiler =P) abbiano inquadrato qualche piggì.
Vabbé, dai, uno è facile. Ad ogni modo, come promesso, la storia
di ognuno verrà fuori comunque a seguire.
Enjoy.
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