Ombre
C’è un quadro, o forse è semplicemente
una foto sbiadita, nel corridoio che porta all’ufficio di
Scarlet. Si sorprende ad osservarlo per la prima volta, un
po’ per noia, un po’ per lieve
curiosità, mentre preme distrattamente il dorso della mano
contro il mento. E’ un dipinto di piccole dimensioni, antico
forse, perché gli angoli della cornice di legno sono
leggermente consumati dal tempo, ma c’è qualcosa,
nel soggetto ritratto, che l’attrae e la spinge ad
avvicinarsi sempre di più.
Improvvisamente si
accorge che la prima impressione l’ha ingannata, e si rende
conto che quelle che ha scambiato per dense pennellate sono in
realtà le ombre di un gioco di chiaroscuri che domina quella
che riconosce essere una foto. Un sorriso le increspa leggermente gli
angoli del volto, mentre con una mano percorre la scia delle ombre che
tingono l’erba d’ebano. Lentamente, tracciando con
le dita la sagoma dei fusti nodosi di alcuni alberi, riconosce nella
figura una foresta stilizzata, probabilmente avvolta nella fitta bruma
notturna che precede l’aurora. I colori sono scuri, grevi,
dai contorni poco definiti; sembra una foto scattata quasi per caso,
sbadatamente, e orfana del suo creatore: probabilmente, insoddisfatto
del risultato ottenuto, ha preferito sbarazzarsene, buttandola via,
lontano dai suoi occhi. Riesce quasi a vederla, quella fotografia
consunta e logora, sul marciapiede grondante di pioggia di una
città semisconosciuta: abbandonata, derisa, calpestata senza
ritegno da ignoti senza nome né volto. Quasi senza
accorgersene, lievemente, sospira.
Il corridoio
è deserto, silenzioso, immerso nella quieta notte di una
città che non dorme mai davvero. Abbandona lo sguardo dalla
fotografia, di controvoglia, e si ripromette di tornare ad osservarla
in un secondo momento, di giorno, quando la luce – ed il suo
umore – saranno differenti.
Nel
momento in cui lo sente ridere, si risveglia dal torpore che ha
annebbiato i suoi pensieri. Camminano insieme per i vicoli caliginosi
della Midgar notturna, e conversano, di tanto in tanto,
perché Zack è sempre stato un gran chiacchierone.
Camminano
fianco a fianco, alla stessa andatura, gli occhi puntati verso il
grigio intenso dell’oscurità davanti a loro.
Il
ragazzo incrocia le mani dietro la testa, con un gran sorriso spavaldo
che gli illumina il volto; il tono della sua voce è allegro,
spensierato, incurante della missione che stanno svolgendo per conto
della ShinRa: e a Cissnei, dopotutto, quel tono piace. Le ricorda
l’azzurro indefinito del mare, il fragore ritmico delle onde
che s’infrangono leggere sulla battigia, e il soave canto dei
gabbiani che solcano il cielo: la sua voce è blu,
così come i suoi occhi.
Gli
chiede il perché stia ridendo, e lui risponde che non sempre
ci vuole un motivo per fare determinate cose. E’ una risposta
un po’ generica e vaga, ma a Cissnei va bene così,
perché conosce Zack e sa che gli piace vivere sul momento,
nel mondo concreto e pulsante di vita, e non in quello delle idee e
delle illusioni.
Ascolta
il fragore della sua risata e lo compara di nuovo al ritmo implacabile
delle onde. Gli angoli della bocca le si increspano leggermente, come
se un ghigno leggero volesse far da eco al rumore del mare: ma si
accontenta soltanto di osservare, lieta, senza avere particolari
pretese da quella vita che, probabilmente, le ha già dato
tutto quello di cui ha bisogno.
In quel momento
qualcuno chiama a gran voce il suo nome, interrompendo la trama
intricata dei suoi pensieri. Sospira pesantemente, sconfortata, mentre
la fitta nebbia del vicolo scivola via dalla sua mente, confondendosi
con il grigio delle pareti dell’edificio ShinRa.
“Che fai,
dormi?” esclama Reno, avvicinandosi e prendendo posto nel
sedile vuoto accanto a lei.
Cissnei decide di non
rispondere. Non è di malumore, ma ha un insolito e
persistente mal di testa e non è interessata a condividerlo
con il resto del mondo. Il ragazzo le rimane un po’ accanto,
decidendo di rispettare il suo innaturale silenzio; poi, senza che lei
non gli abbia chiesto nulla, le cinge dolcemente le spalle con un
braccio. Sul viso le affiora un sorriso amaro, nonostante cerchi di
nasconderlo agli occhi dell’altro: sa già che, se
gli chiedesse il perché di quel gesto, lui risponderebbe che
non sempre ci vuole un motivo per fare determinate cose.
Alcuni giorni dopo,
ancora una volta, ripercorre a grandi passi il corridoio che porta
all’ufficio di Scarlet. Quasi senza che se ne renda conto,
lascia che la sua attenzione venga catturata nuovamente dal contrasto
cromatico della logora fotografia appesa alla parete: e già
da subito, nella sua mente, non c’è posto per
null’altro che non sia l’intenso chiaroscuro della
selva color seppia.
Il suo umore, in
verità, non è cambiato molto rispetto ai giorni
precedenti; qualche giorno prima si è detta, immersa nei
suoi pensieri, che sarebbe tornata solo quando avrebbe avuto una
prospettiva diversa delle cose, ma ovviamente non è riuscita
a mantenere neppure quella piccola, stupida promessa. E’ di
nuovo lì, ad osservare assorta le pronunciate pieghe
argentee della vecchia e consunta fotografia, presa come non mai,
mentre fuori dall’edificio la pioggia imperversa e spazza via
le pene e i peccati della grande città.
“Ti
piace?” le chiede all’improvviso un uomo, o forse
è un ragazzino un po’ troppo cresciuto, che si
trova a passare per quei corridoi. Cissnei si volta a guardarlo, i
pensieri ancora rivolti alle tiepide zolle di terra avvolte
nell’ombra della foto, senza rispondergli in modo definito.
L’uomo le
dice di chiamarsi Ben, poi le pone nuovamente quella domanda; e, per un
momento, le sue membra sono percorse dal dubbio e dalla confusione, e
la sua voce è incredibilmente incrinata, mentre si ritrova a
biascicare una risposta negativa che la investe con la forza di un
vigoroso soffio di vento.
No, quella fotografia
lacerata in più punti non le piace per nulla: dopotutto, se
l’avesse apprezzata davvero, non ne sarebbe stata
così attratta.
A Ben piace parlare, e
probabilmente a lei piace sentire il suono della sua voce. E’
un gradevole diversivo contro la noia che, come la pioggia, picchia
forte sulle vetrate dell’edificio ShinRa e sui suoi pensieri,
annebbiandoli. Le ha già detto qual è il suo
ruolo nell’azienda, ma gran parte delle sue parole si
è già perso nel fiume impetuoso di
vacuità che senza posa si anima dalla sua bocca. Si limita
soltanto ad ascoltarlo, a volte senza nemmeno avere idea di che cosa
stia dicendo, mentre il formicolio della sua voce si confonde con lo
scroscio pulsante del temporale. Non ha alcun interesse nel cogliere
stralci di conversazioni di vite che non le appartengono: tuttavia,
saltuariamente, si ritrova ad annuire alle sue parole, chiedendosi
perché Ben abbia deciso di condividere una fetta della
propria esistenza con lei, in quello sterile giorno di pioggia, con una
sconosciuta che probamente non vedrà mai più.
E’ una condizione strana, quella degli uomini, si ritrova a
pensare, ma non ha il coraggio di dirlo ad alta voce. Sono pensatori
rivoluzionari, eppure hanno ancora paura di rimanere da soli.
Probabilmente è per questo che Ben ha deciso di parlare con
lei, quel giorno.
Si chiede se ha paura
di rimanere da sola, e, per un momento, in preda
all’illusione, si dice che no, non ha questo timore
perché, in un certo senso, sola lo è sempre
stata. Ma poi, mentre i suoi occhi si perdono
nell’inquietante oscurità che si inframmezza tra i
centenari alberi della fotografia, è costretta ad ammettere
che la solitudine è, soprattutto in quel preciso istante, il
problema più grande che si vede costretta ad affrontare.
Intravede i suoi
lunghi capelli neri dall’alto della scalinata principale
della ShinRa. “Tseng!” esclama di colpo, lasciando
scivolare la mano lungo la sottile balaustra delle scale.
L’uomo si volta, confuso, ma poi la riconosce e le fa un
debole segnale di saluto con la mano, appena accennato, che la invita a
raggiungerlo.
Scende le scale,
lentamente, mentre la sua mano accompagna ancora il grigio opaco del
corrimano di metallo. L’ingresso è rumoroso e
affollato, ma nessun suono giunge alle sue orecchie se non il ritmico
rumore dei suoi leggeri passi sul marmo dell’ingresso.
“Facciamo un
giro.” Propone Tseng, serio, non appena è
abbastanza vicina da poter sentire la sua voce. Non
c’è traccia di sorriso nel suo volto.
Annuendo appena,
comincia a seguirlo fuori dalle alte mura dell’edificio
ShinRa. Ed è nell’esatto momento in cui, quasi
senza volerlo, incrocia lo sguardo con quello serio e imperscrutabile
dell’uomo, che capisce nervosamente che qualcosa è
andato terribilmente storto.
Tseng le cammina
accanto, noncurante della pioggia, mentre la furia di un violento
temporale si abbatte sulla grande e oscura metropoli, piegandola sotto
la sua ferrea ed implacabile volontà.
I loro passi
infrangono leggeri le perlacee pozzanghere di pioggia: ed il misero
specchio d’acqua si piega impetuoso come preda della
corrente. Camminano lungo il marciapiede grigio, mentre la pioggia
imperversa sull’asfalto come un torrente scosceso nella
stagione estiva: e la pioggia filtra attraverso i sottili canali di
scolo giù, verso i bassifondi, in un mondo che la gente del
piatto ha ormai imparato ad ignorare.
Cissnei sospira,
abbandonando con lo sguardo la corrente impetuosa delle strade solcate
dalla pioggia. I suoi occhi tornano di nuovo su Tseng, imperturbabile,
che la guida senza una meta precisa lungo le strade della grande
città, girovagando a vuoto immerso nei suoi pensieri: e,
confusa, si chiede del perché l’uomo le abbia
chiesto di seguirlo. Lo sguardo che si sono scambiati pochi minuti
prima, tuttavia, le ha già detto più di quanto
l’altro non creda: e all’interno del suo cuore,
probabilmente, magari ha già capito che
quell’oscura passeggiata sotto la pioggia scrosciante
riguarda Zack, ed il suo destino – per il momento, ma forse
ancora per poco – ignoto.
C’è
stato un tempo in cui tante cose erano differenti. Ricordi evanescenti,
che si sfaldano sotto il diluvio crescente, come le fugaci gocce di
pioggia che si frantumano lungo il selciato dei marciapiedi grigi di
Midgar. Sono tante, le sue memorie felici, tante come le stelle nelle
tiepide notte estive: brillano e risplendono nella volta celeste,
felici e straordinarie.
In quel momento, sono
tante quelle gocce di pioggia che le oscurano le visuale: e in un
attimo, senza nessun preavviso, i suoi pensieri sono già
scivolati verso tempi più sereni, quando, in una notte ormai
lontana nel tempo e nello spazio, ha osservato pensierosa lo
straordinario pallore confuso di una luna piena che riluceva sul mare.
Se si concentra,
riesce ancora a sentire la tiepida brezza che viene
dall’ovest accarezzarle la pelle, dolcemente: probabilmente,
è questa la cosa che ricorda di più di quella
notte.
Eppure, a volte, nella
solitudine che è la sua vita di adesso, se si concentra
attentamente riesce ancora a percepire la sua presenza, accanto a lei,
seduta sulla sabbia sottile e bianca che fa da contorno ai flutti del
mare, e che le sorride, dolcemente; e non è raro che intere
ore scivolino via cercando di afferrare la sua voce che, lentamente, se
ne va lontano, come sottili spire di vento tra le dita.
Sono tanti i suoi
ricordi piacevoli, tanti da riempire un bellissimo cielo stellato.
Ma poi, con
l’autunno, è venuta l’attesa.
L’ombra confusa di giorni ricolmi di noia si è
abbattuta su di lei e sulla sua realtà, nel momento in cui
lui se n’è andato. E la città, con il
suo contrasto di luci ed ombre infinito, s’è tinta
del grigio seppia che per lei è la sua lontananza. E gli
intensi colori delle montagne e del mare, e dell’infinita
steppa cavalcata dalle ombre notturne dei grilli e delle cicale,
s’è come disfatta e arenata lontano, in un luogo
inviolabile da parte delle sue memorie.
Giorno dopo giorno, i
suoi ricordi sono diventati evanescenti, sottili come i migliaia di
fili d’erba delle colline che a est circondano Midgar: e
così come quelli muoiono con il giungere
dell’inverno, così la sua anima, con
l’approssimarsi della stagione fredda, respira il gelido
vento della sua assenza.
Spesso nasconde la sua
infelicità dietro al sorriso materno che l’ha
così spesso contraddistinta in passato: ma la
verità è che qualcosa, rispetto al passato,
è desolatamente cambiato. E non importa come Reno e gli
altri possano cercare di far apparire la cosa, la realtà
è che Zack non è più tornato, dopo
quel ridicolo e al tempo stesso straordinario evento che è
stato l’incidente di Nibelheim.
Con la mente, in un
attimo è di nuovo sotto il funesto diluvio abbattutosi su
Midgar. Scaccia lontano i numerosi pensieri che le hanno invaso
prepotentemente la mente, scrollando forte la testa: l’aria
attorno a lei è gelida, e numerose sferzate di vento la
colpiscono brutalmente, risvegliando i suoi sensi.
Getta uno sguardo
indecifrabile a Tseng, ancora accanto a lei, con la stessa espressione
seria e imperturbabile che non è mai riuscita a comprendere
del tutto. E infine, mentre all’orizzonte le grigie nubi
cariche di pioggia si addensano sempre di più e la forza del
vento aumenta d’intensità, Tseng si risveglia dal
torpore che l’ha ghermito fin da quando sono usciti
dall’Edificio ShinRa, e i suoi occhi incontrano le vetrine
fiocamente illuminate di un pub dimesso all’angolo tra un
vicolo e un altro. “Lì dentro potremo parlare
indisturbati,” esclama, senza abbandonare
l’espressione grave che, per tutto il tragitto, ha reso
più arido e spaventoso il suo viso.
Si siedono ad un
tavolo un po’ traballante, in disparte rispetto agli altri,
che dista soltanto pochi centimetri dalla grande vetrata opaca. Tseng
ordina da bere per entrambi, mentre lei osserva distrattamente la
pioggia che, trainata dal vento, batte senza posa sul vetro, disegnando
piccoli cerchi evanescenti che scorrono lungo la fredda
parete trasparente.
Ancora una volta,
l’uomo accanto a lei è restio alla parola:
probabilmente, anche se non riesce a vederlo, al suo interno
è in corso un grande conflitto interiore. Non vuole forzarlo
a parlare, se ritiene che non sia necessario: tuttavia, quella
sgradevole sensazione che prova dal momento in cui l’ha
incontrato s’è annidata nel suo stomaco, e la
tormenta continuamente senza un attimo di tregua.
Si ritrova a pregare
affinché Tseng la liberi da questo tormento, ritrovandosi a
fissarlo ardentemente negli occhi.
Nel momento in cui
anche lui, quasi colto alla sprovvista, incontra il suo sguardo, un
lampo di determinazione gli illumina il volto: le sua mani si chiudono
attorno alla superficie fredda del bicchiere, che porta alle labbra in
un movimento che sa quasi di abitudine; poi, nel momento in cui,
stancamente, fa tintinnare il vetro contro il tavolo, decide che
è venuto il momento, finalmente, di parlare.
La sua voce ha lo
stesso freddo e distaccato tono apatico di sempre; il suo sguardo
è fermo, dritto sui suoi occhi, quasi come se stesse
studiando ogni sua minima reazione. Le storia che le racconta
è strana e articolata: si sviluppa nell’arco di
numerosi anni, fino a concludersi qualche giorno prima, alle porte
della città di Midgar, nel luogo da dove sono giunte le nubi
che hanno fatto da presagio al livido e impetuoso temporale.
E’ una storia di disonore, di lealtà macchiata, di
sangue versato sulla ruvida pietra del deserto: una storia che Cissnei
ascolta incredula, ad occhi sbarrati, e che frantuma ogni speranza che,
tra i tiepidi raggi di sole che raramente sfiorano il piatto, ha
coltivato quasi di nascosto, celata dietro i suoi continui sbalzi di
umore.
Si alza in piedi, la
voce strozzata in gola: distingue solo i contorni dell’esile
figura di Tseng, composta nella sua sedia, che la guarda con
un’espressione di biasimo appena accennata sul pallido volto:
perché lui gliel’ha già detto,
all’inizio di questa storia, l’ha già
avvertita su quello che sarebbe potuto capitare; e lei, illusa, ha
preferito semplicemente non starlo a sentire.
Corre, sotto la
pioggia, sfidando a testa alta la furia della tempesta che si abbatte
sulla città; e le gocce di pioggia che scorrono sulla sua
pelle impetuosi, e i gelidi soffi del vento che le sferzano il volto, e
la spessa nebbia che le oscura il cammino, vogliono soltanto
dissuaderla dal suo viaggio, dalla sua personale ricerca della
verità assoluta sulle vicende inerenti alla morte di Zack
Fair. Perché le parole di Tseng, così calme,
placide, imperturbabili come la superficie dell’acqua
stagnante, non possono essere reali: non ne hanno semplicemente la
parvenza, e il loro aspetto è denso quanto i sottili fili di
fumo che fuoriescono dai camini delle case.
La verità
deve essere un’altra, ed ha intenzione di scoprirla risalendo
alla fonte che ha spacciato la notizia come reale: e, se allunga lo
sguardo verso l’orizzonte, nonostante la fitta nebbia che
ricopre ogni cosa, riesce già a vedere il profilo che si
staglia all’orizzonte di quello che è stato il suo
punto di partenza.
Tiene a bada i propri
sentimenti, trattenendo il fiume di lacrime che sente di dover versare:
è ancora presto per abbandonare le proprie speranze, per
lasciare andare l’ultima possibilità che ha di
venire illuminata, ancora una volta, dal suo spensierato sorriso.
Attraversa a grandi
passi l’ingresso principale dell’Edificio ShinRa,
presa dalla determinazione. Chiede del presidente, a gran voce,
sbattendo i pugni sul banco informazioni, mentre sente la rabbia
montare all’interno di lei: è un sentimento che
non le si addice – l’ha provato raramente, in
passato -, e che la dilania, e la distrugge, e la rende vulnerabile e
indifesa agli attacchi degli altri.
Prima ancora che
riesca ad accorgersene, la linea di difesa che ha eretto attorno a
sé erompe con la potenza del mare in tempesta. Si
inginocchia, singhiozzando, troppo sconvolta per riuscire a pensare
lucidamente, mentre il peso del mondo si inoltra, come un macigno,
dentro di lei. Improvvisamente, capisce che anche le deboli speranze
che ha lasciato fiorire, attaccate alle radici di possibili menzogne,
sono in realtà soltanto delle fredde illusioni. E anche se
ancora stenta a crederlo, capisce che Zack se n’è
andato, e che lei non potrà mai più sentire il
caldo suono della sua voce, sempre più distante ogni giorno
che passa.
Scorrono lentamente, i
periodi tra una mansione e l’altra, tanto da perdersi
nell’infinita noia ed apatia che colora il cielo delle sue
vacue giornate. A volte passano settimane prima che le venga assegnato
un nuovo incarico: tuttavia, è sempre felice di poter
partecipare ad una nuova missione, e di potersi allontanare, seppur per
breve tempo, da quella città così piena di
ricordi brutali che la inseguono anche nel vicolo più
lontano della sudicia periferia.
Trascorrono giorni,
settimane, ed infine mesi: ed i viali della città si tingono
degli ardenti colori autunnali, mentre il vento, gelido come gli zefiri
delle grandi vallate di montagna, si insinua sbuffando lungo le vie
della grande Midgar. In una delle tante lunghe mattinate che precedono
l’arrivo di Novembre, misura a grandi passi il viale
principale della città, gettando uno sguardo privo
d’interesse alle grandi costruzioni grigie che circondano la
strada.
Si ritrova ad
osservare l’austera fontana al centro del Settore 8, ormai
usurata dal tempo e dalla ruggine. Midgar è cambiata
parecchio, negli ultimi anni, s’è annichilita
sotto la spinta della sua stessa potenza, come se qualcosa, nel suo
antico splendore, si fosse lacerato fin dalle fondamenta della
città. La ShinRa ha perso qualcosa, tra l’intenso
scorrere delle stagioni, è il suo lento declino
s’è abbattuto, con
l’intensità di un maremoto, sulla città
e sui suoi abitanti.
La sente sprofondare,
la grande metropoli, proprio sotto i suoi piedi: l’eco della
rivolta s’insinua anche tra gli impiegati stessi della
ShinRa, ghermendoli con le promesse di vite migliori e di nuove
prospettive. Quanto a lei, non ha mai pensato di lasciare la ShinRa:
è tutto ciò che ha sempre desiderato, il luogo
sicuro dove tornare, il porto stabile che rappresenta la sua casa.
Eppure, ora che lui
non è più lì, persino stare alla
ShinRa è, in qualche modo, diverso. Qualcosa si è
rotto in maniera irreparabile, e non tornerà mai
più come prima: e mentre persino le serate passate in
compagnia dei colleghi di lavoro appaiono vuote e inutili, comincia a
chiedersi se, effettivamente, continuare a lavorare per la ShinRa sia
ciò che vuole davvero.
La tela dei suoi
pensieri s’interrompe di colpo, quando, senza rendersene
conto, lascia che i suoi passi la conducano lontano, lungo le strette
arterie della periferia. Si stringe nel suo lungo cappotto invernale,
per coprire la divisa da Turk ed anche perché, in fondo, le
strade di Midgar sono ormai pervase dal gelido vento
dell’imminente stagione fredda. Ed è qui che,
all’improvviso, alzando gli occhi, incontra, con lo sguardo,
un’esile figura lontana che si perde nella bruma sottile che
avvolge la città e impedisce di vedere
l’orizzonte. La osserva, incerta, continuando ad avanzare
ritmicamente lungo le isolate vie della periferia, finché,
finalmente, non si ritrova a pochi metri di distanza da essa: ed
è solo a quel punto che spalanca gli occhi dalla sorpresa,
mentre un’espressione incredula le si dipinge lentamente sul
volto: è passato parecchio tempo, è vero,
tuttavia è certa di avere davanti quello che, mesi prima,
è stato il compagno di fuga di Zack Fair.
Rimane ferma per un
attimo, incapace di formulare un pensiero articolato: attonita, lascia
che lo sguardo del ragazzo si posi su di lei, solo per un attimo,
mentre lo osserva camminare indisturbato lungo il marciapiede immerso
nella sottile nebbia che, in quel periodo, la mattina, avvolge i suoi
nodi lungo le strade della città. I suoi occhi lo seguono
mentre si allontana oltre le sue spalle, finché non lo
vedono voltare l’angolo e dileguarsi nell’immenso
labirinto di strade della periferia di Midgar.
Subito, risvegliandosi
dal torpore che l’ha assalita, torna sui suoi passi,
velocemente, lasciandosi trasportare dall’istinto attraverso
la nebbia. Corre velocemente, e ritorna all’incrocio che ha
attraversato poco prima: ma il ragazzo è già
sparito oltre le articolate strade che i suoi occhi non riescono a
vedere. Oltrepassa un vicolo sporco e pieno di fumi chimici provenienti
dai tubi di scarico del retro di alcuni locali: nella sua testa, un
tumulto di pensieri si articola senza posa, come trainati dal vento,
tuttavia non è in grado di afferrarne nemmeno uno:
perché tutta la sua concentrazione, in quel momento,
è rivolta al ragazzo biondo che è lì,
da qualche parte, nella grande scacchiera di vicoli e strade che
è la città di Midgar: e se la ShinRa ha mentito
sulla sua morte, allora forse non tutto è ancora perduto, e
anche quella stessa speranza che lei ha lasciato andare, a poco a poco,
in quegli ultimi mesi inerti, non è ancora da abbandonare
del tutto. Perché la prova dell’inganno della
compagnia, senza possibilità di dubbio, le è
appena passata davanti, ed ora si nasconde soltanto tra le decine di
strade grigie della periferia che la circonda.
E poi, uscendo dal
vicolo, finalmente lo rincontra, davanti a lei, mentre con lo sguardo
chino e immerso nei suoi pensieri attraversa il viale che porta al
settore 8. Lo ferma, all’improvviso, bloccandogli saldamente
il braccio: e quello si volta, lentamente, lanciandole
un’espressione confusa e stringendo una mano attorno
all’impugnatura della grande spada a una mano e mezza, pronto
ad utilizzarla in caso di pericolo. La sua stretta attorno
all’elsa, tuttavia, ben presto si fa meno serrata, quando la
osserva attentamente negli occhi. Probabilmente, capisce che non
è intenzionata a fargli del male.
Quanto a lei, osserva
per la prima volta la grande spada che il ragazzo porta alle sue
spalle, domandando a se stessa perché non l’abbia
notata prima.
Perché la
lama di quella spada – così lucente, spessa, e
meravigliosa – la riconoscerebbe dappertutto, così
come colui che, un tempo, è stato solito portarla legata
alle proprie spalle.
Fa un sorriso forzato,
a mo’ di scusa, rispondendo allo sguardo confuso e
disorientato del ragazzo davanti a lei.
“Mi
dispiace, ti ho preso alla sprovvista.” Sente la propria voce
un po’ rauca, diversa da come la ricordava: probabilmente la
utilizza in maniera troppo discontinua e irregolare, tanto da
dimenticarsene addirittura il suono. Eppure, è anche questo
il segno dell’apatia che la morte di Zack Fair ha creato in
lei: ma ora che il suo compagno di fuga è lì
davanti, mentre la osserva attentamente con i suoi luminosi occhi
azzurri, non può fare a meno di notare che la sua voce,
finalmente, torna a velarsi di quel sottile tono di speranza che ha il
sapore dell’aria salmastra del litorale di Costa del Sol.
“Sei un
Soldier?” gli chiede, all’improvviso, notando per
la prima volta gli abiti con cui è vestito. Il mosaico che
corrisponde al ragazzo, nella sua mente, si costituisce di nuovi
elementi ad ogni nuovo sguardo che gli rivolge, e che la incuriosiscono
e la spingono, ogni secondo che passa, a volerne sapere di
più, disperatamente.
Il ragazzo soppesa la
risposta da darle, chiedendosi se debba fidarsi o meno di lei: sbuffa
leggermente, gettando uno sguardo di sfuggita alla direzione verso la
quale si dirigeva prima che il suo cammino fosse interrotto. Poi, alla
fine, decide di rispondere, con poche parole prive di entusiasmo.
“Lo
ero.”
Per la prima volta
dopo tanto tempo, Cissnei sorride. La verità che conosce lei
si discosta un po’ da quella che di lì a poco le
racconterà l’altro, ma ciò non le
importa particolarmente: dopotutto, le basta soltanto sapere che non
è ancora ora di lasciar andare i suoi sogni, e che essi
potrebbero tornare, così come il canto dei gabbiani dopo la
tempesta, con più forza ed energia di prima.
Cominciano a
discutere, camminando uno accanto all’altra; il ragazzo le
dice di chiamarsi Cloud Strife, di avere 21 anni e di essere stato un
Soldier di prima classe per conto della ShinRa; quanto alla spada, da
quello che dice, non ricorda in che modo ne sia venuto in possesso,
tuttavia ha come la sensazione di averla da sempre con sé.
Alcune parti dei suoi
ricordi sono confusi, come passi sulla sabbia erosi dal vento e dalle
onde in tempesta; e riguardo a Zack, Cloud non ne ricorda nemmeno il
nome, come se la sua esistenza sia stata solo un effimero sogno da cui
lei non si è ancora svegliata; tuttavia, Cissnei sa che non
è così. E la presenza stessa di Cloud
lì davanti a lei, e della Buster Sword legata alle sue
spalle, è già di per sé la prova
inconfutabile che qualcosa, sull’incidente di Nibelheim e le
sue ripercussioni sulla ShinRa, è stato imperdonabilmente
omesso dalla compagnia.
Dopo tanto tempo, si
ritrova ancora una volta nel corridoio che porta all’ufficio
di Scarlet, davanti alla consunta fotografia che tante volte ha
ammirato nei mesi passati. In effetti, è da un po’
che non si ferma più come prima a riflettere, davanti ad
essa, forse perché, recentemente, ha ritenuto che non ci
fosse più nulla per cui potesse valere la pena di perdersi
nei propri pensieri. Ma adesso è di nuovo lì, in
piedi, ad osservare le logore pieghe che fanno della fotografia un
oggetto così perfettamente fuori luogo in un posto del
genere.
Sorride,
perché sa che ciò che si è preposta di
fare è la cosa giusta; poi, con un respiro profondo,
facendosi coraggio, passa oltre la cornice di legno invecchiato della
fotografia e, senza alcun segno di titubanza, bussa forte alla porta
che dà all’ufficio della Direttrice Scarlet.
All’interno,
la calda voce della donna la invita ad entrare. Probabilmente,
l’hanno già avvertita del suo arrivo
dall’ingresso.
Il suono degli stivali
sul marmo dell’ufficio della donna è ritmico,
cadenzato, lievemente amplificato dalla presenza di una sottile eco
all’interno della stanza. Lentamente, si avvicina alla lucida
scrivania di Scarlet. La donna le dà le spalle, col viso
rivolto verso la grande vetrata che mostra la maestosa
armoniosità della Midgar notturna: e per un attimo anche il
suo sguardo viene attratto dalle migliaia di luci abbaglianti della
città, prima di focalizzarsi nuovamente sulla figura in
piedi davanti a lei.
Lentamente, Scarlet si
volta verso di lei, mentre il suo lungo vestito rosso ondeggia
leggermente sotto la sua debole spinta. Tiene in mano un piccolo
bicchiere semivuoto di gin, sorridendo beffardamente: e in un attimo
Cissnei capisce, da quella grottesca smorfia che si è
dipinta sul viso della donna, che persino lei ha capito
perché ha chiesto di vederla.
La donna le si
avvicina, lentamente, guardandola negli occhi come a sfidarla a parlare
per prima e ad esporre i motivi di quell’incontro: tuttavia
poi è lei che comincia la discussione,
all’improvviso, senza lasciare che il sorriso canzonatore che
ha sul volto scivoli via.
“Scommetto
che si tratta del Soldier morto. Tseng me ne aveva parlato, qualche
settimana fa.” Il tono della sua voce è derisorio,
tuttavia Cissnei non si scompone, limitandosi a guardarla negli occhi
senza fare una parola. “Non è forse
così?”
Gli angoli della bocca
di Cissnei si incurvano leggermente verso l’alto, quando
decide di rispondere alla donna. Lentamente, con tono calmo, le espone
la verità a cui è giunta in quello stesso giorno,
negli oscuri vicoli immersi nella nebbia della periferia della
città: e ad ogni parola che fuoriesce dalle sue labbra, si
sente più sicura, e viva, e certa di essere nel giusto.
Quando finisce di
parlare, osserva la donna riprendere il bicchierino di gin in mano,
senza fare alcun commento riguardo alle sue insinuazioni. Il ghiaccio
semisciolto nel liquore tintinna leggermente, a contatto con il vetro.
La osserva sorseggiare
distrattamente il liquido incolore, con lo sguardo rivolto nuovamente
verso la complessa eleganza delle strade di Midgar. Ma poi, proprio nel
momento in cui si ritrova a pensare di aver vinto il loro duello
verbale già alla prima stoccata, capisce che
c’è qualcosa, nella figura di Scarlet, che non ha
considerato. Perché adesso che la donna ha posato nuovamente
il bicchiere di gin sul tavolo, sorride nuovamente. E stavolta non
è più un altezzoso risolino di scherno: sul suo
volto è dipinto il gelido ghigno della vittoria.
A quanto pare,
però, Scarlet non ha alcuna intenzione di rispondere a tono
alle sue accuse. Incrociando le braccia, si avvicina nuovamente alla
sua scrivania, senza che quell’orrido sorriso scivoli via
dalle sue labbra: poi, aprendo uno dei cassetti di mogano scuro,
afferra con le unghie dipinte di rosso una busta ocra di notevole
spessore.
“Credo che
troverai particolarmente interessante il contenuto di
questa”, sussurra soddisfatta, mentre gliela porge con
entrambe le mani, impaziente.
Solo nel momento in
cui tiene la busta davanti a sé si accorge di come le
tremino le mani, quasi convulsamente: sa perfettamente che il piano di
Scarlet consiste proprio in questo, tuttavia non riesce a non provare
quella profonda inquietudine che l’assale
d’improvviso, come una nave in balia della onde in tempesta.
Le sue mani, con
fatica, riescono infine ad aprire la busta ocra: e, osservando
all’interno, riesce a contare soltanto una decina di
fotografie a colori. Alza lo sguardo sulla donna di fronte a lei che
ancora sorride, incapace di trattenere il ghigno che sfoggia
apertamente sulle labbra e che la incita silenziosamente a guardare il
soggetto delle foto.
Deglutendo, Cissnei
preleva le fotografie dalla busta, che cade a terra con un leggero
tonfo, dimenticata; perché nell’istante in cui ha
guardato la prima foto, il suo sguardo è stato
immediatamente catturato, così come la sua attenzione.
La fotografia ritrae
un bosco, forse, o magari solo un semplice angolo di terra coperto di
vegetazione sperduto tra le montagne antistanti Midgar. Con una mano,
improvvisamente, traccia il confine tra la flebile luce originata dal
flash e le ombre sottili degli alberi, avvolte da una sottile bruma che
le rende evanescenti. Non ha più alcun dubbio, adesso: la
foto che tiene in mano e quella appesa nella cornice nel corridoio sono
state scattate nel medesimo luogo, tra le colline nebbiose e ondulate
ricoperte di nodosi alberi secolari: e se da un lato si chiede il
perché Scarlet le stia mostrando quelle foto,
dall’altro, seppur in maniera piuttosto singolare, si sente
felice, appagata, in un certo senso quasi commossa, come
nell’osservare qualcosa che ha creduto fosse andato perduto e
che invece è ancora lì, accanto a lei, tra le
folte radici macchiate d’ombra della fotografia.
Eppure,
c’è qualcosa che non va, lo sente. Passa in
rassegna velocemente la seconda, la terza e la quarta foto, senza
capire perché Scarlet le abbia dato quella busta. Poi,
d’un tratto, mentre il sorriso della donna esplode in una
fragorosa risata, prendendo in mano la quinta foto della pila,
improvvisamente comprende tutto. E in un breve e folle attimo di
cognizione, tutte le teorie che ha febbrilmente concepito lungo il
corridoio che porta all’ufficio di Scarlet, si sfaldano
disarmonicamente nel turbine confuso dei suoi pensieri.
Perché la quinta foto della pila non è
più solo una cornice paesaggistica avvolta nella tiepida
nebbia del mattino: al contrario, è un primo piano sinistro
e ben definito, immerso nella luce dorata del flash
dell’obiettivo: e se le radici degli alberi sono ancora, in
parte, immerse nell’oscurità, stavolta il letto di
foglie secche è perfettamente visibile. E lì, tra
le foglie aride e scure, c’è una figura pallida,
gonfia, leggermente piegata in maniera sconnessa e innaturale; la pelle
lucida ed esangue è ricoperta di ferite grigie e mai curate,
su cui ancora brilla lo sporco sangue incrostato. Ma ciò che
la atterrisce di più, e che la spinge ad abbandonare la
presa sulla fotografia che cade a terra, con la faccia rivolta verso il
pavimento, sono gli occhi: quegli occhi spenti e velati che la fissano
inespressivi, e che nel momento stesso in cui li ha visti, quasi di
sfuggita, le sono rimasti impressi, come marchiati a fuoco,
all’interno della mente.
Non riesce a respirare
ed è costretta a piegarsi in due, nella ricerca disperata di
aria a pieni polmoni: e Scarlet la guarda dall’alto,
soddisfatta di aver vinto ancora una volta il duello verbale con una
mossa a sorpresa e decisamente ad effetto.
Annaspa, tossendo
angosciosamente, mentre sente un conato di vomito salirle lungo il
petto: lo reprime, con le lacrime agli occhi, incapace di riuscire a
credere a ciò che ha appena visto, nonostante la
verità sia lì, davanti ai suoi occhi, sbattutale
in fronte senza alcun ritegno dalla donna che la osserva
dall’alto. E nel momento in cui riesce a risollevare lo
sguardo, ansante, capisce che ha già perso, e che il
contrattacco ben calibrato di Scarlet ha distrutto in maniera
inesorabile le sue difese.
“Fin dal
momento in cui abbiamo deciso di eliminare Zack Fair, sapevamo che
avremmo dovuto cancellare anche ogni traccia di cattiva
condotta.” Il tono di Scarlet è freddo e spiccio,
ora che la risata di scherno è sparita dal suo volto:
osserva Cissnei con una vena di disgusto, reprimendo una smorfia
sdegnata che tuttavia non riesce del tutto ad estirpare dal suo volto
contratto. “In altre parole, una volta resici conto della sua
fuga, il presidente, Reeve, Hojo ed io ci siamo resi conto che la cosa
migliore per entrambe le parti era l’eliminazione del
soggetto in questione.”
La ascolta senza
capire davvero il senso delle sue parole, che le appare confuso,
astratto, privo di ogni possibile connessione con quella che
è la vita reale attorno a lei; perché lo shock di
perderlo un’altra volta, a poche ore da quella rinnovata
speranza che le ha infuso l’incontro con Cloud, è
ancora più doloroso e straziante di quanto non riesca ad
immaginare. La sente ammettere ancora, con assoluta e immodesta
onestà, che è lei la causa della morte di Zack, e
che è stata lei ad ordinare ai Turk incaricati di occultare
il cadavere di scattare quelle foto, come prova del buon esito della
missione.
Ad ogni sottile
affondo della donna, tuttavia, il rancore di Cissnei si fa
più forte e al tempo stesso intollerabile, con ondate di
rabbia che la attraversano come il vento tra le braci ardenti; e prima
ancora di rendersi conto di ciò che sta per fare, la sua
mano è già scivolata lungo il metallo vermiglio e
lucente del suo Shuriken, e la sua arma – vibrando sotto il
sottile e lucido scintillio della luce della lampada –
è già all’altezza del collo della
donna, che in un attimo muta la sua espressione in una maschera di
terrore; ma è troppo tardi, e prima ancora che abbia la
possibilità di parlare un’ultima volta, mentre il
sangue le screzia di rosso i vestiti ed erompe sul pavimento con
l’intensità di un fiume in piena, i suoi occhi
sono spenti e vitrei come quelli di Zack nella foto.
Con la schiena
poggiata alla parete, si lascia scivolare verso terra. I suoi occhi non
riescono a staccarsi da quelli della donna, così vuoti,
freddi, diversi da appena pochi istanti prima. Con la vista appannata,
lancia uno sguardo veloce alla ferita mortale che ha inflitto a
Scarlet: è bastato solo un colpo ben assestato per recidere
quasi di netto il collo della donna, stroncando la sua vita; eppure,
avrebbe giurato che la vita umana fosse qualcosa di più
sottile e al tempo stesso inalterabile.
E’ confusa,
instabile, solo leggermente consapevole di non essere più in
sé: e mentre si guarda le mani intrise fino
all’osso del sangue della donna, cerca di isolare i suoi
pensieri, e di capire quale sarà la sua prossima mossa. Ora
che sa che Zack non c’è più, tutto le
appare vuoto, grigio, gelato nella sua mancanza di
emotività: ed anche quell’omicidio a sangue
freddo, inspirato da una breve follia, in un certo senso le sembra
vagamente accettabile.
Lentamente, con gli
abiti e il volto macchiati di sangue, si dirige fuori
dall’ufficio, lasciando che lo Shuriken macchiato di rosso
goccioli sul bianco e lustrato pavimento di marmo; forse dovrebbe
dedicare più attenzione a dettagli del genere, ma sa
già che il marmo, seppur con un po’ di fatica,
tornerà a splendere di nuovo, magari alla tiepida luce del
mattino che prima o poi illuminerà la stanza, a differenza
della sua coscienza che è ormai irrecuperabile.
Richiudendo la porta
alle sue spalle, lascia sulla maniglia dorata tracce delle sue impronte
digitali macchiate di sangue. Senza prestare troppa attenzione alla
cosa, continua a camminare in linea retta, osservando i propri stivali
tingere il pavimento di un rosso intenso quanto i tramonti sul mare a
Costa del Sol. Cammina per il lungo corridoio che porta
all’ufficio di Scarlet, come ha fatto tante altre volte in
passato: e, come ogni volta in cui il suo sguardo
s’è posato sulla parete, i suoi occhi si
indirizzano, ancora una volta, sul piccolo riquadro appeso alla parete
che contiene la fotografia che è stata isolata dalle altre
all’interno della busta. Come la prima volta, si dilunga per
parecchio tempo ad osservare incantata le forme poco nitide dei fusti
degli alberi, cercando di cogliere con lo sguardo il punto esatto che
separa la timida luce dalle ombre che, incontrastate, dominano ogni
punto di fuga dell’immagine. Vuole ripromettersi,
così come ha fatto la prima volta, che tornerà ad
ammirarlo ancora, quando si sentirà meglio, ma il suo cuore
sa già che probabilmente questa è
l’ultima volta in cui si troverà al cospetto della
tomba di Zack. E mentre una morsa gelida gli attanaglia improvvisamente
il cuore, e le lacrime, per la prima volta in quel terribile e
straordinario giorno, scorrono copiose sul suo volto, decide di
salutare per sempre quella che è e che probabilmente
sarà in eterno la sua famiglia. Dice addio alle serate
passate in compagnia dei suoi amici, e alle centinaia di missioni che
ha svolto per conto dei potenti che vivono in quelle mura; e poi, a
tutti coloro con cui è venuta a contatto in tutti questi
anni, e a Tseng, e a Rude, e a Reno; e saluta anche Scarlet, dentro di
sé, con un sorriso appena accennato, poiché il
loro è stato un duello leale e ben orchestrato, come si
conviene a due donne della loro levatura, e perché sa che,
un giorno, probabilmente, si rincontreranno di nuovo, se esiste un
inferno che le accoglierà; ed infine, poco dopo, mentre
attraversa con il volto rigato di lacrime i grandi cancelli della
città, saluta Midgar, e le sue strade, e i suoi grandi
palazzi, e le migliaia di vite e di intrighi che contribuiscono, ogni
giorno che passa, a tessere senza sosta la sua affascinante e
meravigliosa storia.
FINE
Via, giusto per far
sapere che non sono morto. X°D
L’altro
giorno curiosavo un po’ tra le cartelle del mio pc e mi sono
imbattuto in questa fic, di cui non ricordavo assolutamente nulla.
L’avevo scritta per un contest mai andato in porto che si
è svolto all’incirca due anni fa e che magari
qualcuno della sezione ancora ricorda: bisognava – e non era
così semplice, a dirla tutta – ricavare una fic da
una serie di citazioni, immagini o lyrics assegnate assolutamente in
maniera random, ma il contest dopo un po’ è
scivolato nel dimenticatoio e credo di averla riposta
nell’attesa che venisse ripreso. Boh, non so, ormai credo
importi poco, è passato così tanto tempo.
X°D Mi ha fatto un po’ d’impressione
rileggerla, anche perché col senno di poi la trovo un
po’ acerba in certi punti, ma che posso dire, avevo 16 anni,
ero un po’ idiota e… boh, no, nulla, solo questo.
Spero comunque che vi sia piaciuta.
Ps: se per caso vi
fosse qualche folle che ancora attende il nuovo capitolo di After
Crisis: Selfless, beh, sappiate che sta per arrivare. Spero. No,
tranquilli, sta per arrivare e basta, conto di aggiornare per il 28
Luglio o comunque al massimo qualche giorno dopo. A presto, dunque!
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