NdA: Sono tipo
le quattro di notte, sto ancora patendo per la febbre (Sì, a
luglio. LOL), e sono super-rincitrullita. Però no, avevo
bisogno di terminare almeno questo lavoro sugli SHINee, o meglio, su
JongHyun e Key, anche se, alla fine, mi fa letteralmente schifo.
♥ Non so… Più andavo avanti a
scrivere, più mi sembrava di rendermi conto che mi mancano
anche quelle minime capacità che credevo di avere.
È la prima volta che mi ritrovo a scrivere dopo un sacco di
tempo, dopo che pensavo che non sarei mai più riuscita a
farlo, però, davvero, morivo dalla voglia di scrivere una
qualche idiozia su questi due. Sono a dir poco perfetti. A dir la
verità è partito tutto da ieri, quando avevo
visto un video in cui Key era particolarmente giù, e si
supponeva perché fosse per via del fidanzamento di JongHyun.
Poi, stanotte, fra il delirio per via della febbre, fra che ho dormito
malissimo, sono finita col sognare che JongHyun, per farsi perdonare,
poi faceva domanda d’adozione d’un bambino per lui
e Key, ed il che è tutto dire.
In ogni
caso, mi scuso se ci sono delle imprecisioni. Non è per
nulla uno dei miei migliori lavori –come se poi ce ne fossero
di buoni-. È che scrivo sempre di meno e, mancando la
pratica, manca il miglioramento. Anzi, sto finendo col retrocedere, ma
pazienza. Le critiche, quindi sono decisamente ben accette.
Buona
lettura~
~I’ll
save you, so here I am. Again.~
Scriveva.
Kibum scriveva un sacco, soprattutto in quei giorni.
Dopo
le undici di sera si chiudeva nella sua stanza. In qualche modo,
riusciva a sentirsi al sicuro solo lì dentro, seduto alla
scrivania di legno, laccata di bianco, accanto alla finestra dove le
tende chiare venivano mosse da un vento leggerissimo. Era un ondeggiare
che quasi calmava. Per non parlare della luce fioca del lume sul
comodino, che rendevano il giallino delle pareti più caldo.
E poi una lampada da tavolo lì accanto a lui, decisamente
piccola. Voleva evitare il più possibile la luce, che fosse
naturale o artificiale, ma, insomma, per scrivere su quel diario ormai
usurato, era necessaria.
Ogni
tanto si voltava indietro, ancora seduto. Guardava tutte le foto appese
per un filo sopra il letto, tenute ferme da delle mollettine colorate.
Le foto stesse erano colorate. Prendeva spunto da quelle per continuare
a scrivere dei pensieri a caso. Prendeva spunto da quei sorrisi in
quelle foto, da quegli occhi, da quei momenti di vita immortalati con
la sua polaroid. Foto genuine, allegre che fermavano per
l’eternità attimi felici, che a momenti sembravano
irreali.
Non credevo che tutto potesse
crollare in questo modo, per un nonnulla. Eppure, non avevo mai dato
niente per scontato. Lottare per ogni cosa porta a questo: Prender
coscienza di ciò che si ha fra le mani. Avrei dovuto
aspettarmi di vedere quei sorrisi nelle foto sempre meno vicini, un
giorno. Anzi, lo davo per certo. Ed invece, fa malissimo.
Portava
la maglietta bianca, quella con su stampata in grande
un’etichetta, di quelle con le indicazioni per i
lavaggi in lavatrice. La stessa che –con colori inversi-
possedeva anche lui.
E l’avevano anche indossata nello stesso momento,
più di una volta. Ormai, però, Kibum non la
indossava quasi da un anno. Solo a casa, quella sera
si era concesso lo sfizio di metterla, di prendere a scrivere non per
un’oretta, ma per due, forse tre, perdendosi a guardare Seoul
fuori dalla finestra, di tanto in tanto. Una Seoul estiva ed in
movimento.
Chissà cosa fai ora,
eh? Tempo fa non avrei avuto dubbi, non so se perché
facevamo insieme qualsiasi cosa, o perché, semplicemente, mi
tenevi ben informato.
Mi manchi. Mi manchi un
sacco e… ti voglio bene.
Quante
cose si erano promessi, di fare insieme? Quante volte si erano ripetuti
di essere fondamentali l’uno per l’altro? Il loro
era un “Non vado avanti se tu non vieni con me”, e
se non mi tieni per mano, se non sorridiamo facendo ogni singola cosa
per il gusto di farla. Per il gusto di farla insieme.
C’erano
troppe cose che Kibum trovava ingiuste. Tanto ingiuste da fargli venir
quasi da piangere. E finì proprio per addormentarsi
così, come un sacco di altre volte, chinato sulla scrivania,
con la testa poggiata sulle braccia. Dell’inchiostro si
sbiadiva, si espandeva in una macchia dal colore un po’
violaceo, per effetto di quelle uniche due lacrime che riusciva a
versare.
***
«Kibum,
non possiamo andare avanti così.»
Nonostante
il tono del leader fosse, come sempre, pacato ed anche preoccupato, si
evinceva che iniziava ad esser seccato da tutta quella situazione che,
ormai, si protraeva da quasi sette mesi, ed andava pericolosamente
peggiorando. Anche se, alla fine, sul palco sembrava tutto
com’era sempre stato, sembrava che portassero la solita
energia e forza ai loro fan, in realtà non era
così. E potevano rendersene conto solo loro, Jinki, Minho e
Taemin, interni a tutta quella faccenda che stava finendo con
l’intaccarli.
«Così
come?»
Dal
canto suo, Kibum faceva assolutamente finta di nulla. Poteva sfuggire
allo sguardo preoccupato di Minho. Ma a quello indagatore e cristallino
del maknae? Povero illuso.
«Dai,
lascia stare, Jinki. Passerà.»
E
questo è ciò che Minho continuava a ripetere da
sin troppo tempo. A dir la verità non ci credeva
più nessuno, men che meno lui, che ormai lo diceva solo per
abitudine. L’unico che non proferiva parola era il piccolo
Taemin; intanto che stavano lì seduti nei camerini, si
guardava intorno, mangiucchiava qualcosa, come se non fosse
interessato. Per le prime aveva dato sui nervi sia a Minho che a Jinki.
Eppure, lui era l’unico a cui Kibum non aveva mai risposto
male. Iniziavano a pensare che fosse davvero arrivata l’ora
di lasciare perdere, dal momento che non si chiamavano Jonghyun e che,
fino a prova contraria, qualunque problema Kibum avesse avuto, questo
era sempre stato risolto proprio da lui. Dallo stesso Jonghyun che, col
passare dei mesi, era diventato sempre più apatico.
Quel
giorno, in particolare, aveva superato il limite. Aveva fatto a dir
poco spaventare i suoi compagni con uno scatto di rabbia che non aveva,
apparentemente, alcun motivo di sussistere. Aveva dato un calcio ad uno
dei divani di pelle del camerino e, con quegli anfibi,
c’aveva anche lasciato un segno vistoso. Ed eccoli
lì, Jinki e Minho a cercare di calmarlo, nonostante il
più piccolo lo facesse in modo decisamente meno
concitato del leader. Non era mai stato tipo da scomporsi troppo, ed in
quei mesi aveva trovato il suo ruolo, ovvero quello di tamponare le
preoccupazioni sempre crescenti di Jinki.
Ed
intanto che Jonghyun era lì, seduto a terra con la testa fra
le mani, quei due che gli stavano intorno, Kibum si era acceso una
sigaretta, stavolta davanti a tutti, senza problemi. Il maknae, a
quella vista, non aveva battuto ciglio, mentre –che strano!-
Jinki e Minho erano rimasti sconcertati, ma avrebbero discusso di
questo in un secondo momento.
Giugno,
quell’anno, si stava rivelando un mese particolarmente caldo
e loro, in quel dormitorio con ogni genere di comodità,
erano provvisti solamente di due ventilatori che si dividevano ogni
sera in base a chi vinceva a morra cinese. Tuttavia, quel pomeriggio
che avevano libero –ed aggiungerei anche
“miracolosamente”- optarono per passarlo insieme,
nel salotto, seduti sul grande divano con entrambi i ventilatori
puntati contro. Di colpo sembrarono essersi scordati
dell’avvenimento di quella mattina. Non c’erano
più Jonghyun per qualche motivo furiosi, né Kibum
che fumavano in preda al nervosismo. C’erano solo loro che si
prendevano in giro, presi da un videogioco, intanto che bevevano
bevande gassate e mangiavano patatine. Almeno fin quando, con aria
cupa, Jonghyun non si alzò dalla sua postazione, quella fra
Kibum e Minho. E bastò solo quel gesto a far raggelare
l’aria, nonostante si rischiasse di arrivare ai quaranta
gradi.
Si
dispersero nella casa, ognuno a fare chissà cosa. Jinki era
in cucina a preparare –insolitamente- la cena, con gesti
nervosi, che cercava di nascondere come poteva. Il maknae si era chiuso
in camera sua, mentre Jonghyun nel bagno, almeno da mezz’ora.
Minho, così come Kibum, era rimasto seduto sul divano, a
guardare il televisore ora spento. In quella casa non si sentiva un
rumore. C’era solo silenzio. Un silenzio irreale,
più assordante delle urla isteriche di Kibum di prima
mattina, di quelle di Taemin mentre Jinki o Minho facevano la lotta con
lui, ridendo, sul tappeto del salotto, ed anche più
assordante delle cantilene volutamente stonate di Jonghyun. E quelli
erano tutti suoni che esprimevano vita.
Vita che si era spenta.
Ed
eccolo lì, il sempre più irascibile Jonghyun,
entrare in salone, dirigendosi a grandi passi verso la porta
d’ingresso. Ed eccolo lì, invece, il radioso e
falso sorriso di Kibum, intanto che si voltava verso di lui.
«Dove stai andando, Jonghyun-ah?»
«Se Kyung.»
Una
risposta diretta, che non necessitava altre parole per soddisfare la
domanda di Kibum, il quale, non appena vide il suo ex migliore amico
chiudere la porta in maniera molto poco accorta, riprese a guardare lo
schermo nero, incantato. Dentro di sé gridava cose come “Piuttosto, avresti
potuto dirmi che ti avevano chiamato per un lavoro urgente”
oppure “Avresti
fatto meglio a non rispondermi”. E tutte le cose
che trovava ingiuste, riprendevano a vorticare pericolosamente nella
sua testa. Vorticavano, vorticavano… creavano un buco nero
in cui veniva risucchiato lui stesso per primo.
Fu
solo un istante, quello in cui si alzò ed andò a
chiudersi in bagno. Minho non riuscì a fermarlo…
«Kibum! Kibum!»
…
Neanche chiamandolo a gran voce. Possibile che fosse stato tanto bravo
a nascondere quel malessere? Quasi sette mesi che non stava bene e loro
non se n’erano accorti. Gli ci volle quello scatto
inaspettato per capire che il suo problema, era quello che prima lo
aiutava a risolverli.
Lui
e Jinki, dopo un po’ che bussavano alla porta, decisero di
arrendersi. Kibum non avrebbe di certo lasciato il suo posto su quel
freddo pavimento, in quella stanza dove ancora aleggiava il profumo
che, qualche minuto prima, il suo ex
migliore amico si era curato di spruzzarsi addosso. Solo per lei.
Nonostante
sarebbe stato del tutto giustificato un pianto dalle proporzioni epiche
–soprattutto dopo la tensione di quella mattina-
riuscì a piangere solo le solite due lacrime. Gli veniva da
singhiozzare e da sospirare, ma non piangeva davvero.
«Jjong…»
In
compenso, sussurrava il suo nome, anche più volte.
«Kibummie, mi apri?»
La
voce vellutata del maknae lo riportò alla realtà,
rompendo quella bolla di sapone dove si stava chiudendo per
l’ennesima volta, dove aveva iniziato a vedere dei momenti
passati come se fossero sulla pellicola di un vecchio film a bianco e
nero. E lo fece entrare, quel piccoletto, che si sedette accanto a lui,
appoggiandosi alla porta.
«È uscito con Se Kyung?»
«Ne.»
«Ti piace, hyung.»
«Non ci provare, Taemin. Non è
questo.»
«Diciamo che è anche
questo.»
Aveva
sempre voluto un gran bene, a Taemin, dimostrandolo più
volte, nel privato e non. Però lo guardò come se
avesse voluto tappargli la bocca con dello scotch, o iniziare a
prenderlo a schiaffi. In realtà gli era inverosimilmente
grato. Gli era grato di essersene stato zitto tutti quei mesi, di
essersi fatto gli affari suoi e di aver fatto di quelle sue uscite di
tanto in tanto, che avevano avuto nient'altro che la funzione di fargli
inquadrare meglio la situazione. Gli era grato anche per non essere
come Minho e Jinki. Non che a loro non volesse bene, anzi,
però avrebbe preferito che fossero stati di più
al loro posto. Probabilmente, se avessero compreso la situazione, se
avessero osservato di più –come, a quanto pare,
aveva fatto il maknae- non avrebbero reagito a quel modo ogni santo
giorno, riprendendolo se si faceva vedere un po’
giù.
Anche
a costo di star scomodi, il piccolo Taemin prese la palla al balzo,
facendolo dormire con la testa poggiata sulla sua spalla. Si vedeva che
aveva già iniziato a sentire il sonno sin da quando era
entrato lì, e, alla fine, aveva ceduto completamente.
***
Doveva
aver dormito parecchio. Adesso, sdraiato sul suo letto, riusciva a
vedere il cielo scuro dalla finestra aperta. Tentò di fare
mente locale, chiedendosi, per prima cosa, come ci fosse finito in
camera sua se s’era addormentato nel bagno. Era ovvio che
qualcuno ce l’avesse portato. Decise che non gli importava e
smise di pensarci. Poi si chiese perché si fosse
addormentato in bagno. Ah, ecco. Perché c’era
corso in preda alla disperazione. Sì, doveva aver dormito
decisamente tanto per trovarsi in un tale stato confusionale. Fra le
altre cose, si sentiva tutto appiccicaticcio, bagnato, quasi. Faceva
davvero troppo caldo, in quel periodo.
Ebbe
l’impulso di prendere il cellulare, rimasto poggiato sul
comodino per tutto il giorno. Ed ebbe un altrettanto irrefrenabile
impulso di prendere a scrivere un messaggio.
“Dove
sei?”
Ed
avrebbe avuto tutto il diritto, il suo ex migliore amico,
di rispondergli con un “Non
sono affari tuoi”.
Solo
che gli avrebbe fatto meno effetto, probabilmente, che sentire una voce
provenire da lì vicino.
«Sono qui.»
Stava
dormendo, va bene. O, altrimenti, era finito col pensarci davvero
troppo, tanto che era arrivato ad avere le allucinazioni. Fra le altre
cose, non poteva essere tanto tardi perché lui fosse
già tornato e, di certo, non si sarebbe intrufolato in
camera sua. Ed il solo pensiero gli dava i brividi. Ormai era diventata
off-limits, e l’idea che avesse visto tutte quelle foto
appese o, peggio ancora, letto il diario che portava avanti da tre
anni, gli faceva raggelare il sangue nelle vene. Ma che dico? Lo
rendeva impossibilitato anche a respirare.
In
ogni caso, per sicurezza, decise di voltarsi verso la scrivania ,
sollevandosi appena. Non prevalse il piacere nel vederlo lì
seduto, e neanche notò le lacrime che scorrevano copiose sul
suo viso. Prevalse la paura sovraumana che avesse potuto davvero
leggere qualcosa. Lo faceva sentire colpevole.
«Ma che ore sono?»
«Le undici.»
Solo
dalla sua risposta con voce spezzata, Kibum riuscì a capire
che Jonghyun stava piangendo, proprio lì, alla sedia della
sua scrivania. Si mise seduto anche lui, sul letto, a gambe incrociate.
Non si fece vedere assolutamente preoccupato né scosso nel
vederlo in quello stato, nel vederlo nella sua stanza –dopo
non sapeva neanche lui quanto- e, soprattutto, nel sentirlo parlargli.
«E cosa ci fai già qui?»
Al
contrario, voleva sembrare quasi infastidito dal trovarselo davanti.
Jonghyun
si voltò verso la scrivania, il diario di Kibum in una mano,
e poi portò di nuovo la sua attenzione al più
piccolo.
«Ho finito di leggerlo poco fa.»
Un
sorriso era accennato sulle labbra di Jonghyun, intanto che ancora
piangeva.
Kibum
cercò di darsi un contegno, o meglio, cercò di
non alzarsi, strapparglielo di mano e prenderlo a sberle.
Tentò di rimanere impassibile quanto poteva.
«Non ti ho mai dato il permesso. E poi non mi hai
ancora risposto.»
L’altro
fece semplicemente spallucce, rimettendo il diario al suo posto.
«L’ho lasciata, Kibum. Domani i manager
metteranno su qualcosa per i giornali.»
Il
più piccolo spalancò la bocca. Si aspettava
l’annuncio di nozze imminenti piuttosto che quello. Per
carità, non che non l’avesse desiderato
–e solo Dio poteva sapere quanto- ma la cosa
l’aveva talmente tanto spiazzato che non riuscì a
godere del momento neanche per un istante.
«Di tutte le idiozie che hai fatto, questa
è la peggiore.»
Jonghyun
sospirò, portando una mano sul viso, l’aria
evidentemente provata.
«Ascolta, se tutte le cose che hai scritto qui me
le avessi vomitate addosso tempo fa, avrei evitato un altro tipo di
idiozia. Neanche mi rendevo conto di starvi per perdere.»
“Starvi per
perdere” si ripeté Kibum nella mente.
Nel caso di Jonghyun, si disse che era solo un bene se fosse come Jinki
e Minho, se non avesse visto più in là come aveva
fatto Taemin.
Annuì,
semplicemente per il fatto che non sapeva bene cosa rispondere. Anzi,
più che altro è che non aveva voglia di
rispondere. E Jonghyun, con un grande sforzo nel mettere insieme due
parole serie, tentò di riprendere il discorso.
«Mi dici cosa trovi di ingiusto?»
«Te le griderei tutte dietro, ma non è
il caso.»
«Fallo.»
Si
imbronciò al pari di un bambino, Kibum, per non parlare
degli occhi che sentiva inumidirsi. E no, non fece scendere le solite
due lacrime, ma un fiume che non riuscì a controllare
neanche con tutta la forza di volontà. Prese uno dei cuscini
lì da parte e glielo lanciò dietro, quasi alla
cieca, ma andò a segno. L’avrebbe picchiato
volentieri.
«Io ti uccido, Kim Jonghyun!»
gridò letteralmente, ed intanto prendeva a singhiozzare.
L’altro,
col cuscino fra le mani, era rimasto con la bocca aperta, come al
solito, formando una perfetta ‘o’ ed assicurandosi
una faccia da mentecatto, cosa che mandò ulteriormente in
bestia Kibum.
«E tu ti rendi conto che quella lì, per
sette mesi, ha avuto la possibilità di trovarsi quella
faccia da idiota davanti più di quanto non facessi io, eh?!
Un idiota sei, Kim Jonghyun, sei un idiota e
nient’altro!»
Dato
l’input per iniziare a sputar veleno, probabilmente
nessuno avrebbe potuto più fermarlo.
«Ma che ti credevi? Che potesse starti dietro come
me? E che potesse avere la pazienza di ricordarsi tutta la tua vita a
memoria come ho fatto io,
accidenti?! Oppure vuol dire che sei un bugiardo e sparavi idiozie
dicendo che eri felice solo accompagnandomi al centro commerciale, dato
che ti sei rimangiato tutto senza il minimo problema.»
Era
vero. Era scappato da quella bella attrice di colpo, volendo come
cancellare anni ed anni di intensa amicizia con colui che gli stava
gridando fra le lacrime. A dir la verità, non era proprio
amicizia. Stava diventando un rapporto di simbiosi, quasi.
«Tu dicevi che non t’andava neanche di
fidanzarti perché tanto bastavo io e non t’andava
di rischiare di “distrarti”. Ed avevi anche detto
che avresti voluto andare ad abitare insieme, "‘Fanculo al
dormitorio!"»
In
tutto questo, Jonghyun teneva la testa bassa.
«Ti pare giusto che io sia stato privato
dell’unica cosa che mi salvava? No, non lo è
stato, anche perché chi si è preso tutte le
priorità che avevo io non ti avrà certamente
visto allo stesso modo in cui lo facevo io, e non si sarà
neanche sforzato di farlo, come facevo io. Io, io,
io… Io! Io ho fatto un sacco di sforzi per te, per noi, e mi
hai anche ripagato bene! E tutti quei discorsi sull’essere
diversi dagli altri perché si ha qualcuno a cui si vuole
bene come lo facevamo noi? Al diavolo pure quelli! Mi hai riempito di
tutte quelle belle storielle sul fatto che saresti riuscito a farmi
credere in qualcosa e poi sayōnara,
adios! Adesso esci.»
Terminata
quella raffica di parole taglienti, dette con una velocità
che avrebbero fatto annodare la lingua a chiunque, Kibum si stese
nuovamente sul letto, girato su un fianco, in modo da non vederlo.
«Kibummie…»
Ed
eccolo lì scattare seduto nuovamente, pronto a gridare,
incurante –nonostante cosciente- del fatto che ci fossero tre
attenti ed incuriositi ascoltatori dietro la porta.
«Non chiamarmi Kibummie!»
«Kibum…»
«Non chiamarmi!»
«Ma…»
«Esci!»
«Ma ascoltami, porca miseria!»
«No, e vedi di uscire da qui, pezzo di
idiota!»
A
giudicare dai rumori udibili dall’esterno, qualcuno o
qualcosa doveva essere caduto a terra. Successivamente videro la porta
spalancarsi con un Jonghyun appeso alla maniglia che poi,
semplicemente, iniziò a correre verso la sua stanza, seguito
da un Kibum a dir poco furioso.
«Chiedimi scusa! Adesso!»
Intanto
che stava sulla soglia, ricevette un cuscino addosso, e poi un altro.
In
tutto quel caos, Minho, Jinki e Taemin, optarono per riunirsi in cucina
ed ordinare da qualche ristorante giapponese aperto, per la prima volta
in tranquillità, dopo mesi e mesi. Sentire tutto quel
chiasso estremamente familiare, gli aveva fatto passare la tensione
accumulata in tutto quel tempo.
«Io ti ammazzo. Giuro che ti ammazzo!»
Generalmente,
oltre al gridare, e al fare qualche mossa, Kibum non amava scomporsi
più di tanto. Eppure si spinse oltre, scagliandosi sul letto
del più grande e, di conseguenza, addosso a lui, senza
risultare troppo delicato. Tentò di dargli sulla spalla
qualcosa che dovevano essere pugni, ma, un po’
perché non voleva realmente fargli male, un po’
perché gli mancava la forza, non risultò altro
che solletico, sulla pelle di Jonghyun, che, invece, si stava
lamentando per la botta che gli aveva dato sul fianco con un gomito.
Lo
strinse per le spalle, non riuscendo a trovare altro metodo per tenerlo
fermo. Andò a finire in un abbraccio, gesto che non si
scambiavano da troppo
tempo. Bastò anche per far stare zitto Kibum, il quale
riprese a piangere, sicuramente meno forte di prima. Tirò
anche un profondo respiro, come se, finalmente, avesse trovato un
po’ di pace. Non era sicuro di quante volte avesse sognato di
potersi sentire nuovamente abbracciare da lui. Quel gesto era, per lui,
il metodo di conforto per eccellenza, solo se proveniva da Jonghyun, e,
le sue braccia, diventavano rifugio –sicuramente molto
più della sua stanza in quell’ultimo periodo-.
Quante volte gliel’aveva ripetuto? Non si poteva neanche
contarle, ma, a quanto pare, era finito ugualmente col dimenticarsene.
«Dormiamo insieme, dopo?» propose
Jonghyun con tranquillità.
Nonostante quelle parole fossero all’ordine del giorno, tempo
prima, in quel momento suonarono completamente nuove alle orecchie di
entrambi.
«Ne.»
Non
aggiunse altro, Kibum, semplicemente perché gli sembrava
superfluo, o perché, con quanto aveva il cuore a mille,
sprecare un po’ più di ossigeno per due parole,
avrebbe voluto dire fargli venire un infarto.
Poté
giurare, fra l’altro, di non aver visto più quel
bel sorriso radioso che solo Jonghyun sapeva fare, da almeno un secolo.
Gli era sembrato davvero un tempo infinito. Si erano spenti entrambi,
da quando si erano distanziati tanto.
Si disse che aveva fatto bene a non nascondere quel diario.
Ed
eccolo, il solito bacio a fior di labbra che Jonghyun si concedeva di
dargli quando non c’erano telecamere. Bacio che non aveva mai
avuto alcun significato, se non lo stesso di un abbraccio dato
all’unica persona in grado di renderlo un umano meno
imperfetto rispetto agli altri.
«Siamo tornati, Kibummie.»
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