V i l k a s.― le luci di Vilnius.❞
【 1945, Unione Sovietica. 】
La neve lo
colpì in viso per l'ennesima volta, senza esitazione;
arrivava contro le sue labbra, aperte a tenere il ritmo di un respiro
ansante e affaticato dovuto alle gambe che, ad ogni passo frenetico,
affondavano nel terreno bagnato e fangoso. Il gelo gli mordeva i
polpacci, nonostante fossero ben coperti dagli stivali, sentiva il
vento entrargli nei polmoni e creare lì una calotta
ghiacciata.
Erano fuggiti.
Lui, Eduard e
Raivis erano fuggiti.
Quel giorno
Ivan li aveva avvertiti del fatto che si sarebbe assentato per circa
cinque ore e, nella mente del lituano, quell'idea aveva sibilato come
un serpente, pericolosa e rapida.
Se si fosse
trattato solo della sua persona non avrebbe aspettato a correre il
rischio, ma lì c'erano anche Eduard e Raivis; non voleva che
succedesse loro qualcosa, né tantomeno abbandonarli -
quest'ultima opzione era impossibile anche solo da pensare! -,
così aveva fatto finta che nulla gli avesse attraversato la
mente.
Ma quel
sibilare serpentino doveva esser stato in realtà molto
rumoroso, perché nemmeno un'ora dopo che i passi del russo
si erano allontanati da loro, la più insospettabile tra le
tre voci si era alzata.
"Andiamocene
da qui, vi prego."
Aveva detto
Raivis, con la mano tremante a stringere la tazza che aveva appena
svuotato. Eduard, seduto a leggere, era come scattato e Toris, che
invece stava mettendo a posto ciò che avevano utilizzato per
consumare quel the, aveva chiaramente avvertito la gabbia toracica
stringersi a morsa sul suo cuore, provocandogli una fitta capace di
farlo sbiancare.
«Ci
stavo pensando pure io.»
Aveva allora
aggiunto Eduard, cercando poi di sorridere, rassicurante.
Toris poteva
avvertire ora quell'idea urlare per tutta la stanza, spingere la loro
schiena per buttarli fuori da quella casa.
Cosa sarebbe
successo se il russo fosse tornato prima del previsto, o se fosse
arrivata Natalia?
Ivan si
sarebbe abbattuto subito su Raivis e Eduard, considerati meno
problematici, per poi passare a lui.
Non sarebbe
riuscito a proteggerli, in quel caso non sarebbe bastato dire di
volersi prendere la loro pena, la loro dose di ferite sulla schiena,
come già aveva più volte fatto, sia tenendo loro
nascosto il fatto che non.
«Ne
siete veramente sicuri?»
Aveva allora
chiesto, guardandoli negli occhi, uno alla volta.
Gli altri
baltici avevano contraccambiato e poi, avvicinandosi a Toris, annuito
con decisione.
Era stabilito.
Alle nove di
quella sera sarebbero fuggiti da quella prigione occulta.
Mancava una
sola ora al ritorno di Ivan, quando i tre furono all'entrata delle loro
terre; erano fuggiti con il cuore nella gola, portandosi dietro solo
qualche vestito, oggetti stretti in un abbraccio di ricordi e un
kalashnikov, caricato con proiettili che avevate trovato dove capitava.
Ivan si era
portato via la chiave della stanza degli armamenti, come se sempre
avesse immaginato una tale mossa dalla loro parte.
«Ora
come facciamo?»
Aveva chiesto
il lettone, con la voce roca per il freddo e la paura, che raggiungeva
livelli adrenalinici.
«Non
lo so. Dovremmo... dividerci.»
Fu la risposta
di Eduard, la più sincera che mai avrebbe potuto dare.
Toris era
rimasto fermo, con lo sguardo perso nell'orizzonte a osservare la linea
immaginaria, un solco spesso che richiedeva di essere varcato solo con
un grande passo.
C'era un'unica
cosa che gli frullava nella testa, un'idea senza sicurezze
né certezze, un vero e proprio salto nel vuoto.
Toris era una
persona riflessiva: rifletteva su ogni cosa, dai più piccoli
dettagli alle domande di curiosità, rifletteva tanto, in
modo da fare la scelta giusta e non far sbagliare nemmeno gli altri.
Ma in quel
momento non c'era il tempo per riflettere; c'era solo il tempo di agire.
«...
Tenete.»
Aveva detto,
spingendo contro il petto di Eduard il kalashnikov che fino a quel
momento aveva tenuto il lituano, ben nascosto da un telo color ocra,
senza badare agli occhi dell'estone che si riempivano di domande
riguardanti il perché di tale gesto.
«Toris,
cosa...»
«Voi
proseguite assieme, io cerco di raggiungere Vilnius. Chiamate non
appena arrivate a Tallinn o Riga, qualunque sia l'ora!»
Disse,
imponendosi con lo sguardo severo che gli occhi azzurri avevano preso.
Poi
l'espressione facciale mutò di nuovo, tornando a essere quel
sorriso dolce e rassicurante che il lituano aveva sulle labbra ogni
volta che si trovavano ad affrontare situazione difficili.
Eduard e
Raivis erano come due fratelli minori, non voleva perderli per nessun
motivo.
«
Andrà tutto bene.»
Furono le
ultime parole che il lituano disse loro, prima di varcare la linea ed
entrare nella sua patria, totalmente disarmato e sfinito dal freddo.
Lo sguardo
vagò, cercando qualcosa: non vedeva nulla, le luci della
città erano soffocate dalla neve che cadeva in diagonale,
sferzata dal vento ancor più gelido.
Toris non
sentiva sulla sua pelle un inverno così freddo da anni.
O meglio, da
secoli.
Un vero e
proprio pugno di neve arrivò dritto sulle sue labbra,
entrando senza chiedere permesso alcuno nella gola. Il colpo fu tanto
improvviso che, improvvisamente, sentì tutta l'aria andare
via e, con un gemito strozzato, si portò una mano al collo,
là dove sentiva premere qualcosa con forza.
Cadde in
ginocchio sul terreno bagnato, continuando a tossire e tossire, con le
lacrime agli occhi, fin quando quel ghiaccio non se ne andò
via, permettendogli di respirare.
Il petto si
alzava e si abbassava con un ritmo irregolare, gli occhi, bagnati di
neve e lacrime, fissavano ciò che avevano di fronte, quel
bianco così puro.
Chissà
quanto sangue c'era sotto.
La vista
sfumò all'improvviso e, prima che se ne potesse rendere
conto, la faccia impattò contro il duro terreno.
«Devo...
devo alzarmi...»
Disse, facendo
passare la frase tra i denti battenti.
Un dire che
nessuno avrebbe ascoltato, tantomeno il suo corpo: lo sentiva
sprofondare in quell'ovattata e gelida superficie, avvertiva quel
freddo dolente entrargli sotto la pelle, scorrere nelle vene assieme al
sangue, anzi, sostituendo quest'ultimo.
Se Ivan non lo
avesse trovato prima, sarebbe stata la neve ad ammazzarlo.
L'aria,
lentamente, in sospiri lenti e profondi, andava via da i polmoni, la
vista si appannava, come poteva constatare dal vedere la sua mano
sdoppiarsi e sfocarsi, fino a diventare una macchia scura in quel
bianco assassino.
Anche lui tra
poco avrebbe fatto tale fine: una macchia nella neve.
Era strano
come il peso che ogni giorno fino ad allora aveva sopportato in modo
quasi inumano lo avesse adesso buttato a terra, schiacciandolo.
Le ghiacce
spire seguivano le linee di carne graffiata sulla sua schiena,
danzavano su quelle cicatrici, opprimenti, facendole dolere come mai.
Sarebbe mai
finito quell'incubo?
Sarebbe
riuscito, Toris, ad abbandonare la zona d'ombra della guerra,
raggiungendo la luce dell'indipendenza?
La
libertà era la cosa che più desiderava.
Più
di qualcosa di caldo, più di una cura per quel dolore alla
schiena, lui voleva, desiderava, piangeva la libertà.
In quei
momenti, così rari e sporadici, i ricordi lo assalivano: in
quel caos calmo vedeva i tempi delle dispute con Gilbert, delle
passeggiate con l'amico Feliks.
Di quando al
fianco teneva la spada; la sua adorata spada, la sua forza, la sua...
"Clack."
Un rumore
meccanico fece allarmare Toris, capace solo di girare gli occhi alla
ricerca della fonte di quel continuo cigolare.
Sembravano...
passi.
Passi piccoli,
delicati e appena distanziati l'uno dall'altro, improbabili anche per
un bambino.
Ma quale
animale poteva esser fatto di...
" Metallo. "
Il pensiero
arrivò in un attimo, fulminante.
No, non era
possibile.
Quella era...
era una leggenda, una leggenda e null'altro!
Impulsivamente,
comandato da una forza di cui non conosceva assolutamente la
provenienza, il lituano scattò, trovandosi inginocchiato di
fronte a quella visione.
Non sapeva che
dire, non sapeva nemmeno respirare, in quel momento.
L'unica cosa
che riusciva a fare era osservare la creatura che gli si parava davanti:
Il Lupo di
Metallo.
La leggenda
che da secoli si tramandava di generazione e generazione nel suo paese
adesso stava avanzando verso di lui, lentamente, e lo fissava con i
suoi stessi occhi: un azzurro color cielo intenso e profondo, ma ben
più glaciale di quello del lituano.
Erano gli
occhi che aveva nelle battaglie passate.
Così,
perso a fissare null’altro che quelle pupille avvolte da una
maschera di metallo, Toris non si accorse di quanto vicina la creatura
fosse fino a quando la nuvola del suo respiro s'infranse contro la sua.
Ma non si
mosse; Toris non fece nemmeno un movimento, rimase lì,
imbambolato, a osservare la neve scivolare sul pelo, avente il colore
della luna.
Non c'era
altro, nella sua mente sconvolta e sorpresa, che non fosse l'immagine
di quel lupo che ancora lo guardava senza minimamente distogliere lo
sguardo.
«Io...
io ti ho già incontrato.»
Quella fu
l'unica cosa che riuscì a pronunciare, facendo muovere le
labbra dischiuse e seccate, esattamente come accadeva con i fiori, da
quel freddo prepotente.
Il lupo quasi
sembrò sorridere di quella domanda, ma non mostrò
i canini, non lo fece nemmeno una volta.
Un comune
animale di quel genere li avrebbe già affondati nella sua
così invitante giugulare, ma quella che Toris aveva davanti
era una leggenda, una divinità, un mostro e un angelo
protettore senza parole.
La bestia
mosse altri due passi, non lasciando nessun impronta nel manto bianco,
si avvicinò ancor più al lituano, ancora e
ancora, arrivando a due, no, a un solo centimetro dal suo viso e poi ad
ancor meno.
Erano occhio a
occhio.
Il viso di
Toris, il suo profilo umano, era posato contro il muso appuntito del
Lupo, sentiva a contatto la sua pelle con il metallo bollente.
Stava
respirando?
No, non lo
sapeva. Non sapeva quale fosse l'esatto funzionamento del cuore, dei
polmoni, non sapeva se stava avendo paura, se era stupito o se,
più semplicemente, era così curioso che il fiato
gli era andato via.
Il blu degli
occhi del lupo lo stava avvolgendo: il cerchio della cornea si era
spezzato e adesso si stringeva attorno al busto di Toris, s'incatenava
con la gemella dei suoi occhi.
Blu.
In quel
momento tutto era blu.
Non c'era
più la neve, né il dolore e la debolezza.
Si trovava nel
limbo degli occhi del lupo.
" Ricorda. "
La voce
sembrava arrivare dall'esterno, un’eco lontano e misterioso;
era la voce del Lupo di Metallo, Toris ne era più che certo,
anche se non lo poteva vedere.
Era la
perfetta congiunzione dell'armonia di note emessa dal suo ululato con
il parlato lituano.
Anzi, ora che
Toris ascoltava bene si accorgeva che quello non stava parlando, ma
continuando a ululare: le parole si trasformavano nel suo cervello,
come una traduzione istantanea.
Come
ciò fosse possibile non se lo chiedeva e, in quel momento,
assolutamente non gli interessava.
Continuava a
fissare l'infinità di quell'azzurro che si estendeva in ogni
direzione senza mai aver fine.
«Cosa
devo ricordare?»
Chiese, con un
filo di voce, imparagonabile al tono fiero ed echeggiante che la
creatura possedeva.
Poi uno
squarcio aprì la meravigliosa monotonia, così
improvviso e diverso che Toris sentì gli occhi bruciargli,
come quando si passa velocemente dall'oscurità totale alla
luce.
Lo squarcio si
allargava e si allargava ancora, proprio nello stesso modo con cui si
strappa una stoffa, e, in contemporanea, il corpo del castano si
alleggeriva, ma non aveva paura.
Ne stava
perdendo la sensibilità: ormai le gambe, il petto, le
braccia e le spalle erano come spariti, riusciva solo a percepire i
suoi occhi spalancarsi, la bocca cercare di rubare a quel mondo
sconosciuto un respiro, prima che anche essa sparissr, assieme
all'ultimo ritaglio di azzurro.
Toris era
stato appena inghiottito dai ricordi.
Buio, tutto
era buio.
La notte ti
aveva sempre fatto paura, odiavi passarla da solo.
Ti faceva
paura quando eri nel grande castello di Trakai, figurarsi l'effetto che
poteva fare in un bosco e completamente da solo.
Non ti
muovevi, non ne volevi sapere; ma non perché non sapevi
camminare, seppur piccolo ormai avevi imparato a farlo, anzi, andavi
pure in giro nell'immenso cortile del castello sul puledro di sangue
puro che il Granduca ti aveva regalato.
Lui stesso,
alla seconda volta in cui lo cavalcavi, con lo sguardo fiero di un
padre e le braccia incrociate al petto, ti aveva detto che sembravi
nato per stare a cavallo, riempiendoti di bambinesco orgoglio.
In quel
momento già ti sognavi cavaliere, non sapendo che quel sogno
era più vicino alla realtà di quanto potevi mai
immaginare.
«Granduca...?»
Chiamasti,
sentendo l'eco della tua piccola voce arrivare fino alle punte degli
alberi; la foresta stava attorno a te, scura e china, tanto che
sembrava pronta, da un momento a l'altro, a lanciarsi sul tuo piccolo
corpo e divorarlo.
Chiamasti
ancora quell'appellativo signorile, ricevendo per l'ennesima volta in
risposta solo il verso greve di qualche volatile che si alzava in volo,
il cui sonno era stato interrotto dal tuo urlare.
Mai un
qualcosa di simile a passi umani o, ancor meglio, a una voce, avevi
udito a quelle domande: c'era solo lo scorrere incessante del poco
lontano fiume Vilna e il parlare a te straniero di quelli che abitavano
la foresta.
Non doveva
essere piacevole ritrovarsi un bambino totalmente estraneo a urlare
nella propria casa!
O almeno tu la
pensavi così, nella tua mente spaventata.
Essa era tutta
affollata di tali pensieri, un groviglio impossibile da sciogliere, di
quelli che se tiravi un solo filo per provare a rimuoverlo, allora
tutti gli altri si smuovevano, cambiavano posizione, e la situazione
altro non faceva che peggiorare.
Sentisti gli
occhi bagnarsi di lacrime e un groppone che fino ad allora avevi
ricacciato giù salire odiosamente alla gola, facendo
capolino al di fuori di essa con un primo singulto.
Quello doveva
essere un giorno importante.
Il Granduca
Gediminas ti aveva cercato di sua persona, senza mandare servi o
valletti, dicendoti che, nelle ore serali, gradiva che tu partecipassi
a un grande battuta di caccia.
Solitamente
tale pregio si dava a quelli che si affacciavano sul lato maturo della
vita, ma a te, per qualche strano motivo il quale tu, bambino nella tua
felicità ovattata, non riuscivi a comprendere, era stato
concesso ben prima.
Non avresti
cacciato, però, e la cosa un po' ti rincuorava, solo
assistito e imparato arti fondamentali come il saper mirare con le
frecce, come farlo da cavallo e quando scoccare.
Tutte cose
fondamentali per la caccia, ma, soprattutto, per la guerra.
L'insegnamento
di tale arte, per voi Entità in forma umana, era successivo
a quello della lingua e dalla cultura, che eravate soliti apprendere
con una velocità anormale per altri bambini.
E anche le
armi, così come esse, erano un qualcosa che vi riusciva
quasi immediato imparare.
Fin da piccoli
ogni cosa vi sussurrava all'orecchio che non eravate comuni essere
umani e che, assieme al luogo in cui eravate nati, avevate nel sangue
anche la propensione verso la lotta.
Era
inevitabile e non avrebbe aspettato di vedervi crescere.
Arrivata l'ora
della partenza verso la foresta ti eri diretto, con il cuore che
batteva per l'emozione, verso l'uscita del castello, dove avevi visto,
così stupefatto da aprire nuovamente la bocca, un gran
gruppo di soldati a cavallo, tutti attorno al Granduca, che
già tra la folla di animali e armature ti aveva individuato.
Sembrava
più che stessero per andare in guerra, che a caccia!
«
Toris, sei arrivato. »
«S-Sì,
Granduca.»
Rispondesti,
inchinandoti subito e velocemente, come se il gesto di chinare la
schiena si attivasse in automatico alla vista di coloro che regnavano.
«Devo
solo prendere il mio cavallo.»
Aggiungesti,
con voce leggermente tremolante sempre per via dei sentimenti che
pizzicavano, urticanti, il tuo piccolo stomaco.
Sentisti
l'uomo sorridere, sopra di te, o forse era solo lo sbuffo del grande
stallone bianco su cui sedeva, con la schiena dritta e il portamento
degno di un regale uomo di spada.
«
Non ce ne sarà bisogno, Toris. »
Disse, e tu,
confuso e stupito, alzasti lo sguardo su di lui, uscendo da quella
riverenza in cui eri rimasto praticamente bloccato.
Ma la
spiegazione non tardò ad arrivare.
«
Oggi cavalchi con me. »
Detto questo,
sotto i tuoi occhi blu, spalancati in tutta la loro grandezza, scese da
cavallo, ti prese sotto le braccia e nuovamente risalì,
senza l’aiuto di nessun paggio, posandoti davanti a lui.
Eri
così... in alto! Avevi visto bene, quel cavallo era davvero
gigantesco!
O forse eri tu
troppo piccolo, chissà.
Tenendo ben
stretta parte delle briglie, eravate partiti al trotto verso l'area
scelta dal Granduca.
Già
prima che la luna calasse, i tuoi occhi da bambino avevano visto
partire fulminee dagli archi ventine di frecce, tutte mirate a creature
che, spaurite, uscivano dai cespugli per provare a scappare.
Animali di
ogni dimensione, carni che avrebbero costituito leccornie per le cene
di quei giorni; su tutta la selvaggina su cui l'occhio di Gediminas si
posava, finiva con il disegnarsi una rosa rossa sempre vicinissima al
cuore, di qualunque stazza esse fossero.
Una preda in
particolare colse l'attenzione dell'attento cacciatore: un cervo di
grande stazza e con gambe lunghe che gli permisero di sfuggire ben due
volte dagli attacchi del Granduca.
Gediminas non
era tipo che si arrendeva e tantomeno quello che si lasciava sfuggire
così qualcosa da sotto il naso; vi spingeste ancor
più dentro la foresta, ancora e ancora, ad un ritmo
incessante che lui, ben ancorato al cavallo, poteva benissimo tenere,
ma a cui tu, con le mani che si erano graffiate a forza di stringere
quel misero appiglio vicino alla criniera, rischiavi presto di cedere,
ritrovandoti sbalzato via.
Con un secco
tirare di redini e un vocalizzo che aveva tutto l'intento d'imporsi,
l'uomo fermò la corsa senza tregua del cavallo, scendendo da
esso con un solo braccio.
«
Aspettami qui,» aveva detto «tornerò
prima che il buio si stringa attorno a te.»
Tu avevi
annuito e poi seguito la sua immagine correre dietro al cervo, ormai
sparito nel verde muschiato e nel marrone della foresta.
Non era
tornato; il buio l'aveva raggiunto fino a sfiorargli con le dita le
gambe e le braccia, ma Gediminas non c'era.
Preoccupato
per la sua salute ( che qualche lupo lo avesse aggredito?) avevi
camminato per chilometri e chilometri, sotto la neve che continuamente
cadeva sui tuoi capelli, inumidendoli, e sulle tue ciglia.
Attorcigliasti
le braccia attorno al piccolo petto, stringendo e stringendo, nella
ricerca di una piccolissima dose di calore. I vestiti che avevi
indossato erano pesanti, ma la notte si stava rivelando mille volte
più fredda del previsto.
La neve, nella
quale affondavi fino a sopra i polpacci, era entrata dentro le tue
scarpe, raggelando i piedi, che adesso sentivi gonfi e... no, come non
detto, non li sentivi proprio.
I geloni,
ormai anche sulle tue mani arrossate, rendevano ogni passo una tortura:
non erano solo la fatica e il freddo a spomparti, ma anche la paura di
non riuscire a trovare nessuno e venir portato via da qualche bestia
che popolava le foreste del Granducato.
" Ho tanto
sonno... "
Quel pensiero
emerse sopra tutti gli altri, più e ancor più
volte.
“Plof”.
Le tue
orecchie avvertirono con chiarezza un tonfo sordo e ovattato; cos'era
stato?
Per un momento
avevi chiuso gli occhi e...
Oh.
Eri tu, caduto
di lato in quel manto candido, tanto bello quanto tremendo.
Cercasti di
tirarti su una volta, due, ma nulla riusciva a far muovere nemmeno di
un centimetro la tua piccola figura dal terreno.
Il tuo intero
essere era intorpidito, nulla rispondeva ai tuoi comandi mentali e,
soprattutto, non ne partivano in nessuna parte del tuo cervello.
L'unico
sforzo, che in quel momento ti sembrava una vera guerra, era quello di
combattere in continuazione contro le tue palpebre, così
tremendamente pesanti, che imploravano perché lasciassi loro
chiudersi.
Desideravi
così tanto la tua camera, nel castello di Trakai; era una
stanza dalle altre soffitta, con un letto a baldacchino che lui aveva
sempre considerato troppo grande e sui aveva anche
difficoltà a salire, a causa dell'altezza. Sembrava di dover
montare a cavallo!
La notte
dormivi sotto tutte quelle coperte e quelle pelli, intrecciate tra loro
in modo da creare una barriera che non facesse entrare, là
dove era nascosto il tuo corpo, nessuno spiffero, con la testa posata
su i cuscini che la donna affidatati provvedeva a sistemare nel giusto
modo.
La ringraziavi
gentilmente ogni sera e lo facevi nuovamente quando ti narrava qualche
gesta dei re, considerate quasi leggende, alla luce fioca e calma di
una candela.
Quel ricordo
ovattato altro non faceva che invogliarti a chiudere gli occhi,
abbandonandoti a quella sensazione di torpore, che si fece sentire con
un leggero sbadiglio, il quale volò via dopo poco in una
nuvola di condensa.
... Un leggero
sonno... qualche ora, forse, te la potevi permettere... avresti
lasciato fare da coperta alla neve...
Ma fu proprio
quando gli zaffiri stavano definitivamente per chiudersi che il cielo
venne squarciato dal boato più forte che le tue orecchie mai
avessero potuto sentire.
Ululati; non
uno, ma... cento!
Cento lupi
che, con una coordinazione tale da risultare una melodia monodica,
ululavano con tutta la loro voce.
Ma davanti a
te ne stava uno solo.
Inerme,
osservasti l'animale che stava a un metro di distanza da te: il suo
pelo era argenteo e su di esso, teneva una vera e propria armatura di
metallo.
"Dev'essere un
Re."
Pensasti; il
Re di quella foresta, a cui i corvi, i conigli e i cervi erano sudditi,
così come gli altri lupi.
E,
così come gli altri lupi, anche quello si sarebbe dovuto
già esser lanciato su di te, a divorare la tua carne offerta
su un piatto d'argento dal freddo inverno.
Ma non lo
faceva, rimaneva lì, a fissare i tuoi occhi blu, in cui
tutto c'era meno che la paura verso la sua figura.
Non
avevi timore di quella grande creatura corazzata, anzi... ti
dava fiducia.
Forse
perché era l'unica cosa che in quella solitudine avevi
incontrato o forse perché, a differenza di tutti i lupi che
avevi incontrato fino a quel momento, non ti aveva mostrato le due
fitte file di denti appuntiti e sporchi di sangue di altre vittime,
lasciandoti nel dubbio del fatto che esse fossero animali o umane, ma,
semplicemente, aveva ululato -forse per svegliarti.- ed era rimasto a
guardare la tua persona.
Dovevi dirgli
qualcosa.
Non sapevi
cosa, non sapevi perché e quanto potesse essere utile
parlare con un lupo ( anche se tutto te stesso urlava che quello era un
essere al di sopra sia degli altri lupi, che degli animali, che degli
uomini. ), ma dovevi.
Allungasti
appena il corto braccio sinistro verso quella enigmatica figura,
facendolo strisciare sulla neve, troppo debole pure per riuscire ad
alzarlo.
«
... Vilkas...»
Lo chiamasti
nella tua lingua, con l'unico filo di voce che ti era rimasto
nell'ormai secca gola e l'animale fece scattare due volte le orecchie,
sbattendo gli occhi dal taglio stretto.
Solo ora,
vedendo l'ennesima nuvoletta di condensazione, dovuta alla tua
precedente frase, alzarsi verso il cielo, notasti che dalle sue narici
e dalla sua bocca, ben serrata, non usciva nulla.
All'improvviso,
con un cigolio metallico, il lupo mosse passi lenti e pesanti, dovuti
probabilmente proprio a quella regale armatura, che si fermarono solo
quando le zampe anteriori furono tremendamente vicine alla punta del
tuo naso.
Fatto
ciò girò attorno a te un paio di volte,
stringendo ogni volta i cerchi e piegando di qualche centimetro le
ginocchia, fino a quando non si trovò seduto acciambellato
attorno al tuo corpicino.
Oh.
Voleva che ti
accoccolassi...?
Lo osservasti,
mentre posava la testa sulla zampe e abbassava le orecchie,
socchiudendo gli occhi; forse voleva dormire anche lui.
Quasi
intimidito, riuscisti a sollevare di un poco il busto, quanto bastava
per posarlo poi nuovamente, assieme alla testa, sul ventre metallico.
Era... caldo!
Quasi bollente! Un calore già di per sé
innaturale per un animale e per un'armatura, in quella stagione, poi...
... poi, in
verità, non t'importava più di tanto.
Il calore che
sprigionava il Lupo di Metallo era tremendamente accogliente, inoltre
l'armatura copriva qualunque rumore, che fosse esterno o direttamente
interno al canide .
Non pensavi,
nella tua ingenuità e nel torpore, che il silenzio
proveniente dal petto di pelo argenteo o il fatto che esso non si
alzasse e abbassasse con il respiro, fosse dovuto a ben altro motivo e
natura.
«Grazie
mille, Vilkas.»
Adesso Toris
ricordava tutto.
La mattina a
seguire il Granduca Gediminas, reggente in quell'anno, il 1323, lo
aveva trovato addormentato a terra, vestito solo dalla neve.
Il suo corpo
si era tramutato da quello che pareva possedere un bambino di quattro
anni a quello di un ragazzo che sfiorava con la sua altezza la
quindicina.
Stretta tra le
mani e posata tra il suo zigomo destro e il terreno, teneva una spada
dall'elsa intrecciata e argentea; metallo puro e lucente, da cima a
fondo.
Assieme a
quella spada, quel giorno, aveva trovato il suo cuore: Vilnius.
Al Granduca
era apparso in sogno l'essere che lui aveva toccato con le mani e con
il volto e l'oracolo aveva interpretato tutto quello come un segnale:
gli dei volevano che Gediminas fondasse la nuova capitale là
dove quella notte si erano persi, nella collinetta in cui il fiume
Vilna s'immetteva nel più grande Neris.
Mai il suo
cuore aveva battuto forte come allora.
Da quel giorno
non si era più separato da quella spada: l'aveva chiamata
"Vilkas".
Il nome era
stato deciso nell'esatto momento in cui il suo addestramento come
cavaliere era iniziato -rivelandosi soddisfacente ben fruttuoso-,
scelto in quanto i disegni sull'elsa sembravano proprio gli smerli che
possedeva anche l'armatura di quel lupo, suo salvatore, e
perché ogni volta che l'usava, tagliando con la sua liscia
lama l'aria, il rumore che sprigionava, a detta sua e di tutti coloro
che l'avevano potuta ascoltare, pareva proprio l'ululato di un lupo.
Con lei aveva
combattuto le più grandi battaglie: fedele compagna, si era
sempre abbattuta con forza e velocità sul nemico, affondando
nello sfortunato così come i canini di quelle bestie
affondavano nelle giugulari .
Aveva
continuato a portarla al fianco, stretta nel fodero di puro metallo,
fino a quando l'era delle spade e delle lame non si concluse, lasciando
spazio a quella della polvere da sparo.
Allora l'aveva
riposta proprio a Vilnius, nella Cattedrale omonima; doveva essere in
quel momento che la memoria di quell'incontro era iniziata a scemare e,
assieme ad essa, anche la forza e il vigore che Toris aveva in passato.
Aveva perso
quello che serviva per essere un cavaliere, era solo un misero soldato,
i cui fili erano tenuti da qualcuno che poteva usarlo come un alleato e
trattarlo come un servo allo stesso tempo.
Quell'ultimo
pensiero scatenò in lui una fiamma, che veloce
salì fino agli occhi d'azzurro tinti, i quali fissarono le
coppie dello spirito rivelatore.
Sembrava quasi
che gli stesse sorridendo.
«Perdonami
per averti dimenticato.»
Disse e questa
volta il lituano sorrise al Lupo, ancora di fronte a lui, alzando un
braccio verso il suo pelo come era già successo.
Anche allora
il grande animale argentato e metallico emise uno sbuffo e, con gli
stessi passi, si avvicino ancora e ancora a Toris, fino a quando il
lituano non poté stringerlo tra le braccia infreddolite,
chiudendo gli occhi.
La sua corazza
era bollente come ricordava.
Un centinaio
di ululati raccolti in una solo fonte ruppero nuovamente l'aria,
salirono fino alle nuvole grigie e ghiacce, squarciandole e lasciando
filtrare tra esse i raggi di un sole tepido, ma bellissimo.
Quando Toris
aprì gli occhi, disturbato dalla lucentezza di tale stella,
il Lupo di Metallo non c'era più.
Al suo posto,
tra le braccia, il lituano aveva un fucile dalla canna argentea e
splendente, che si tingeva dei colori dei raggi quando essi battevano
lungo il metallo.
Toris lo
guardò, esterrefatto, passò le dita dal manico
scuro per tutta la sua superficie, fino a cerchiare il foro da cui
uscivano le pallottole con il pollice sinistro.
Fatto
ciò, ancora più curioso di osservare quell'arma
apparsa nel nulla, lo voltò dall'altra parte e subito
qualcosa colpì i suoi occhi: il dito indice, delicato,
passò negli interni dell'incisione argentea che stava sul
basso della canna, in carattere corsivo; mano a mano che lo faceva
sulla sua bocca si delineava la pronuncia della lettera appena
analizzata e, soprattutto, un sorriso sempre più largo e
speranzoso.
«" Vilkas ".
»
Lesse, con una
mezza e stupita risata finale.
Gli veniva
quasi da piangere, tanta era la commozione in quel momento e,
soprattutto, i pensieri che nella sua mente arrivavano tutti assieme,
come tanti e rumorosi fuochi d'artificio.
Con un sorriso
e una ritrovata luce negli occhi, Toris si alzò in piedi,
pulendosi la neve dalle ginocchia e rimettendosi in cammino, con Vilkas
in spalla e la testa dritta.
C'era ancora
speranza, e non poca.
La Lituania
poteva spezzare quelle catene così pesanti che per fin
troppo tempo si era trascinata silenziosamente dietro.
Questo
perché mai, fino ad allora, aveva creduto di poterle rompere
a mani nude, negando ostinatamente la forza che in passato, come un
uragano di lame, aveva travolto tutti quelli che in passato gli davano
battaglia.
Adesso aveva
finalmente ritrovato la volontà di usare quella forza, di
prendere in mano quelle catene e tirare fino a quando gli anelli non
sarebbero saltati; così facendo ci si poteva indubbiamente
ferire le mani, ma Toris di quello non aveva la ben ché
minima paura.
Avrebbe
combattuto fino alla fine, avrebbe lasciato che la polvere da sparo
entrasse nei suoi polmoni, assieme alle pallottole, per non andarsene
mai più, avrebbe fatto di tutto per poter assaporare
nuovamente, un giorno, il profumo della libertà.
In
quell'esatto momento per Toris cominciava la vera lotta, quella per
difendere un diritto che la vita aveva dato a lui e a tutto il suo
amato popolo.
Pochi passi da
lui, a nord, le luci di Vilnius iniziavano ad accendersi.
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Ed ecco conclusa
quest'one-shot-
L'ho scritta parecchio
tempo fa e mai pubblicata... spero sia stata una buona idea farlo
x°
E spero anche di
ricevere commenti, apprezzamenti o consigli!
Mi rendo conto che su
Hetalia ho pubblicato tutte cose su Toris, qualcosa su Gilbert e
altro su Toris e Gilbert insieme. -MUORE-
Oh beh, spero
apprezzerete lo stesso!
Un bacio,
Valkyrie.
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