E
adesso torna a casa
Ho paura.
Forse, se ancora avessi
voglia di
parlare tra me e me, sarebbe questo che direi. Non mi vergogno. La
paura fa
parte di noi, senza quella non saremmo uomini, senza la paura non
esistono i
cavalieri. Era questo che dicevo ai miei soldati prima di ogni
battaglia?
Non lo so. La sicurezza
di qualunque
pensiero sfuma ed impallidisce lentamente, come se ci tenesse a
lasciarmi la
mente completamente svuotata con studiata lentezza, minuto dopo minuto.
Sta
diventando difficile distinguere i ricordi dalle fantasie.
Forse, quando sei un
prigioniero, i
sogni e la realtà sono come la notte e il giorno. Dopo un po’ si perde
la
voglia di riconoscerli e dividerli tra loro, e ti abbandoni alle false
consolazioni che ti possono offrire.
Mi aggrappo con forza
alle catene che mi feriscono i polsi, deciso a non
lasciare andare nemmeno un particolare dei miei ricordi. Sono un
prigioniero.
Non so da quanto, non so per quanto ancora. Ma resisterò, sempre.
*
Arnaud
strinse la fiaccola tra le mani. La fiamma danzava gagliarda
sull’estremità
della torcia, quasi come fosse felice di
essere venuta al mondo. Il soldato allontanò dal viso il suo calore,
allungando
il braccio e gettando ombre sinistre lungo il corridoio delle segrete
dei
Soissons. Si scostò appena per far
passare uno dei tanti servitori del suo signore, che quel giorno aveva
ricevuto
l’ordine di portare il cibo ai prigionieri.
Arnaud fece
strada a quello che non si poteva definire niente di più che un
ragazzino
tremante dalla testa ai piedi. I suoi occhi erano pieni di dubbio e di
paura,
si guardava intorno sempre più frequentemente, il suo passo era
incerto. Arnaud
provò quasi pena per lui.
Dopo una
guerra come quella che si era finalmente conclusa a Bouvines, le
carceri si
riempivano di uomini. Soldati, cavalieri, feudatari e scudieri si
aggiungevano
alle file di ladri e assassini che già popolavano quell’ambiente oscuro
e
soffocante. Chi dietro le spalle aveva
una famiglia di conti o baroni, che potevano quindi pagare una cifra
piuttosto
alta per riavere al loro fianco i famigliari, veniva rilasciato in
libertà.
Sembrava
che appena un uomo mettesse piede nella dimora di un conte come
prigioniero di
guerra, cessasse di essere un cavaliere,
un barone o uno scudiero. Ma possedeva un prezzo, che il carceriere
esigeva
senza trattative. Solo chi era davvero
molto importante veniva trattato con riguardo, come era successo per il
fratellastro del re d’Inghilterra.
Nella
maggior parte dei casi, comunque, chi entrava nelle carceri non ne
usciva senza
lasciare un cospicuo pagamento. Era la triste realtà, una verità a cui
Arnaud
era abituato già da molti anni.
Le preghiere pronunciate
a voce alta
dal pover uomo nella cella accanto alla mia mi riecheggiano nelle
orecchie. Se
non fosse per lui, regnerebbe un silenzio profondo. Non so se
preferisco le sue
parole, il suo lamento disperato, le suppliche rivolte al soldato che
viene due
volte al giorno a portare del pane, o un silenzio che opprime le pareti
e sa di
muffa e paura.
Anche se so che essendo
il figlio di
un barone non rischio quasi niente, qui c’è qualcosa che mi mette
angoscia.
Forse è la brutale realtà di cui sono venuto a conoscenza in un modo
così
improvviso. Forse, la prigionia, non me l’aspettavo così.
Sono stato trascinato qui
in catene,
ma ho tenuto sempre la testa alta con orgoglio e sfrontatezza. Ero
consapevole
che sarebbe stata una dura prova, ma avevo la presunzione di poterla
affrontare
senza paura, accettando ancora una volta quel destino che di lasciarmi
in pace
proprio non ne voleva sapere. La verità è che non avevo la minima idea
di dove
questa volta mi avrebbe portato. Non avevo nemmeno pensato alle grida
dei
padri, ai prigionieri che erano lì da moltissimo tempo e ormai avevano
perso la
testa, alle preghiere continue del mio vicino di cella o alle persone
che si
buttavano contro le porte impenetrabili della prigione per un altro
tozzo di
pane, che sanno già che gli verrà negato.
A stento riesco a capire
il
significato delle loro parole, ma il suono di quelle grida mi arriva
nitido
alle orecchie. Mi chiedo se mi ridurrò
anche io così.
Stringo i pugni e inarco
la schiena,
lasciando che l’improvvisa luce della porta appena aperta mi accechi
per un
momento. Qualunque cosa succeda, nessuno mi porterà via quello che
resta di
Geoffrey Martewall. Faccio appello a tutta la determinazione che ho, a
tutto il
coraggio che riesco a trovare, anche se non mi sono mai sentito tanto
debole in
vita mia e di coraggio ne sento ben poco. Eppure, il forte orgoglio che
caratterizza un po’ tutti i Martewall mi permette di
guardare sempre dritto negli occhi uno dei
miei carcerieri.
Questa volta è un
ragazzino a
portare il cibo. Sembra più spaventato lui di tutti i prigionieri messi
insieme. Evidentemente le urla non impensieriscono solo me.
Mi posa vicino al braccio
un pezzo
di pane e versa dell’acqua nuova nella ciotola, con mano tremante. Mi
guarda
alzando appena gli occhi, lo sconcerto ha lasciato il posto allo
stupore sul
suo viso. Rimango impassibile ed immobile, nonostante la fame mi
attanagli lo
stomaco. Gli occhi del ragazzino sono dilatati dalla sorpresa. Forse si
aspettava che gridassi anche io, che mi accanissi su quella misera
porzione di
cibo che mi spetta, o che lo supplicassi.
Mi limito a guardarlo
negli occhi,
una calma glaciale mi pervade, finché il ragazzo non viene richiamato
dal
soldato rimasto fuori dalla cella.
Arnaud
esortò il servo davanti a lui con una pacca sulla spalla, mentre i
prigionieri
continuavano a protestare. Quelli erano i pochi momenti di vita delle
prigioni,
quando i prigionieri potevano sentire i passi delle persone libere, al
di fuori
delle loro celle. Per il resto, erano avvolte in un silenzio
angosciante e
innaturale. A parte qualcuno che sussurrava e delirava a voce bassa,
così
velocemente che le parole risultavano incomprensibili.
Il soldato
richiuse con un tonfo secco la porta della piccola cella. Come aveva
previsto,
il prigioniero non emise un gemito di fronte alla luce che spariva
improvvisamente. Ormai, dopo quasi quattro mesi che gli portava il cibo
due
volte al giorno, Arnaud si era abituato al suo silenzio.
Le prime volte invece ne era rimasto stupito,
esattamente come il giovanissimo servitore, e aveva fatto in modo di
informarsi
sul conto degli ultimi uomini arrivati al castello come prigionieri di
guerra.
Non sapeva comunque molto su di lui. Era l’ultimogenito di un barone
inglese,
per il resto l’unica cosa che era
riuscito a capire era il fatto, piuttosto evidente, che il cavaliere
non aveva
nessuna intenzione di smettere di lottare, come facevano alcuni dopo
soli due
mesi passati nelle terribili prigioni dei Soissons. In qualche modo,
Arnaud
ammirava quel giovane, e si chiedeva come mai ancora nessuno fosse
venuto a
pagare il suo riscatto.
Il buio arriva troppo
velocemente,
torna prima che per i miei occhi sia possibile abituarsi alla luce.
Quanto
tempo è passato? Da quanto sono qui? Non faccio altro che chiedermi
questo. A
stento ricordo i primi tempi di prigionia, quando ancora avevo voglia
di
contare i giorni.
Detesto questo silenzio,
forse più
delle urla o delle suppliche tormentate dei prigionieri. Il mio vicino
di cella
ha smesso di pregare, ed io comincio ad odiare quest’aria vuota di
suoni. Un
qualsiasi cambiamento potrebbe forse risollevarmi, farmi stare meglio.
La
prigione sembra fuori dal tempo.
Quando ero appena
arrivato, a volte
mi capitava di sentire qualcuno parlare da solo, fare ragionamenti in
solitudine, ricordare a voce alta quello che aveva visto in passato.
Rimanevo
sempre spiazzato e incredulo ascoltando quelle voci. Adesso, invece,
capisco
terribilmente bene il bisogno di sentire la propria voce, di parlare
anche se
infondo non si ha nulla da dire a nessuno, di ricordare ad alta voce.
Devo aver passato molto
tempo qui
dentro, perché ricordo di aver provato a parlare da solo anche io, a
sussurrarmi delle frasi qualunque, dall’inutile contenuto, giusto per
sentire
di nuovo una voce umana. Ma mi sembra di essere diventato pazzo, e mi
blocco
subito dopo le prime parole, con orrore.
Non riesco ad
addormentarmi,
nonostante la stanchezza mi percorra le membra.
Forse per il dolore e il fastidio alle spalle ormai stanche di
stare
sempre nelle solita e scomoda posizione che le catene impongono loro, o
per
l’odore di muffa che mi tronca il respiro. Forse per i miei pensieri.
Forse, Geoffrey, tu pensi
troppo per
essere un prigioniero.
Non ho ancora abbandonato
niente,
nemmeno un dettaglio di quello che mi è capitato in questi ventisei
anni. Ho il
terrore di dimenticare, riporto continuamente alla mente ogni momento
del
passato. Non sono disposto a cedere. Ho ancora molto da perdere.
Le immagini della mia
famiglia sono
i ricordi più dolci e più tormentati allo stesso tempo. Chissà quante
cose sono
successe mentre io sono inchiodato qui.
Voglio sapere come stanno. Voglio sapere qualcosa, qualunque
cosa
andrebbe bene. Voglio tornare libero, non tanto per me, quanto per loro.
Mi chiedo se mio fratello
sia già
tornato a casa, se sia scampato alla prigionia o dove si trova adesso.
Una volta l’ho sognato.
L’ho sognato
con gli occhi spenti, come quelli di tanti altri cavalieri che ho visto
in
battaglia. Come quelli di Jerome.
*
Arnaud si
fermò davanti alla cella, le gambe appena divaricate. Con un certo
sforzo
riuscì ad aprire la pesante porta, spessa quasi quanto le pareti.
Intimò agli
altri due soldati che lo accompagnavano di restare fuori e aspettare.
Mosse
qualche passo in avanti, mentre cominciava ad intravedere il viso magro
e
provato del prigioniero. Si fermò per un
attimo a guardarlo, senza chinarsi, e il cavaliere sostenne il suo
sguardo,
anche se con occhi gonfi di stanchezza. Arnaud non poteva impedirsi di
provare
compassione e rispetto per quel giovane, che avrebbe potuto benissimo
essere
suo figlio.
Gli
sorrise, si chinò su di lui e lo aiutò ad alzarsi, sorreggendolo.
Tirata fuori
una grossa chiave dal tascapane di cuoio, lo liberò dalle sue catene.
<<
Siete libero, Geoffrey Martewall. >>
Libero.
Libero.
Il mio primo istinto è
quello di non
lasciarmi ingannare dalle mie fantasie. Poi sento l’aria sui polsi
liberati
dalla morsa delle catene. La porta rimane aperta, e confusamente mi
ritrovo a
ricordare tutte quelle volte in cui mi si è stretto lo stomaco al
vederla
chiudersi. Sento il cuore accelerare i battiti. E se fosse vero?
Qualcosa si risveglia
dentro il mio
petto e lo scuote, una pallida luce, che via via si fa più brillante.
Mi lascio guidare verso
l’uscita
delle prigioni, e quasi dubito di essere proprio io quello che, un
passo dopo
l’altro, si avvicina alla luce del sole.
L’incredulità lascia un po’ di posto alla gioia, una gioia
improvvisa.
Una gioia compresa solo
dai
prigionieri. Come trovarsi con una porta sospesa sopra la testa. Mi
sento
diviso tra la voglia di toccarla e la paura che sia un’illusione, la
paura di
cadere di nuovo in quel baratro buio.
Non
vorrei voltarmi indietro, eppure lo
faccio, perché so che dietro di me lascio tante persone che non avranno
mai la
mia stessa fortuna. Alcuni hanno una famiglia che continua ad
aspettarli alle
spalle. Per questo, ho imparato a non lamentarmi, perché infondo io
sapevo di
avere speranza. Sapevo che sarei uscito.
E malgrado la gioia, la
nostalgia di
Dunchester e della mia famiglia, adesso che sto per lasciare per sempre
questo
posto orribile, adesso che sono sulla soglia della libertà e la luce
del sole
mi illumina il volto, riesco solo a pensare a quanto sia ingiusto tutto
questo.
Porterò sempre nel cuore le suppliche del mio vicino, pregherò per non
sentirle
mai più in vita mia. A lui non servirà, ma forse servirà ad altri,
servirà alla
gente di Dunchester, che rimane anche sotto la mia responsabilità. Non
posso
fare altro.
L’aria mi accarezza il
viso, mentre
prendo un profondo e avido respiro riempiendomi i polmoni. Mi sembra
che
davanti alla mia felicità, tutte le altre sfumino.
Le parole del soldato che mi ha sorretto
pochi minuti prima continuano ad attraversare la mia mente,
improvvisamente
leggera.
<< Sei libero,
Geoffrey
Martewall. >>
Sei libero.
E adesso torna a casa.
Angolino di Rima
Non so nemmeno da dove è venuta fuori,
questa fic. : )
Come avrete notato subito, ho aggiunto due personaggi creati
da me ( e anche un po' inutili ), e la parte in corsivo sono i pensieri
del nostro caro, vecchio Geoff.
Ringrazio in anticipo chi avrà voglia di recensire questa storia ( a proposito, le critiche e i consigli sono più che
accetti, come sempre. ) o anche solo di leggerla.
ciao!
Rima N.
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