La notte mi è congeniale.
Il buio intorno a me a coprire ogni cosa. Nessuna luce. Solo l’oscurità.
Non importa dove mi trovi: Praga, Londra, Pechino.
Solo parole.
Col buio ciò che mi circonda perde di consistenza. Potrei essere ovunque. E
prepotenti si affacciano nella mente luoghi sepolti nella memoria. Immagini che
alla luce del giorno restano nascoste, ma appena le tenebre calano si impongono
alla mia vista.
Tende gialle, la luce del sole che filtra in una cucina disordinata e
caotica.
Vissuta.
Quante volte l’avevo definita in quel modo per ribattere all’aggettivo
disordinata?
Le lacrime iniziano a scendere. Non tento di fermarle. Non più. All’inizio
pensavo davvero che mi sarei svuotata, sarei andata avanti.
Che stupida.
Ho scoperto invece che più il tempo passa più non riesco a fare a meno di
ricordare e piangere. Quanto tempo è trascorso? Settimane, mesi, anni? Non lo
so, non ricordo. Ormai i giorni passano uguali uno dopo l’altro. A volte mi dico
che dovrei farla finita, ma non ho la forza, il coraggio di mettere in pratica
questo proposito.
È tardi, devo correre. Non posso permettermi di arrivare tardi anche stasera.
L’apatia mi sta distruggendo. Lui me lo ripete sempre. Dice che mi sto buttando
via. È strano come il fatto che ci sia qualcuno che si preoccupa ancora per me
non mi tocchi minimamente.
La prima volta che l’ ho incontrato gli ho fatto pena.
Stordita, il sangue che colava da un taglio alla fronte, spaurita, uno
sguardo da bambina bisognosa di aiuto.
Lui aveva da poco perso la sua famiglia. Penso sia per questo che mi ha
scelto. Dovrei essergli grata, ma non provo gratitudine. Non provo nulla per
lui.
Tempo fa avrei trovato impossibile un’affermazione del genere. Come si può
non provare niente per una persona che ti salva la vita? Eppure è così e lui lo
sa. È per questo che nonostante le sue preoccupazioni non si fa troppi scrupoli
ad usarmi. Non sono l’unica certo, ma la più giovane, la meno esperta.
A volte mi chiedo perché lo faccio. Un’assassina, ecco quello che sono. Da
piccola pensavo che uccidere qualcuno fosse l’azione più sbagliata che un
individuo potesse compiere. Ora, semplicemente, non penso più. Se all’inizio era
la vendetta a spingermi adesso è solo l’abitudine.
Cosa sono diventata?
Il mio obiettivo è davanti a me. Il coprifuoco è scattato da ore, ma lui è
ancora per strada. Un’abitudine che rende il mio lavoro più semplice.
Mi apposto e lo osservo. Sta fissando la porta del palazzo davanti a sé.
Prendo la mira.
La porta si spalanca ed esce una donna che lo abbraccia con trasporto. Lui
sorpreso ricambia e nel voltarsi mi scorge.
Che stupida.
Perché ho esitato?
Inutile chiederselo. Il perché lo so. Non l’avevo mai visto in faccia prima.
Lo fisso.
Ricordo quegli occhi di ghiaccio. L’ordine dato ai sottoposti. Ricordo di
averlo fissato mentre quelli eseguivano e ricordo che a sua volta mi fissava.
Mi aveva risparmiato. Dopo avermi strappato tutto ciò che amavo mi aveva
risparmiato.
Lo sto fissando ancora. La pistola stretta in mano. È questione di un attimo.
Lei grida. Una guardia di passaggio accorre, mi vede ed agisce d’istinto.
Spara.
Io continuo a fissare Lui. Un improvviso lampo di riconoscimento passa nel
suo sguardo. Sento dolore al petto. Appoggio la mano e la ritraggo sporca di
sangue. Mi sento debole. Le gambe iniziano a cedere e la vista si annebbia, ma
non smetto di guardarlo negli occhi e mentre tutto diventa buio le mie labbra
formulano una sola parola: perché?
E poi l’oscurità.
E nel buio tende gialle e la luce del sole che filtra in una cucina
disordinata e caotica…