I dadi caddero sulla cassetta di
legno. Un risultato
sfavorevole e la guardia grugnì:
<< Dannazione, possibile che la Dea Bendata mi odi cosi
tanto? Lasciamo
perdere. Ritornando al discorso di prima, ragazzi. Che ne pensate della
decisione del re? >>
I tre commilitoni smisero per un secondo di giocare, bere e grattarsi.
Si
guardarono di sottecchi e qualcuno sbuffò, annoiato e
preoccupato.
<< Lo sai che non possiamo opporci oltre. Hai visto che
fine hanno fatto
gli altri, no? >>
Le quattro guardie erano sedute l’una di fronte
all’altra, al di fuori del
piccolo casolare che fungeva da guarnigione e dogana al fiume Omaon.
<< Insomma – replicò
un’altra – la guerra non è mai giusta,
ma io ho
soltanto questo lavoro e se mi oppongo ci lascio anche le penne!
>>
Tra imprecazioni e lamentele, i quattro caddero in uno sconfortante
silenzio,
immersi nel pensiero di cosa stava accadendo nel loro piccolo ma
ambizioso
regno. Solo lo scorrere delle acque alle loro spalle spezzava
quell’atmosfera
imbarazzante.
<< Siamo fortunati a dover restare qui. Solo pellegrini,
mercanti e i
nostri colleghi di ricognizione. Niente battaglie per noi, niente
esecuzioni.
Mi dispiacerebbe giustiziare un mio collega. >>
D’un tratto qualcosa destò i loro torbidi
pensieri: uno dei quattro cavalli
legati alla staccionata iniziò a nitrire senza controllo.
<< Buono, Sam! Che ti prende? >>
Il legittimo proprietario si alzò e iniziò a
carezzare affettuosamente la
bestia sul muso, cercando di calmarla. Il baio sembrava spaventato e
continuava
a fissare un punto fisso nel bosco di fronte a sé. A breve
sarebbe calata la
notte e le ombre appena accennate impedivano ugualmente di vedere chi
vi fosse
all’interno della pineta.
Passi
felpati e falcata rapida. Il viandante procedeva
sicuro attraverso il bosco, non curante degli eventuali rami, sassi o
fanghi in
cui i suoi nudi piedi affondavano. Il bianco corpo, scarno e avvolto in
neri
stracci, sembrava pronto a contrarsi e ad agire da un momento
all’altro. La
testa rasata scrutava continuamente tra gli alberi di fronte a
sé e finalmente
intravide qualcosa: un posto di guardia. Le mani strinsero con forza la
lancia
di ferro che portava con sé. Si lanciò in uno
scatto bestiale.
Quando la guardia, vicina al suo cavallo, si accorse di ciò
che stava
accadendo, fu troppo tardi:
<< Maro, attento! >>
Le due guardie con le spalle al fiume alzarono lo sguardo e sgranarono
gli
occhi. La guardia che dava spalle al bosco, invece, fu spacciata.
Un viandante, lo spettro di un guerriero forse, stava a
mezz’aria: freddi occhi
azzurri e muscoli tesi, con le braccia portate fin dietro le spalle nel
caricare il colpo con la sua lancia. Sangue e denti volarono in terra
quando
l’estremità della lancia si abbatté sul
cranio dell’ignara guardia. Se solo la
lama fosse stata integra, al posto di sangue e denti, sarebbe stata una
testa a
volare. Girando su se stesso, il viandante piantò con forza
l’estremità
spezzata alla gola della seconda guardia, ancora seduta per lo shock
subito.
Questa cadde a terra con la mano stretta al collo; il terzo compagno
sfoderò la
spada ma fu troppo lento e la lancia ferrata frantumò
l’omero e, con una
seconda giravolta, anche il femore. L’unica guardia ancora in
piedi era
pietrificata dalla paura, ancora al fianco del suo cavallo.
L’oscuro viandante
si avvicinò, deciso. Fissò la guardia con occhi
freddi e le puntò il bastone
alla gola. La guardia, terrorizzata, alzò le mani e si
allontanò dall’animale.
Il viandante salì in groppa al cavallo e, spronandolo a nudi
talloni, cavalcò
oltre il ponte di legno che attraversava il fiume, scomparendo sul
sentiero
all’orizzonte.
Un messaggero piumato si appollaiò sul posatoio del
bastione. Un servo
dall’aria annoiata srotolò il messaggio dalla
zampa e, finito di leggere, fuggì
in direzione del suo padrone.
Il servo spalancò la porta quasi prendendola a calci e,
incurante dello sguardo
omicida del suo sovrano, arrivò ai suoi piedi e vi si
inginocchiò, senza fiato,
porgendo il messaggio appena recapitatogli.
Rac afferrò il biglietto, lo lesse e sbiancò. Si
alzò dal suo trono e sbraitò
alla servitù:
<< Come diavolo è possibile. Questa
è la diciassettesima volta in una
settimana! Chi è costui!? >>
<< Non lo sappiamo, mio signore. Nessuno l’ha
riconosciuto. >>
Il signore del castello era in preda all’esasperazione:
<< Non posso invadere i regni alleati se un dannato
viaggiatore sconfigge
tutte i miei soldati! Con cosa combatterò? Con le capre!?
>>
<< Signore, il problema non è che sta
abbattendo tutti i suoi soldati, ma
che, a giudicare dai presidi di guardia che sono stati attaccati, ci si
aspetta
che sia il vostro castello la sua destinazione ultima. >>
Il sovrano rimase allibito:
<< Non ne posso più! E’ cominciato
tutto da quando ho dato l’ordine di
uccidere tutti i disertori. Che sia uno di loro in cerca di vendetta?
>>
<< Non possiamo saperlo con certezza, mio signore.
>>
Rac stracciò il foglietto di carta, lo gettò in
terra, afferrò lo scettro d’oro
e lo batté a terra con forza. Lo batté ancora e
ancora una volta. Al terzo
rintocco, una possente armatura bianca fece irruzione nel salone. La
sua mole
superava di gran lunga quelle delle altre guardie, lo sferragliare
della sua
corazza in movimento generava inquietudine e, quando fu vicino, si
inginocchiò
e si levò l’elmo: un volto degno di un dio si
mostrò al suo signore Rac. Capelli
lunghi e biondi, occhi verdi, mascella poderosa e mento prominente. Le
schiave
e le dame presenti arrossirono di fronte al suo sguardo giovane e fiero.
<< Zuria, mio fiero condottiero. Mi rammarica doverti
disturbare per così
poco, ma c’è una questione che devi assolutamente
risolvere. >>
Il bianco cavaliere, senza proferire parola, fischiò. Al
richiamo rispose un
gracchiare stridulo: una grossa cornacchia, bianca anch’essa
e più grande di un
gufo, entrò da una delle finestre aperte e si
appollaiò sulla spalla ferrata
del possente guerriero.
<< Si. Cra! Signore! >>
La voce fastidiosa uscì dal becco del pennuto, mentre il
muto colosso
sogghignava, bramoso del sangue di un guerriero forse alla sua altezza.
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