Note d’autrice
Breve one-shot su ChiyoMori, nuovo personaggio
da me creato ed inserito nel mondo di “Naruto”. Ho deciso di inserire Chiyo
all’interno del Team Gai, al posto di Tenten, apportando quindi moltissime
modifiche alla storia originale. Questa one-shot /biografia è stata creata in
previsione di una storia a più capitoli. Potrebbe essere letto come un primo
capitolo. Ma prima di dare il via ad una fan fiction più lunga sarei lieta di
poter leggere il vostro parere J
Ultimi
Quando mio padre decise che sarei andata
all’Accademia di Konoha io non ero ancora stata concepita. Non conosceva mia
madre e non aveva nemmeno sul viso quei quattro peli che i giovanotti chiamano,
gonfiando il petto come i galli prima del canto dell’alba, barba. Nonostante
fosse un uomo semplice, mio padre aveva due assolute convinzioni a cui si
aggrappava con la stessa forza con cui un uomo caduto in un dirupo si attacca
ad un appiglio di fortuna: avrebbe sposato una bella donna del suo paese e
sarebbe diventato un grande ninja. Nessuno dei due divenne realtà, o almeno non
come lui avrebbe voluto. I suoi sogni di infanzia si frantumarono sin da subito
sull’espressione granitica (e pure un po’ disgustata) di suo padre, ovvero mio
nonno. -Sciocco ragazzo!- esclamava con la sua voce roca -Dovrei farti
assaggiare il legno del bastone per farti passare queste idee balzane. Un
ninja, che idiozia! Impara a far bene il mio mestiere che ti darà di che
campare quando non ci sarò più.- E così il sogno di diventare un grande ninja
della Foglia era sfumato, per poi diventare un sogno nel quale suo figlio
sarebbe senz’altro diventato un forte e valoroso shinobi. Quando, poi,
all’età di diciannove anni mio padre si sposò con mia madre, anche il sogno di
un matrimonio felice con la più bella del paese sfumò definitivamente. Solo i
miei occhi da bambina mi facevano apparire quella donna come la più bella del
mondo, ma ad oggi, nonostante le voglia profondamente bene, devo riconoscere
che di bello, attraente o femminile nel suo fisico non c’era assolutamente
niente. Eppure, ieri come oggi, vedevo nel suo animo la bellezza e la grazia
che ogni donna dovrebbe avere. Così come vedevo in Giotto, il mio inseparabile
amico a quattro zampe, un mio fratellino con cui condividere le marachelle.
Sono nata in un paesino a meno di un giorno
di viaggio da Konoha, quattro case che scomparivano in mezzo agli alberi grigi
e marroni dalle fronde sempreverdi. Era uno di quei posti in cui tutti
conoscono tutti, i pettegolezzi sono l’unico passatempo delle mogli, un
bicchiere di birra ed una partita a freccette la consolazione degli uomini alla
sera, i giochi per strada lo svago dei bambini. Ed io ero ancora una bambina
quando mio padre decise che era arrivato il momento di portarmi a Konoha.
Ricordo distintamente quel giorno, non fosse
altro che per la paura che provai nell’entrare all’Accademia. Quegli uomini, quei ninja, mi facevano istintivamente spavento,
come una mosca che sente di star finendo nella tela del ragno ma se n’è accorta
troppo tardi. A nulla servirono i pianti, se non a procurarmi un sonoro
ceffone. Ero una bambina molto vivace, ma naturalmente docile e obbediente,
quindi le mie proteste non si protrassero oltre. Furono gli anni più brutti
della mia vita. Tornavo a casa ogni fine settimana e mio padre mi investiva di
domande come un fiume in piena. Pretendeva racconti dettagliati su ciò che
avevo imparato, voleva qualche dimostrazione, senza accorgersi, apparentemente,
dell’astio che celavo con sempre maggiore fatica. Io non avrei mai scelto
quella vita, e negli anni mi rendevo conto sempre più che a me era spettato
quel destino che avrebbe voluto lui. Ma tornare a casa a riabbracciare mia
madre e Giotto mi riempiva il cuore e ripagava di tutte le ore di supplizio che
subivo all’Accademia: non capirò mai come una studentessa scarsa come me sia
riuscita a prendere il diploma. Ma so perfettamente come sia riuscita ad
arrivare al grado di Jenin. Quando ormai ero convinta che la sorte mi fosse
avversa, la Fortuna decise di gettarmi un salvagente inserendomi in un gruppo
con a capo un certo Gai. Un tipo un po’ strambo, di certo molto montato, ma,
come capii presto, con un cuore d’oro. Rock Lee era un compagno ideale, sempre
di buonumore ed incoraggiante, mentre Neji…beh, Neji Hyuuga dava una chiara
idea di quanto freddi potessero essere gli iceberg. Il mio essere timida mi
aveva portata ad avvicinare sua cugina, Hinata Hyuuga, e dalla vita da
“estranea in casa propria” che doveva condurre mi ero convinta che in fondo io
fossi una ragazza molto (ma molto) fortunata, non avendo quindi il diritto di
lamentarmi della mia sorte. Provavo una profonda pena quando quella ragazzetta
si faceva piccina piccina se il cugino appariva nella sua visuale.
Comunque, come ho già detto, la Fortuna mi
venne in soccorso dandomi un maestro come Gai. Come per Rock Lee, Gai mi aveva
inquadrato subito pensando ad una strategia su misura per me. Nonostante fossi
ancora in quell’età in cui i bambini sono troppo grandi per essere chiamatati
“bimbi” e troppo piccoli per essere definiti “ragazzi”, capii subito che sotto
l’apparenza di un esibizionista, forse un po’ folle, il Maestro Gai era la mia
salvezza. Dopo due giorni sapeva già cosa fare con me. -Ascoltami bene- mi
aveva detto -Concorderai con me che i corpo a corpo non sono il tuo punto
forte.- Probabilmente era giunto a questa conclusione dopo che Neji mi aveva
atterrata in un minuto e quindici secondi. -Quindi dobbiamo puntare tutto sulla
difesa. D’accordo?- Ed io da brava bambina annuii.
Fu così che feci la mia fortuna. Insieme al
maestro studiai tecniche difensive di ogni genere e ne creai di nuove. Alla
fine riuscii perfino a realizzare quello che io definivo scherzosamente il
“puntaspilli”, poiché dalla barriera di chakra che mi avvolgeva si propagavano
centinaia di aghi di chakra. Attacchi ad ampio raggio, ideali per chi, come me,
voleva evitare gli scontri diretti. Al
tempo, comunque, nemmeno nella mia immaginazione credevo che avrei fatto tanta
strada. Fu un lavoro di proporzioni ciclopiche, ma alla fine erano ben pochi
gli scontri in cui non avevo la meglio. Quasi tutti gli incarichi che mi
venivano affidati erano di scorta, dapprima poco importanti, poi sempre più
rilevanti (e quindi molto ben retribuiti). Io dovevo solo stare attaccata
all’uomo (o alla merce) da scortare come una cozza allo scoglio, al resto ci
avrebbero pensato i miei compagni. Era raro che nelle mie missioni non fossi
accompagnata da Rock Lee e Neji, e quando accadeva il mio umore subiva
un’incredibile mutazione. Non che non mi fidassi dei miei compagni di squadra e
delle loro abilità, quali che fossero, ma non c’era quella conoscenza che
rendeva prevedibili quali schemi avrebbero adottato Rock Lee e Neji. E, in
fondo, mi ero affezionata a loro.
Ma per quanto le mie nuove “tecniche su
misura” fossero apprezzate oltremodo, tanto da farmi ricavare una mia nicchia
nelle future promesse ninja, la mia vera risorsa era un’altra. Nessuno l’aveva
mai vista prima, il mio ultimo baluardo se proprio rischiavo la pelle. Come
sempre era stato il maestro Gai ad insegnarmi quell’ultima via, anche se,
proprio poiché non l’avevo mai usata se non davanti a me stessa e al Maestro,
non ne avevo mai assaggiato i lati negativi. Cioè finché in una soffocante
notte di primavera non cercai di uccidere Neji, anche se la rabbia che muoveva
la mia mano non era la mia…
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