couep deofefoier
Coup de foudre.
(Ci credi al colpo di fulmine?)
14 dicembre 2011; ore 17:32
Una voce metallica ma pur sempre
chiaramente femminile annunciò il tanto atteso arrivo a
destinazione: “Gentili passeggeri, siamo felici di annunciarvi che
siamo appena atterrati all'aeroporto di Charles De Gaulle, siete
pregati di slacciare le cinture e avviarvi verso l'uscita dell'aereo.
I vostri bagagli vi saranno consegnati a minuti”. Frank guardò
fuori dal finestrino, esausto dopo il lunghissimo viaggio, e sospirò,
chiudendo per un ultimo momento gli occhi prima di trovare la forza
fisica e morale di scendere. Per un momenti sembrò di essere
incollato al sedile, davvero: non aveva dormito sonni tranquilli,
terrorizzato com'era dalle altezze, e da quella minima parte del suo
volto che aveva visto riflessa poco prima nel vetro, avrebbe giurato
che non sarebbe stato troppo difficile capirlo. Fissò i passeggeri
intorno a lui, tutti sorridenti, contenti per le loro vacanze
natalizie e per l'arrivo in perfetto orario, e cominciò davvero a
chiedersi perché. Perché non riusciva ad essere felice di aver
lasciato il Jersey? Perché avrebbe preferito rimanere in viaggio per
l'intera settimana piuttosto che doversi alzare da quel sedile? Ma
soprattutto, perché era costretto a lavorare ad appena uncidici
giorni dal Natale?
Di solito quello era il periodo in cui
finalmente staccava con quella maledetta azienda e tornava a casa, a
Newark, circondato da parenti stretti e non, come probabilmente
stavano facendo molte di quelle persone intorno a lui. Quando si rese
conto che era quasi l'unico rimasto lì, purtroppo, lasciò perdere
le immagini della sua famiglia e del Natale in casa Iero che gli
passavano per la testa e si alzò, emettendo uno strano verso di
quelli da enorme sforzo. Sbuffò, dirigendosi verso l'uscita e
sperando soltanto che non ci fosse nessun problema con i bagagli.
Passò davvero poco prima che questi
ultimi gli fossero consegnati -grazie a Dio era rimasto fedele alla
sua regola del “se non entra in una sola valigia, allora non è
necessario”-, e si rese conto che se voleva arrivare vivo alla cena
di lavoro che avrebbe avuto quella sera, aveva bisogno di carburante.
Meglio conosciuto come caffeina. Proprio nell'aeroporto, trovò un
bar: fu la prima cosa che vide, a dire il vero, ma non si azzardò ad
avvicinarcisi prima di mettere mano sul bagaglio. Si avviò verso di
esso a passi veloci, forse un po' troppo, sommerso da una paurosa
ondata di gente appena arrivata. Ebbe appena il tempo di guardarsi
intorno, che subito si rese conto di quanto la gente fosse diversa,
lì. Camminavano tutti con dei sorrisi stampati in faccia, come per
mettere in evidenza il fatto che “a Parigi non si può essere
tristi”, in file ordinate, senza spingere nessuno, tutti
dall'aspetto incredibilmente curato, pulito, come diamanti
incastonati in un anello dorato che, in quel caso, non era altro che
la loro città. Frank sapeva com'era sentirsi fiero del posto da dove
si proveniva: ma mai e poi mai, a dire il vero, avrebbe pensato che
potesse essere considerato bello provenire da una città che, a
quanto aveva sentito, era piena di ricchi snob. Ignorò
quell'ennesimo pensiero, ricordandosi che alla fine doveva passare
ben cinque giorni lì e avrebbe fatto meglio a goderseli, varcando la
soglia di quel posto. Fu subito travolto da un odore di dolci appena
sfornati e, come aveva tanto desiderato, caffè. Si guardò
intorno, nuovamente, cercando di localizzare la cassa -ed il
cassiere- fra quell'orda di gente ammassata contro un lungo bancone
arancione, e sentì addirittura qualche parola familiare qui e lì,
segno che forse non avrebbe dovuto sfoggiare quelle tre patetiche
frasi francesi che era stato capace di imparare. Poi,
improvvisamente, lo vide- era un ragazzo, capelli neri e spettinati,
pallido e stranamente sorridente. Sembrava fosse contento di ciò che
faceva, e questo per Frank era una novità: nessuno sembrava contento
di quel che faceva, in New Jersey. Si avviò verso di lui nonostante
la fila, e cercò di non pensare al fatto che non poteva importargli
di meno che, nel mentre, si fossero liberate due casse lì accanto:
c'era un motivo se c'era addirittura la coda per parlare anche solo
un secondo a quel ragazzo, e su questo non aveva dubbi. Inalò,
cercando di convincersi che sarebbe andato tutto bene nonostante le
sue mancate doti linguistiche, e sorridendogli quando arrivò il suo
turno.
«Bonsoir monsieur! Commet-ça va?» Il
ragazzo articolò, e Frank si morse il labbro, terrorizzato anche
solo di aprire bocca. Era in una maledetta capitale e quel commesso
non parlava inglese? Cominciò a balbettare fuori qualcosa che furono
principalmente versi, più che parole, e l'altro ridacchiò fra sé e
sé, scuotendo il capo e parandosi una mano davanti come per fargli
capire di smetterla di preoccuparsi. «Così va meglio?» Provò,
sorriso ancora stampato in faccia.
«Decisamente sì.» Rispose Frank, un
po' imbarazzato. Rimase in silenzio per qualche secondo, ricordandosi
solo in quel momento che era lì per ordinare e di certo non
per fissare il modo in cui le mani del ragazzo si muovevano sui tasti
del ricevitore cassa.
«Come posso servirla?» Domandò
dall'altro lato del bancone il commesso, quasi precedendolo. Frank ci
mise qualche secondo per rimettere insieme i pezzi e ricordarsi di
cosa aveva bisogno, prima di riuscire finalmente a metterlo
“addirittura” in parole.
«Umh, un caffè, grazie.» Annuì fra
sé e sé, accennando a muoversi al bancone d'attesa prima che la
voce del ragazzo lo interrompesse nuovamente. Rabbrividì, prima di
voltarsi verso di lui.
«Sembri sciupato. Ti porto qualcosa da
mettere sotto i denti, mh?» Domandò, come se fosse seriamente
preoccupato per la salute di uno sconosciuto, sfoggiando quello che
Frank catalogò come il miglior sorriso che avesse mai visto prima di
sparire dentro quella che forse era la cucina e di essere rimpiazzato
da un altro commesso. Sospirò, e ancora prima che potesse capire
perché fosse così deluso, il ragazzo riapparve con in mano una
busta di carta lucida un po' unta sul fondo e un bicchierone di caffè
stile Starbucks. Frank non era riuscito a formulare qualcosa di
simile ad un “non preoccuparti” prima, ma di sicuro, quello era
il momento adatto per farlo.
«Non dovev-» Prima che potesse finire
la frase, fu azzittito dal ragazzo.
«Sssh, ehi, mettiti a sedere, mh? Ci
si vede dopo.» Gli fece l'occhiolino, e Frank fu appena capace di
fargli un cenno con la mano e ringraziarlo prima di afferrare ciò
che gli era stato offerto e lasciare il posto a quelli che erano
sicuramente i clienti più fortunati di tutto il locale- dopo lui,
ovviamente. Sperava davvero che mantenesse quella promessa: con tutto
sé stesso.
14 dicembre 2011; ore 18:05
«Allora, andata
bene?» Chiese con voce vellutata quello che, Frank ci avrebbe
giurato anche prima di alzare il capo per controllare, era il
commesso del locale. Quasi sobbalzò nel sentirla così vicina e
pura, non coperta dalle altre voci dei clienti -ormai tutti
sfollati-. Questa volta fu lui a sorridere, dopo aver preso l'ultimo
sorso di caffè.
«Benissimo, e umh-
grazie per il.. il croissant.» Disse, perdendosi un po' a metà
frase per osservare completamente il ragazzo: indossava un maglione
di cotone a maniche lunghe, nero, sotto il quale c'era una t-shirt
dello stesso colore, un paio di jeans forse un po' troppo stretti e
delle Chucks rosse, logore e consumate. Il tutto guarnito dal
grembiule -arancione, ovviamente- con il logo del bar.
«Di nulla.»
Disse, raccattando i resti della busta bianca e del bicchiere che
poco prima di aveva dato e lasciando Frank un po' confuso: non
avrebbe dovuto pagare? Forse avrebbe dovuto chiedere il conto come in
un ristorante? Infondo era dall'altro lato del mondo, quindi perché
non provare..
«Quant'è?»
Chiese, guardandolo appena prima di cominciare a a cercare in tasca i
soldi che poco prima aveva cambiato con uno strano marchingegno. Il
ragazzo fece lo stesso gesto con la mano di prima, e se prima Frank
era confuso, adesso era completamente atterrito. «Non si usa pagare,
a Parigi?» Domandò, solo in parte ironico.
«Di solito sì,
ma.. dimmi come ti chiami.»
«Frank. Ora,
quant'è?» Disse, andando quasi in iperventilazione: cosa poteva
importargli di sapere il suo nome? Perché, tra l'altro? Cristo, non
era stato mai un tipo paranoico, ma in quel momento, davvero, non
sapeva che aspettarsi.
«Il tuo nome, te
l'ho detto. Arrivederci, monsieur.» Il ragazzo pose
particolare accento sull'ultima parola, che Frank avrebbe sicuramente
cercato sul suo dizionario una volta tornato in albergo, dove, ancora
più preoccupato di prima, si avviò dopo aver raccattato la sua
valigia.
15 dicembre 2011; ore 10:30
La cena di lavoro
era stata a dir poco spossante. Frank non era come le persone con cui
di solito lavorava: ricchi, pomposi, così pieni di sé.. figuriamoci
se poteva mai trovarsi bene con i loro cloni in versione francese.
L'unica persona con cui era andato d'accordo era sicuramente la
traduttrice, con la quale, a dire il vero, scappò più di qualche
risata ai modi di fare così tipicamente parigini dei presenti. Il
risveglio al mattino dopo, anche, era stato terribile: il jet lag lo
stava uccidendo, così come il fuso orario, e generalmente, da quando
era arrivato a Parigi, nonostante l'esito a dir poco positivo della
prima contrattazione per l'importante affare e la nottata nella
camera d'albergo più bella che avesse mai visto in vita sua, la cosa
migliore che gli era capitata lì continuava ad essere l'incontro con
uno stupido ragazzo in una stupida caffetteria in uno stupido
aeroporto.
Sbuffò, girandosi
e rigirandosi fra le candide lenzuola di quel bianco ottico prima di
decidere che era ora di fare qualcosa. Forse, tornando lì e
chiedendogli il perché del comportamento a dir poco strano del
giorno prima, avrebbe risolto le cose. Avrebbe smesso di pensarci,
perché cavolo, è questo che si fa con un semplice commesso- lo si
dimentica. Sbuffò nuovamente all'idea di dover raggiungere ancora
una volta quella parte della città: il suo primo approccio con
l'aeroporto non era stato proprio il massimo, e beh, specialmente ora
che era così maledettamente stanco, non sapeva cosa sarebbe riuscito
a cogliere da un bis. Di nuovo, però, ebbe un patetico flash del
ragazzo di cui non sapeva nemmeno il nome steso lì, accanto a lui, e
svestito quasi quanto Frank stesso, e si rese conto di aver toccato
il fondo: si lavò, si vestì nel migliore dei modi e salì sul primo
taxi.
15 dicembre 2011; ore 11:01
Non c'era troppa
gente a quell'ora, in caffetteria: Frank ringraziò mentalmente per
la sua fortuna, continuando ad osservare cautamente il posto da
fuori, deciso ad entrare solo se avesse visto John- così aveva
deciso di chiamarlo, nonostante gli stesse più che male come nome,
finché non avrebbe scoperto quello vero. Il suo sguardo,
improvvisamente, incontrò la sua chioma corvina: da lì in poi,
bastarono pochi secondi prima che i loro occhi si incontrassero e
che, per l'ennesima volta, sulla faccia del commesso si fece spazio
un sorrisone. Di certo non era rivolto al cliente che stava servendo
in quel momento, e di questo Frank ne era sicuro. Entrò, notando per
la prima volta il rumore di una qualche campanella che segnalava
l'arrivo di un cliente, e andando dritto verso la cassa, questa volta
senza esitazioni.
«Quando ti ho
detto “arrivederci”, non pensavo che ti avrei davvero rivisto.»
Cominciò John, tutto preso dal suo ricevitore di cassa. «Je
suisse Gerard, ad ogni modo.» Disse casualmente, sfoggiando per
l'ennesima volta il suo francese. Il ragazzo alzò appena un secondo
lo sguardo dal display, e nonostante Frank capisse poco e niente, era
riuscito a capire che il suo nome era certamente Gerard. «Cosa le
porto, signore?» Pose un accento un po' troppo forzato
sull'ultima parola, e si rese conto in quel momento che era stato
perché uno di quelli che con ottime probabilità erano i suoi
superiori, lo stava fissando. Forse era normale che fosse un po'
troppo amichevole con i clienti. Forse lo stava controllando perché
era così con tutti.. questo avrebbe spiegato anche la fila del
giorno prima, dopo tutto.. eppure, Frank non riusciva a non sperare
che tutto ciò non fosse poi così vero.
«Un caffè,
grazie.» Gli disse, osservando il modo in cui Gerard non aveva
ancora allontanato lo sguardo dall'omaccione che lo stava scrutando
fino a qualche momento prima, e quando uscì definitivamente dal
locale, tornò ad osservarlo con lo stesso sorriso amichevole di
prima.
«Le tariffe sono
cambiate, colpa della crisi.. oggi per avere un caffè, il prezzo è
berlo insieme al commesso. Lei che dice, monsieur? Non è a
dir poco un outrage?» Picchiettò ritmicamente le dita sul
bancone, continuando a sparare parole francesi qui e lì. Nonostante
tutto, però, Frank capì: quel che non capì, invece, era il perché
di quell'invito. «Ci stai, Frank?» Continuò, incitandolo dopo
averlo visto così silenzioso e perplesso.
«Perché no.»
Sorrise il ragazzo, arrivando alla conclusione che infondo, se
qualcosa fosse andato storto, gli sarebbe bastato evitare quel posto
per i restanti quattro giorni.
«Aspettami qui.»
Gerard lo guardò, cercando risposta, e Frank annuì. Tornò un
minuto dopo insieme a due caffè ed un ragazzo che probabilmente
avrebbe preso il suo posto durante la sua breve assenza. Non
indossava nemmeno più il grembiule, a dire il vero, cosa che fece
dubitare il ragazzo dell'ultimo aggettivo che aveva attribuito alla
parola “assenza”. Si trovarono un tavolo al piano di sopra, dove
nessuno avrebbe potuto vederli, e Frank, quasi stomacato dalla
quantità di caffè che aveva già ingerito quel giorno, cominciò a
buttare giù nervosamente anche il quarto.
«Sei di qui?» Per
sua enorme sorpresa, fu il primo a cominciare. L'inglese di Gerard
era fin troppo perfetto, perché lo avesse appreso solo per questioni
di lavoro: sul suo francese, invece, non poteva esprimersi. Il
ragazzo scosse il capo, confermando la sua teoria, e allontanò le
labbra dal bordo della sua “tazza” di caffè.
«Sono del New
Jersey. Vivo qui da tre anni.» Gli sorrise, e Frank per poco non
rimase lì a bocca aperta per dieci minuti filati per via di quella
coincidenza così pazzesca. Capendo che la storia non era finita,
comunque, non la mise subito in evidenza. «Parigi era il mio sogno..
ed ora mi trovo così.» Sorrise, malinconico, e subito il ragazzo si
ricordò della prima impressione che aveva avuto di Gerard: “sembrava
contento di quello che faceva”. Mai giudicare un libro dalla
copertina.
«Anch'io sono del
New Jersey.» Gli sorrise, cercando di tirargli su il morale. Gerard
alzò lo sguardo dal suo caffè e lo guardò con gli occhi sgranati,
incredulo. «Sono qui per lavoro.» Continuò Frank, sicuro che
quella precisazione fosse più che necessaria.
«Che lavoro fai,
Frank?» Domandò, a dir poco interessato. Il ragazzo non era
abituato a sentirsi chiedere domande del genere in maniera così
spontanea: di solito volavano lì, giusto per riempire momenti di
silenzio, e invece poof, ora si trovava davanti ad un commesso,
e gliele stava chiedendo con più interesse di quanto tutti i suoi
amici messi insieme avessero mai fatto.
«Lavoro per
un'azienda- assicurazioni, robe così.» Annuì, cercando di
convincere sé stesso. «Quanti anni hai?» Domandò, sentendosi in
dovere di chiedergli qualcosa e cercando di suonare interessato quasi
quanto lui- non che non lo fosse, era solo un po' strana come
situazione.
«Vignt-neuf.»
Sorrise il ragazzo, consapevole che lo avrebbe messo in difficoltà:
se c'era qualcosa che odiava, era dover indovinare l'età altrui. E
sbagliare, ovviamente. «Et toi?» Chiese, e nonostante Frank
cominciasse a chiedersi perché si ostinasse a parlare francese e
perché il suo accento fosse così maledettamente perfetto da
fargli cadere le braccia nonostante fosse del New Jersey, capì dal
tono interrogativo che gli stava chiedendo la stessa cosa.
«Ventisette.»
Replicò, sorridendo nella speranza che fosse abbastanza clemente da
fargli da tradurre. «E continuo a non capire quanti ne hai tu, mr.
Parlo-tutte-le-lingue-del-mondo.» Scherzò, scuotendo il capo in
esasperazione. Gerard, invece, ridacchiò, e saltò fuori che ne
aveva ventinove.
Parlarono per ore,
anche a caffè finito, finché qualcuno non chiamò Gerard dicendogli
che “Maxime stava tornando”. Frank ipotizzò che Maxime fosse il
suo capo, e lasciò correre, consapevole che sarebbe di sicuro
tornato e sperando che le “tariffe” rimanessero quelle.
16 dicembre 2011; ore 17:34
Quella sera, Frank
si era documentato: aveva preso un dizionario in mano e aveva
studiato qualche termine. In più, aveva imparato le basi e come
formulare una frase di senso compiuto. Tutto questo, infondo, per
impressionare Gerard. Non gli importava nemmeno più tanto di fare
bella figura con gli uomini del business, che avevano ugualmente
apprezzato il gesto, quella mattina a pranzo, e quel giorno, aveva
solo voglia di vedere nuovamente quel cassiere che non riusciva a
togliersi di testa. A quel punto, non gli importava nemmeno più di
cosa significasse tutta quella situazione. Era arrivato in aeroporto,
ormai convinto che avrebbe fatto presenza fissa per tutti i giorni
rimanenti, e si era avvicinato di fretta e furia verso quell'edificio
(arancione) che era come un pungo in un occhio. Purtroppo, quando era
entrato e non lo aveva visto, aveva preso il suo solito caffè,
sperando che riemergesse da qualche angolo del bar, eppure non era
mai arrivato. Che lo avessero licenziato per colpa sua? Il pensiero
arrivò in fretta così come andò via, e Frank decise semplicemente
di girare. Lì vicino c'era la metropolitana: forse non era sicuro
addentrarsi in un posto così affollato -e soprattutto per una città
che non conosceva-, ma era determinato a salire e scendere ad una
fermata a caso. Infondo era lì da già due giorni e le uniche cose
che aveva visto erano due ristoranti, la sua camera di albergo ed una
caffetteria.
La gente tirata a
lucido dell'aeroporto, purtroppo, sembrava sparita, lì sotto:
nessuno aveva un secondo riguardo per nessuno, e non facevano altro
che squadrarlo dalla testa ai piedi, in uno scenario di vecchiette
che pretendevano i loro posti a sedere e donne con delle pellicce più
gonfie delle loro tette rifatte. Frank sbuffò, e dopo la terza
fermata, decise che era abbastanza: la sua prima impressione sui
francesi non era stata sbagliata, a quanto pareva. Non aveva nemmeno
letto il nome della tappa alla quale era sceso, ma visto e
considerato il numero di persone che sembravano aver raggiunto la
loro meta insieme a Frank, non si preoccupò tanto di essere finito
in dei desolati bassifondi. Tutt'altro, in effetti, vide quando uscì
da quel buio cunicolo: la strada era a dir poco splendida, enorme,
piena di vita, di gente, negozi in ogni angolo, e luci di Natale
-ancora spente, data la ancora abbondante illuminazione fornita dal
sole- per un perfetto mix in stile Parigi.
Non era quello che
si aspettava, a dire il vero, ma si sentiva più che familiare per
quella via, e la percorse tutta, senza nemmeno preoccuparsi di dove
fosse, come ci fosse finito, perché ci volesse rimanere così
ardentemente e soprattutto, senza nemmeno rendersi conto di quanto
avesse effettivamente camminato finché non raggiunse una via
abbastanza diversa da fargli capire che non era più sulla strada
Madre- così l'aveva nominata temporaneamente. Diede una veloce
controllata all'orologio e si rese conto che erano le sei e mezza:
presto, in effetti. Si guardò intorno, e se la prima cosa che aveva
notato prima erano le persone, ora si trovava in un posto decisamente
più calmo. Al lato del marciapiede sinistro c'erano degli alberi, al
posto dei negozi -i quali non mancavano però sulla destra-, e Frank
capì che forse si trovava nelle vicinanze di un parco. Continuò a
camminare, fissando la strada più verde e rendendosi conto della
quantità esorbitante di artisti di strada che si trovavano in quella
zona. La sua attenzione, fu catturata da un ragazzo con una cresta
verde che stava dipingendo quello che forse era il quadro più bello
che avesse mai visto: triste pensare che invece di essere in una
galleria d'arte, quel pezzo raffigurante la strada sulla quale si
trovava pochi minuti prima, sarebbe rimasto molto probabilmente lì.
Una coda infinita di ragazzi e ragazze che vendevano quadri o faceva
ritratti si ammassava lungo quel marciapiede, e più scendeva, più
la quantità si faceva numerosa.
Nuovamente, uno di
loro in particolare attirò la sua attenzione. Aveva i capelli neri,
come Gerard. E Frank non ci avrebbe giurato, ma quelle sembravano
essere le stesse Chucks rosse che due giorni prima avevano tanto
attirato la sua attenzione per il modo in cui erano abbinate a quel
nero totale che indossava, e- e in quel momento, quando il ragazzo si
voltò, Frank non riuscì a credere di trovarsi di fronte a Gerard.
Gli si bloccò il cuore in gola, gli tremavano le gambe e in
generale, tutto quello non poteva star accadendo davvero. Non sapeva
se avvicinarsi o no: il ragazzo, in effetti, sembrava abbastanza
sulle sue. Fumava, cosa che Frank non avrebbe mai pensato potesse
fare -nonostante lui fosse il primo ad esagerare, in certi giorni-, e
al 101% non lo aveva ancora visto. Era in tempo per scappare. Tornare
indietro prima che fosse troppo tardi, prima che si trovasse insieme
a lui in un ambiente diverso da quello di lavoro, un ambiente in cui
non sapeva cosa aspettarsi e del quale aveva quasi paura, in quel
momento, quando, in quel preciso istante, il ragazzo stesso sgranò
gli occhi e gli sorrise, segno che ormai era troppo tardi. Frank non
ebbe scelta ed attraversò la strada, infilando le mani nel suo
cappotto nero e guardando sia a destra che a sinistra nonostante
quella fosse zona pedonale.
«Frank, mon
amis! Viens ici!» Gli disse, gesticolando con la mano libera
dalla sigaretta. Il ragazzo si trovò un po' spiazzato, per
l'ennesima volta, da quell'accento così bello e musicale, ma gli
bastò capire la parola “ici” (qui), ad ogni modo, per capire che
voleva che si avvicinasse di più. Timidamente, fece quei due
fatidici passi avanti si trovò vicino all'artista ed i suoi due
sgabellini (ipotizzò che facesse ritratti). «Che ci fai qui?»
Buttò velocemente la sigaretta in un tombino e tornò al suo posto,
prendendo in mano il blocco vuoto e facendo cenno a Frank di
sedersi accanto a lui. Ora riusciva a capire il perché del visibile
nervosismo di prima, almeno.
«Non lo so. Non so
nemmeno dove diable sono.» Disse, sparando casualmente una
parola francese giusto per renderlo fiero. Manco fosse suo padre,
dopotutto. Gerard ridacchiò alla sua pronuncia, trascinando con sé
anche il ragazzo prima di decidere di schiarirgli finalmente le idee.
«C'est le
Boulevard des Champs-Élyées.» Precisò, continuando con quella
piccola sfida sul francese che Frank già sapeva che non avrebbe mai
potuto vincere. Passò qualche secondo di silenzio, finché Gerard
non capì che forse era il caso che riprendesse il discorso.. e nella
sua lingua, anche. «Allora, come ti sembra Parigi?» Domandò con un
sorriso stampato in faccia, come se non fosse nemmeno possibile che
ricevesse un giudizio negativo sulla città che, come aveva detto
ieri, era il suo sogno.
«E' tutto un po'
freddo. Sterile. Pensavo ci fosse un po' più di.. calore.» Disse,
timidamente.
Gerard, in tuta
risposta, lo guardò come se avesse appena assistito ad un omicidio:
sgranò gli occhi e gli si aprì la bocca in segno di totale shock.
Frank non riuscì a non ridacchiare alla sua teatralità, unica cosa
che sembrava aver acquisito dai parigini. «No, Frank, c'est ne
pas possible! Andiamo, la città dell'arte, dell'amore, mi
aspettavo qualsiasi cosa ma non che dicessi che è un posto freddo.»
Scosse il capo fra sé e sé, deluso, prima di continuare con ben
altro discorso ma sullo stesso tono. «Posso disegnarti?» Finì in
un sospiro, lasciando il ragazzo stranamente lusingato.
«Posso sapere
perché non eri a lavoro, prima?» Chiese Frank, perplesso,
attanagliato dai sensi di colpa dell'ipotesi di prima che si faceva
sempre più concreta.
«Ehi, non devo
servire caffè tutto i giorni..» Ridacchiò fra sé e sé, come se
fosse ovvio. «Faccio quel lavoro per pagarmi il lusso di vivere
così.» Continuò, e ora, tutto ciò che aveva detto ieri, aveva
finalmente senso. «La vie de l'artiste..» Disse, sospirando
e guardando il suo blocco completamente immacolato. «Ora posso
disegnarti?» Accennò un sorriso, insistendo sulla domanda con un
cambio di tono così radicale che per poco non lo fece scoppiare a
ridere.
«Non ho un
centesimo, Gerard..» Abbassò il capo, arrossendo. Era più che
imbarazzato a dover dire di no, ma a quel punto gli doveva troppo per
i suoi gusti, e non voleva sentirsi ancora di più a disagio di
quanto non fosse già a quel punto. Gerard, in tutta risposta, gli
rise in faccia, ad una battuta che probabilmente solo lui aveva
colto.
«Credi che ti
avrei fatto pagare, ad ogni modo?» Chiese con un sorriso stampato in
faccia.
«Sto facendo
andare in tilt tutte le tue attività.» Sbuffò Frank, mettendosi ad
ogni modo in posa.
«E non solo
quelle, Frank, non solo quelle..» Continuò l'artista, e davvero, il
ragazzo non volle fermarsi troppo a pensare a cosa avrebbe potuto
significare quella frase.
17 dicembre 2011; ore 20:07
Era dalla sera
prima che Frank non riusciva a smettere di fissare quel pezzo di
carta che, ormai, era una reliquia. Gerard gli aveva lasciato il
ritratto più bello che avesse mai visto, dimostrandosi per
l'ennesima volta un pozzo di sorprese, e lo aveva congedato con una
frase che, anche dopo un giorno intero, continuava a fargli venire le
farfalle nello stomaco: “Tieni, questo è per te. Sotto la mia
firma c'è il mio numero di telefono, se ti andasse di cambiare idea
su Parigi”. E poi gli aveva sorriso, come se niente fosse,
raccattando la sua roba, e lasciandolo lì con un semplice “ciao”.
Frank aveva
formulato tante spiegazioni possibili, la notte prima, dopo
l'ennesima cena di lavoro: la più credibile era sicuramente che il
suo ego ed il suo amore per Parigi avessero preso il sopravvento
sulla sua razionalità, spingendolo ad un gesto così radicale. Ma ad
ogni modo, ego o non ego, fatto stava che gli aveva lasciato il
suo numero, e Frank cominciava a sentire quella strana sensazione
che provi quando sai che forse a qualcuno piaci quasi quanto a te
piace quel qualcuno.
Proprio per questo,
avendo concluso l'affare in anticipo e avendo la serata libera, non
si lasciò scappare la possibilità di vederlo prima del ritorno del
giorno dopo. Prese il telefono e si fece coraggio, pigiando i tasti
con una lentezza impressionante.
18 dicembre 2011; ore 00:23
«Frank, questa è
l'ultima tappa del giro.» Gli sorrise Gerard, indicando con sguardo
rapito la Senna. «La Seine..» Gli disse con tono un po'
troppo languido all'orecchio, lasciandogli una scia di calore lungo
il collo mentre entrami aspettavano lo chateau sul quale si sarebbero
imbarcati. Quella era stata probabilmente la giornata più bella che
Frank avesse passato da un bel po';
Per prima cosa,
erano andati a cena sulla famosa Champes-Élyées, della quale, il
ragazzo aveva deciso, era completamente innamorato. Illuminata, era
ancora più bella di come gli era sembrata quel sedici dicembre, e
riguadagnava quel calore che sembrava aver perso. Non andarono in un
ristorante famoso e pieno di gente spocchiosa, dove Frank era ormai
abituato a passare le serata, ma che di certo non si addiceva allo
scopo che avevano loro due: in un primo momento si era sentito a
disagio, ma dopo un po', aveva messo tutto da parte e aveva aspettato
che il resto della serata venisse da sé. Ed era stato così bene
che, il pensiero che in qualche ora sarebbe partito, gli fece passare
l'appetito.
Poi avevano
visitato la Cattedrale di Notre-Dame, arrivandoci incredibilmente in
fretta grazie ad una scorciatoia che Gerard aveva imparato con gli
anni, e Frank era rimasto a dir poco a bocca aperta di fronte alla
vita che c'era in quel posto, nonostante fossero le dieci -orario
taboo in un posto pieno di crimini come Belleville- e quella non
fosse proprio una zona centrale. Era rimasto di stucco anche di
fronte alla magnificenza di quell'edificio, che lo sovrastava in
maniera così imponente e nobile da fargli dubitare che fosse stato
costruito da gente come lui- niente poco di meno che umani.
La sua parte
preferita era stata di sicuro la Tourre Eiffel: il modo in cui era
illuminata, il posto in cui era situata, la gente, il chiacchiericcio
generale, tutto in quel posto gli aveva fatto credere che in
quel momento non dovesse trovarsi da nessuna parte se non lì. Tutto
lo aveva fatto sentire come se fosse stato un cittadino a tutti gli
effetti, e per un po', Frank ci voleva credere. Poco dopo, Gerard lo
aveva a malavoglia trascinato via, per portarlo lì all'imbarco dove
ora si trovava.
Finalmente lo
chateau arrivò, con un minuto cronometrato di ritardo, ed i due
salirono, cercando di accaparrarsi i posti con la vista migliore.
Faceva a dir poco freddo, lì sopra, ma ne valeva la vista ne valeva
la pena. Le luci, il modo in cui esse si riflettevano sull'acqua, i
ponti, la sfarzosità, la bellezza che si vedeva in ogni singolo
angolo di quella città, fece capire a Frank perché quella città
era il sogno di quello splendido ragazzo seduto accanto a lui. Si
voltò a guardare Gerard, per poi scoprire che lo stava già
fissando.
«Che c'è?»
Chiese Frank, innocente.
«Nulla.» Sorrise
Gerard, espressione un po' malinconica stampata in volto. Volto dal
quale, Frank non riusciva a staccare gli occhi: per tutta la serata,
non aveva smesso di voler baciare Gerard. Era diventato un chiodo
fisso, ovunque si trovasse. Ogni momento sembrava il momento giusto,
eppure, si rivelava sempre un fallimento quando qualcosa
succedeva, facendo a pezzi l'atmosfera. Si chiese cosa sarebbe potuto
andare storto se l'avesse fatto in quel momento, ed arrivò in fretta
alla conclusione che la risposta era tutto. Tutto
sarebbe potuto andare male. Eppure, tutto sarebbe potuto andare bene.
E non lo avrebbe mai saputo se non ci avesse provato.
«Ci credi al colpo
di fulmine, Gerard?» Chiese, terrorizzato di ricevere un “no”
come riposta. Perché infondo, il suo cos'era se non un colpo di
fulmine?
«Prima non ci
credevo.» Disse, tornando a guardare il paesaggio di fronte a lui.
«..Prima.» Specificò nuovamente, come se avesse notato
l'espressione contrariata di Frank. «E a te piace Paris?»
Domandò, ricordando al ragazzo che lo scopo iniziale della serata
era in effetti quello di fargli cambiare idea su quella città che
ora amava con ogni pezzo di sé stesso. Si crogiolò per qualche
secondo nella bellezza del suo accento, prima di rispondere a modo
suo.
«Più di quanto
vorrei, a dire il vero..» Sorrise fra sé e sé, pensando a quante
cose gli sarebbero mancate una volta tornato in Jersey. Lui in cima a
tutte, ovviamente.
«Le ville de
l'amour..» Disse Gerard, guardandolo negli occhi con un sorriso
stampato in volto. Frank capì che quello era il momento. Quello.
E che, dal modo in cui aveva pronunciato quelle parole, non poteva
sbagliarsi: non era l'unico a desiderare quel che stava per accadere.
Dal primo momento. Poggiò delicatamente la mano dietro il collo del
ragazzo, giocando lascivamente con una ciocca dei suoi capelli.
Gerard lo guardò, le labbra appena schiuse e gli occhi profondi e
pieni di tante emozioni che in quel momento Frank non si sprecò a
leggere. Si avvicinò quel poco che bastava perché le loro labbra si
incontrassero, all'inizio in un semplice, casto, bacio, per poi
schiudersi con una lentezza a dir poco frustrante. Entrambi, da quel
momento in poi, non riuscirono a godersi molto del paesaggio.
«Gerard..» Frank
quasi gemette, con la fronte ancora poggiata contro quella del
ragazzo.
«Je t'aime, mon
cheri.» Sussurrò l'altro, rendendo l'attimo così perfetto che
entrambi si chiesero come tutto quello potesse essere cominciato da
un caffè.
18 dicembre 2011; ore 08:03
Quella sera,
entrambi capirono che Gerard aveva avuto stranamente torto: l'ultima
tappa non fu la Senna, ma casa sua, dove Frank aveva passato la
nottata. Non aveva avuto troppo tempo per guardarsi intorno la sera
prima, ma generalmente, c'era il caos: pennelli e quadri ovunque,
persino nel lavandino della cucina, lampade poco funzionanti e
montagne di libri. Esattamente il posto che gli si addiceva, a dirla
tutta. L'aereo di Frank sarebbe partito alle undici, quindi si prese
tutto il tempo necessario per dire addio -anzi, un lungo arrivederci-
a tutte le cose che gli sarebbero mancate a casa. Si voltò verso il
ragazzo che dormiva beatamente accanto a lui, chiedendosi come
facesse a starsene con la schiena così scoperta nonostante fosse
dicembre ed il termosifone si fosse rotto in seguito ad un esplosione
nelle tubature al piano di sotto. Gerard non viveva nella zona più
agiata della città, e questo era chiaro ad entrambi, ma Frank
invidiava il suo coraggio: non era sicuro che sarebbe riuscito a fare
una cosa del genere pur di vivere il suo sogno. Raccattò la sua
maglietta da terra, infilandosela di fretta e furia per poi rivolgere
nuovamente la sua attenzione al suo amant. Percorse il profilo
della sua sporgente spina dorsale su e giù con un solo dito, per poi
prendere a baciarlo ovunque vedesse pelle scoperta. E non
poteva fare altrimenti, considerati i chilometri che li avrebbero
separati per molto, molto tempo.
Gerard si svegliò
poco dopo, e la tortura peggiore fu sapere che entrambi erano ben
consapevoli del fatto che il loro tempo stava per scadere e Frank
stava per andare. Alle nove lasciò l'appartamento: gli disse che lo
amava, che sarebbe tornato, e che lo avrebbe chiamato ogni giorno,
nonostante vederlo quasi in lacrime fu un'esperienza quasi
impossibile da sostenere.
E anche in quel
momento, mentre era seduto in aereo accanto ad una qualche coppia
sposata, ne era sicuro: Frank credeva nel coup de foudre, in
quel momento più che mai.
**
Salveeeeeeeeeeeeofjerifjerj!
Okay, lo so: sono
praticamente scomparsa, ma ci sono, più o meno intera. (?)
INDOVINATE
CHI è STATA A PARIGI? Non io. (ノ◕ヮ◕)ノ*:・゚✧
O
almeno, non quest'anno. Avevo sette anni quando sono stata in quella
città splendida e da lì è cominciata questa fissa per la Francia e
qualsiasi cosa la riguardi. Mi scuso per le conoscenze un po'
frammentarie e patetiche di francese, ma ho provato a fare il mio
meglio. -w-
Non so da dove mi
sia uscita tutta questa fluffaggine, ma ehi, mi mancava postare, e
considerato che l'ho scritta in una nottata, poteva andare peggio.
Pensavo di mettere
le traduzioni delle parole e frasette francesi usate, ma poi mi sono
resa conto che sono tutte abbastanza ovvie o spiegate durante il
corso della storia, quindi non so, se avete altre domande, sono qui.
(Y)
Come al solito,
grazie in anticipo.
Alla prossima. <3
Ps: ci sentiamo a
settembre noi, NON VI LIBERERETE DI ME, MUHHAAHHAA *coughcough*
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