Finalmente.
Questa one-shot (lo è?) è stata per me come un
parto gemellare. Faticoso,
stancante e, ora come ora, deludente. Ho cercato di rimanere il
più IC
possibile, strappandomi quasi i bulbi oculari per cercare di
collaborare con
Word, ma, se proprio dovreste vedere dei caratteri OOC date la colpa
all’adolescenza, all’amore o quello che volete voi
u.u
Anyway,
vorrei fare un piccolo ma sentito ringraziamento a Jessie
perché ogni volta è
una valanga di fluff che mi aumenta l’autostima, anche se non
se ne accorge
nemmeno <3 Grazie mille a chi avrà l’arduo
coraggio di arrivare fino alla
fine e di lasciare una recensione, siete tutta la mia vita.
L’anima
incontra l’anima sulle labbra degli amanti
Se
una persona non se ne va dopo tutte le tue stranezze, i tuoi sbalzi
d’umore e i
tuoi errori, faresti meglio a prenderla, stritolarla tra le braccia e
non
lasciarla andare via.
Mai.
La
prima volta che lo vide fu davanti alla scuola, nell’angolo
più appartato del
cortile d’ingresso. John aveva incominciato a sbirciarlo di
nascosto per giorni
mentre tutti i suoi compagni sembravano non notarlo nemmeno. Non sapeva
il suo
nome, né altro, per la verità. Aveva solamente
preso a guardarlo, sempre più
spesso e con sempre più insistenza, ostinandosi a
oltrepassare la barriera
trasparente che sembrava distanziare quello strano ragazzo dal resto
del mondo.
Possedeva
occhi di ragazzo, mani di ragazzo, corpo di ragazzo e viso di ragazzo,
ma tutto
in lui, in un certo modo, sembrava gridare il contrario. Come stringeva
la
presa sulla sua cartella monocromatica, ad esempio, oppure il modo che
aveva di
camminare o la sua semplice espressione facciale.
Di
lui non aveva paura; piuttosto, si sentiva come davanti al mare, quel
mare così
profondo che, quando ci entravi, non sapevi mai se avevi qualcosa sotto
ai
piedi oppure no. Non proprio spaventato, ma certamente nervoso di
rivederlo,
ogni mattina davanti a scuola, fino a quando non si accorse che quello
sguardo
all’apparenza posato sul nulla, aveva cambiato direzione.
Gli
occhi puntati su John, come se volesse qualcosa. Evidentemente, non gli
passava
nemmeno per la testa di venire a prenderselo, qualunque cosa fosse,
come
facevano gli altri ragazzi, con una certa dose di violenza. Lui no. Non
avanzava pretese, solo sguardi, come se avesse tutto il tempo del mondo
per
aspettare. Occhi sanguisuga, ma freddi; riservati, eppure insistenti.
John si
teneva a debita distanza, ma il suo sguardo lo veniva a stanare
attraverso
tutto il cortile, se necessario.
Erano
entrambi soli, forse lui più di John, talmente solo che non
si metteva a
litigare neanche con i suoi coetanei. Avrebbe voluto farlo, avvicinarsi
a lui e
parlarci, chiedergli come si chiamava, perché non aveva mai
fatto amicizia con
nessuno o, più semplicemente, se le sue materie lo
interessavano tanto quanto a
John. Si sarebbe accontentato anche di un semplice ‘mi passi
il sale, per
favore? Grazie’, ma sapeva che era tanto desiderabile quanto
impossibile. Avrebbe
voluto prendere le sue lacrime –piangeva?
Tutti piangono– per
prendersene cura, prendere i suoi capricci e prendersene cura, le sue
grida, il
suo amore nascosto, tutto. Voleva prenderlo fra le braccia e dirgli:
‘io avrò
cura di tutto ciò che ti fa male, strapperò via
ogni tuo dolore’, ma quelle
parole rimanevano sospese nell’aria come il più
temuto dei segreti.
Di
lui, una volta suonata la campanella di inizio lezioni, sparivano le
tracce.
John provò a cercarlo nei corridoi tra un’ora e
l’altra, con risultati
scadenti. Ogni tanto, nel buio della sua cameretta, mentre le urla dei
suoi
genitori gli incendiavano la testa, si chiedeva da dove diavolo
provenisse
tutta quella particolare attenzione per il ragazzo riccioluto e
solitario. Era
strano e senza senso, un’idiozia bella e buona. Eppure era
lì, era così chiara
da sembrare quasi irreale, quella voglia di conoscerlo che non lo
lasciava mai
in pace.
Di
parlarne con qualcuno era impossibile, sapeva quanto le voci corressero
alla
velocità della luce in una scuola come quella che
frequentava e di parlarne con
qualcuno dei suoi parenti, beh, non avrebbe avuto di certo
l’imbarazzo della
scelta. Sua sorella era perennemente fuori casa e quando tornava non
era
nemmeno in grado di parlare con lui, visto che la maggior parte delle
volte era
ubriaca da star male.
Non
erano mai andati d’accordo e questo conferiva un muro tra
loro due che pareva
invalicabile; John considerava quella una faccenda estremamente
privata, non
sicuramente da mettere nelle mani di una sorella distante e confusa.
Avrebbe
potuto parlarne con sua madre –avrebbe
potuto?– o con suo padre, ma ogni sera, a cena, li
guardava fissi negli
occhi e non riusciva a proferire parola, chiuso in una bolla
impenetrabile di
curiosità e segreti e incertezza che loro, grandi e maturi,
non avrebbero
compreso.
Perciò
ogni notte andava a letto e si risvegliava nella medesima posizione,
pronto per
rivederlo. Alle volte avrebbe voluto che la notte durasse per sempre,
in un
limbo incastonato nel tempo, ma non esisteva niente di tanto lungo che
impedisse al sole di sorgere ogni mattina. Nemmeno quel ragazzo.
John
si massaggiò piano una tempia con la mano destra, imprecando
mentalmente contro
la scelta fatta anni addietro di frequentare una grammar
school*. Mordicchiò nervosamente il beccuccio
della penna
incastrato tra i denti, una mano che sorreggeva un grande tomo di
filosofia e gli
occhi che passavano da un rigo al corridoio pieno di gente, cercando di
non
scontrarsi con nessuno. Cercò di mormorare qualche
informazione a voce bassa,
imprimendosela tra le labbra e nella memoria, con scarso successo. Tra
pochi
minuti avrebbe avuto il fatale compito di fine primo quadrimestre e non
era
preparato nemmeno il decimo di come avrebbe dovuto essere. Panico,
assurdo e
maledettissimo panico. Cambiò pagina proprio nel momento in
cui andò a sbattere
contro qualcuno, salvando il libro appena in tempo per non farlo cadere
a
terra.
«
Attento a dove vai! »
Stava già per chiedere scusa
quando le parole gli morirono in gola. Massa di riccioli neri, zigomi
alti,
occhi –quegli occhi, quello
sguardo–,
era lui. L’ironia della vita era sempre stata antipatica a
John tanto quanto la
filosofia e in quel momento, tra tutte le domande e i pensieri che
aveva fatto
su quel tipo eccentrico, non riuscì a dire una parola.
Aveva
l’espressione a metà tra l’infastidito e
l’annoiato, girava con le mani in
tasca e la cartella sulle spalle, come se fosse pronto ad andarsene
subito,
nonostante fosse solo metà mattinata.
Si
era fermato un momento, lo sguardo dritto nel suo come non lo era stato
mai –era tutto così
esplicito, ora, non era più
solo immaginazione. «
Oh…io,
non…
» Prima che John potesse
ricollegare il cervello a tutto il resto del corpo, il ragazzo era
sparito tra
la folla, lasciando dietro di sé nient’altro che
l’eco della sua voce bassa. Ce
l’aveva avuto lì, a distanza di pochi centimetri –gli aveva sfiorato la spalla nel
contatto brusco? Non ne era sicuro,
ma gli piaceva pensarlo– eppure non aveva saputo
dirgli nulla.
Nemmeno
ciao, nemmeno mi passi il sale, anche se non sarebbe
c’entrato nulla. John era
rimasto lì a guardare il corridoio che si svuotava per
minuti che gli
sembrarono ore, prima di accorgersi che la campanella aveva
già fatto l’ultimo
squillo da molto più di dieci minuti e che, sicuramente, era
in ritardo su
tutta la linea.
Stupido,
stupido John, si disse mentre correva al terzo piano in direzione della
sua
aula.
Respira.
Respira
lentamente e calmati, pensò John quando passò
davanti al laboratorio di chimica
e notava una presenza un po’ familiare da dietro la porta a
vetri opachi.
Entrò lentamente
nella stanza, continuando a
darsi dell’idiota a ogni battito troppo irregolare che il suo
cuore creava. E’
solo un ragazzo, solo un ragazzo sconosciuto che lavora da solo in
laboratorio –aveva un permesso,
almeno?.
«
Non credo che dovresti essere qui. »
La sua voce ruppe il silenzio che
John aveva così cautamente mantenuto entrando in quel posto.
Accidenti. Doppio
accidenti. Si schiarì la voce, passando lo sguardo da un
oggetto all’altro, non
fermandosi mai sulla figura seduta sullo sgabello, intenta a fare
chissà cosa
al microscopio. «
Già, non ci
dovrei essere.
» Fu tutto
quello che riuscì a dire John, torturandosi le mani dietro
la schiena.
A
John sembrò che il ragazzo sbuffasse infastidito, alzando
gli occhi al cielo,
prima di rivolgersi verso di lui, ma non ne era sicuro al cento per
cento –d’altronde, cosa
sapeva a proposito di quel
ragazzo? Poteva essere il più antipatico del mondo e avrebbe
spiegato
perfettamente la sua vita solitaria. Eppure. Eppure c’era
qualcosa.
«
Quindi perché sei qui?
» John ci pensò su un attimo,
cercando una scusa plausibile per quella intromissione nel mondo
dell’altro. Si
poteva benissimo percepire che non era certo una persona di compagnia,
aveva
quello sguardo tipico delle persone distanti, quelle che credono tutti
una
massa di idioti informi, insomma. Si rigirò un filo scucito
del suo maglione
tra le dita, prima di replicare qualcosa di minimamente sensato. «
Avevo bisogno anche io del
laboratorio, il professore me l’ha consentito. »
Non
era vero, ovviamente. I professori non lasciavano mai andare gli alunni
in
qualunque posto dove avrebbero potuto rompere, contaminare o rubare
qualcosa,
lo sapevano benissimo entrambi.
«
Vale così tanto questa bugia? »
Disse l’altro, ritornando a
prestare attenzione al suo microscopio, girando manovelle e cambiando
vetrini
come se lo facesse da tutta una vita. John si sentiva un po’
in imbarazzo di
fronte a quella presenza così eccentrica –insomma,
doveva proprio sottolineare quanto facesse schifo nel
mentire?– ma decise
di riprovare ad attaccare un minimo di dialogo.
«
Io mi chiamo John Watson.
»
Sentenziò,
avvicinandosi al tavolo da lavoro e
sedendosi sulla sedia accanto alla sua. L’altro
sembrò non accorgersi nemmeno
di ciò che gli aveva appena detto, un ambiguo sorriso che
compariva sul viso
ogni volta che annotava frasi o numeri sul taccuino nero poggiato
affianco al
microscopio.
Aspettò
pazientemente che dicesse qualcosa –qualsiasi
cosa, dannazione!– ma questo non accennò
a nulla, nemmeno un leggero
sospiro in sua direzione. L’aveva cancellato dal suo mondo.
Era già tutto
finito? Forse sarebbe stato meglio andarsene e fare finta di niente per
tutto
il resto della sua permanenza in quel luogo. «
Non mi dici come ti chiami?
» Riprovò, sperando di riscuoterlo
dal torpore in cui
era caduto. «
Non mi hai
chiesto di farlo.
» John
aggrottò le sopracciglia, confuso. Pensava di essere stato
abbastanza chiaro,
veramente. Erano tutte e due in un laboratorio oltre l’orario
delle lezioni,
probabilmente infrangendo un paio di leggi scolastiche, e gli aveva
appositamente detto il suo nome per far sciogliere lo strato di
ghiaccio che si
erano creati intorno.
«
Te lo sto chiedendo ora, allora. »
Il ragazzo alzò finalmente gli
occhi su di lui, scrutandolo con uno sguardo che gli fece venire i
brividi
dietro la testa. Strana sensazione, strana persona. Ora si sentiva
anche lui
sotto un ipotetico microscopio, l’occhio vigile che lo
scandagliava da cima a
fondo, vivisezionava e catalogava.
Poteva
sentire il suo cervello correre alla velocità della luce e
riusciva a leggere
tutto in quelle iridi chiare. Sembrò soppesare attentamente
la sua richiesta,
nel silenzio elettrizzato della stanza, prima di far scoprire a John la
sua
identità. «
Mi chiamo
Sherlock Holmes.
» Avrebbe
voluto pronunciarlo a sua volta, dare finalmente un nome reale a quella
persona
reale –ci stava parlando, era vero,
consistente davanti a lui. Sherlock, che nome bizzarro. Non
glielo disse.
«
Bene, che cosa stai facendo,
Sherlock?
» Chiese,
l’alone di idiozia che sentiva dentro
non accennava a sparire, anzi, si intensificava ad ogni parola. Che
cavolo di
domanda era? Stupido.
«
Non lo vedi da solo?
» Rispose,
con una punta di irritazione. Giusto,
perfetto, logico. Abbassò lo sguardo, cercando le parole
adatte, qualcosa di
giusto da dire nel momento giusto. John prese il cellulare dalla tasca,
notando
l’ora e allarmandosi: il pullman sarebbe passato tra soli
quindici minuti e
avrebbe dovuto correre per arrivare alla fermata in tempo.
Si
alzò dallo sgabello, intenzionato ad avvicinarsi alla porta
prima che facesse o
dicesse qualcos’altro di irreparabile. Tipo respirare o
ricordargli che era
presente anche lui nella stanza.
«
John?
» Chiamò
Sherlock, facendogli mancare un battito. Si girò di nuovo
verso di lui,
sorridendo appena. «
Hai
dimenticato il telefono sul tavolo.
»
Oh. Oh,
già. Idiota. «
Sì, hai ragione, scusa.
» John
si riavvicinò a Sherlock che aveva preso
in mano il suo cellulare e lo stava rigirando come se fosse un
giocattolo. Dio,
quella situazione sarebbe rimasta impressa nella sua mente come la
più imbarazzante
di tutta la sua vita. «
Grazie.
» Gli
disse, prima di infilarsi l’aggeggio in
tasca e ripescare le vecchie cuffie da essa, intrecciando il filo
intorno al
dito. «
Comunque mi dispiace
per tua sorella, l’alcool è una dipendenza
difficile da nascondere alla
famiglia.
»
John
respirò forte, lo sguardo che era fisso sulla maniglia.
Sarebbe stato facile
afferrarla e scappare da lì, da lui, dal suo carattere che
lo aveva fatto
sentire inadeguato già dal primo secondo in cui aveva
toccato il pavimento del
laboratorio. Poteva farlo, poteva ignorarlo e fare finta che non fosse
successo
niente, che non gli avesse mai parlato. Poteva, ma non voleva. «
Come diavolo fai a sapere di mia
sorella?
»
In
fondo, il pullman poteva aspettare.
Ci
aveva riflettuto tanto, John, rinchiuso nella sua cameretta, la luce
spenta e
il letto ancora fatto al suo fianco. Aveva riflettuto sulle
coincidenze, sulle
persone con doti speciali e sulle amicizie improvvisate –esistevano
i colpi di fulmine in amicizia?.
Aveva
incontrato Sherlock Holmes in un laboratorio di scuola, fuori orario e
probabilmente fuori dalla legge, mentre lavorava ad uno dei suoi
esperimenti –‘Li faccio
spesso, la gente comune mi
annoia’, gli aveva detto, e lui si era sentito speciale.
Aveva
scoperto tutti i segreti sulla vita sua e della sua famiglia solamente
in pochi
minuti di conoscenza, senza quasi nessun dialogo tra loro –‘Fenomenale!’, aveva
detto John appena Sherlock aveva chiuso il
discorso, riprendendo fiato dopo tutte quelle parole infinite,
‘E’ stato
straordinario! Assolutamente eccezionale!’. John lo
aveva sorpreso, l’aveva
letto sul volto di Sherlock che era considerato un tipo strano solo
perché era
intelligente oltre ai limiti. ‘E’ per questo che
non hai nessun amico?’ Gli
aveva detto John, cercando il suo sguardo e tenendolo legato al suo.
Compatibile,
ecco come sentiva Sherlock, un tassello perfetto da collegare al suo.
‘No, è
perché non ne voglio. Gli amici distraggono, gli amici sono
una debolezza e io
non voglio essere debole, né distratto.’ John si era sentito offeso e
non ne aveva
capito la ragione. Non erano amici, loro due. Non erano proprio un bel
niente.
John
sbuffò al buio della sua stanza, il silenzio che galleggiava
intorno a lui come
un’ irritante coperta nel bel mezzo di agosto.
Non
ci capiva proprio nulla. Aveva aspettato mesi per conoscerlo,
guardandolo e pensando
di aver capito tutto di lui, tutte le sue insicurezze e i suoi
pensieri,
solamente dandogli un’occhiata i pochi minuti che precedevano
la campanella.
La
verità era che John non aveva capito niente di Sherlock
Holmes. Lui era tutto
un grande mistero, un oracolo di intelligenza elevata –‘È
poca la gente con cui possa trovarmi
in una stanza per più di cinque minuti senza sentirmi
stomacato. Tutte
le persone sono idiote, incluso te’, gli aveva detto quando
si erano trovati
davanti al cancello d’ingresso con il cielo che prometteva
pioggia, e lui
non si era sentito affatto speciale, in quel momento.
Sherlock non l’aveva
salutato, semplicemente l’aveva guardato un’ultima
volta e se n’era andato,
salendo su una macchina nera ed elegante.
John
percepiva ancora, dopo ore di distanza, il senso di delusione che aveva
ricevuto da quella separazione spoglia. Nessuna mezza promessa, nessun
‘ciao,
allora domani ti aspetto davanti alla scuola, al solito
posto?’. Niente. Si
alzò dal pavimento dove si era sdraiato ore prima –la meditazione si fa sempre nei posti
più scomodi, l’aveva letto in
qualche giornale di sua madre–, gattonando fino al
letto e stendendovisi
sopra. Si sentiva agitato, come quando stai per salire su una giostra
particolarmente divertente e non vedi l’ora di poter esserci
seduto sopra e
incominciare a urlare. Così si sentiva, in ansia.
«
Sherlock Holmes.
» Borbottò,
prima di addormentarsi.
Pullman,
sette e quaranta.
John
continuava a muoversi nervoso, spostando il peso da un piede
all’altro, appoggiato
al palo del vecchio e rosso mezzo di trasporto. Ricontrollò
l’orologio da polso
che aveva indossato quella mattina –un
vecchio e consumato orologio, perché diavolo se
l’era messo?– prima di
lanciare un’occhiata fuori dal finestrino. Quella era la sua
fermata. Dannazione,
era nervoso come un mocciosetto di due anni.
Scese
velocemente gli scalini che portavano al marciapiede, il passo
velocizzato da
una strana voglia crescente di scoprire e vedere –o
rivedere– e respirare come non aveva mai fatto in
vita sua. Arrivò
davanti al grande edificio bianco, le pareti scrostate non gli erano
mai
sembrate così interessanti come in quel momento.
Scivolò da un viso all’altro,
fino a trovarlo nel solito angolo del cortile, a destra.
Sembrava
non essere cambiato niente, era sempre lì, sempre con lo
sguardo perso tra la
marmaglia di gente che gli passava davanti senza vederlo –io
ti vedo–, fino a posarsi su di lui.
L’ondata di delusione che
gli provocò il suo lento scandagliarlo, prima di rivolgere
gli occhi altrove,
lo investì con una tale potenza da frastornarlo. Idiota era
stato lui a
pensarci tutto il giorno –tutti i
giorni–,
idiota era stato lui ad attaccare bottone per essere trattato come il
banale
ragazzo non benestante quale era, idiota era stato lui per tutto quello
e per
averci sperato, in un’amicizia o in un legame qualsiasi, con
un tipo che
l’aveva affascinato come Sherlock Holmes aveva fatto.
Il
suono della campanella arrivò come una benedizione,
distraendolo dalla figura
di Sherlock, facendolo fiondare dentro la scuola, in cerca
dell’aula per la sua
prima lezione. Passò l’ora appuntando
svogliatamente sul suo quadernino ed il
resto del tempo ad osservare l’orologio, contando i minuti
che mancavano per la
fine di quella tortura.
La
seconda ora avrebbe avuto l’ora buca –ottimo
per poter studiare quello che ora stava deliberatamente
ignorando–, ciò
stava a significare pareti azzurre, scomode sedie di plastica, in poche
parole,
aula studio. «
Watson?
» John
tirò su lo sguardo verso la cattedra,
dove stava il professore, le mani sui fianchi e l’espressione
irosa.
«
Per caso stai trovando la mia
lezione noiosa?
» Domanda
retorica, tutte le sue lezioni lo
erano. Un leggero brusio incominciò ad aleggiare in classe. «
No, professore, no di certo.
» «
Quindi mi potresti
riassumere ciò che stavo dicendo poco fa?
» Lanciò
uno sguardo agli
altri studenti, prima di guardare la pagina del suo quaderno e trovarne
solo
rombi e cubi disegnati ovunque, causati dalla svogliatezza.
Aprì
bocca per rispondere che no, non sapeva di che accidenti stavano
parlando,
quando la campanella suonò la fine dell’ora e
tutti si alzarono per andarsene.
John sospirò di sollievo, passandosi una mano sugli occhi. «
Salvato per miracolo, Watson.
» Disse,
prima di riordinare le sue cose e
scomparire insieme alla classe, nel corridoio affollato. Si
alzò a sua volta,
dirigendosi al piano superiore, verso l’aula riservata allo
studio. Salì velocemente
le scale, prima di svoltare un angolo e ritrovarsi davanti la stanza
vuota, a
eccezion fatta per un ragazzo e una ragazza, appartati in un angolo
mentre
ascoltavano la musica dagli auricolari.
Si
sedette su una sedia di plastica bianca, i braccioli intagliati con
nomi o
disegni volgari che gli fecero accennare un sorriso a labbra chiuse.
Aprì lo
zaino per tirare fuori il libro di astronomia e i non appunti che aveva
scritto
durante la precedente ora. Sospirò prima di immergersi in
spiegazioni, sintesi
e schemi quando un accenno di tosse lo distolse dai suoi pensieri.
Guardò i due
giovani, ma non sembravano essere stati loro a fare quel rumore, presi
com’erano dalla musica, con la testa uno appoggiato a quella
dell’altra, quindi
spostò lo sguardo fino all’ingresso, dove si
trovava Sherlock, un libro
sottobraccio e la cartella appesa ad una sola spalla. Sherlock. Anche
qui?, pensò
John, distogliendo subito gli occhi da lui fino a rimetterli sul suo
quaderno.
Fai
finta che non esista, fai finta che non esista.
«
Ciao…
» Mormorò
John
quando Sherlock gli passò davanti, non vedendolo –o stava solo facendo finta?.
Era vicinissimo, poteva quasi
sfiorarlo, lui in piedi in tutta la sua altezza e John seduto in tutta
quella
banalità che Sherlock riteneva noiosa. Di nuovo, gli sguardi
si incontrarono,
in quell’azzurro non azzurro degli occhi di Sherlock che
erano così belli da
poter essere fotografati migliaia di volte, con tutti quei colori e
quella
patina lucida che li caratterizzava sempre.
Forse
era stato avventato da parte di John salutarlo –non
si era forse ripromesso di non pensarci più?–,
ma non aveva
potuto farne a meno. Forse non era stato avventato, dopotutto. Era
stato
semplicemente inevitabile. Forse avrebbero incominciato a parlarsi
senza alcun
bisogno di incentivo. O forse no, ma era andata così e tanto
era che si sentiva
quasi destinato a conoscerlo più a fondo. «
Ciao, John.
»
Rimase per un
momento fermo davanti a
lui, in qualcosa che sembrava tanto una statua. «
Puoi sederti qui, se vuoi.
» Proruppe
John, ancora prima che quelle parole si formassero nel suo cervello.
Sherlock
aggrottò le sopracciglia, rimanendo, però, fermo.
«
Sei strano.
» Disse
Sherlock, scrutandolo come se da un momento all’altro John
sarebbe scoppiato in
un milione di pezzi o trasformato in un gigantesco orso di peluche.
Strano? Non
si sarebbe definito strano. «
Perché?
» Chiese
allora, cercando di seguire il filo dei
pensieri della persona davanti a lui e fallendo miseramente. «
Pensavo che ieri ti
avessi…offeso. Di solito succede così alla gente
normale.
»
Oh.
Eccolo lì, chi aveva visto in tutte quelle mattine, la
barriera che lo divideva
da tutto il mondo. Eccola lì, dov’era la persona
che era sicuro ci fosse in
lui, chissà come. Quella lieve incrinatura nella voce, quel
particolare sguardo
da persona smarrita, dietro chili di logica e convinzioni sbagliate.
Lui
mostrava quella parte intelligente di sé –quella
che lui aveva adorato dal primo istante– e tutti se
ne andavano,
additandolo e sentendosi offesi. Stupidi, idioti. Gli sorrise, cercando
di
passargli più serenità possibile, prima di
indicargli ancora la sedia accanto
alla sua. Questo si sedette, appoggiando la propria roba sulle gambe e
rovistandoci dentro.
Dette
un’occhiata di soppiatto, notando che di libri ce
n’erano pochi e che, più che
altro, era pieno di taccuini, penne, una lente
d’ingrandimento –ma che
diavolo ci faceva con quella cosa a
scuola?– e un Iphone ultimo modello, buttato a
casaccio tra le altre cose. «
Comunque, per chiarire, non credo
tu abbia detto qualcosa di particolarmente cattivo nei miei confronti
tale da
offendermi.
» Disse
John, sfogliando il proprio libro di
astronomia con poco interesse, ormai tutta concentrata altrove.
Sherlock alzò
un sopracciglio, spostandosi un ricciolo da davanti agli occhi, in modo
da
poter trovare ciò che stava disperatamente cercando in quel
mare di disordine.
«
Quando spiattelli in faccia alle
persone la loro vita in base a dati che loro definiscono poco
importanti,
tendono a diventare più stupide del solito. Non capiscono
che basterebbe
osservare solo più attentamente le cose per avere tutte le
informazioni che
cercano disperatamente di nascondere.
» «
Io non ho nulla da nascondere, posso essere escluso
dalle persone stupide?
» Gli
chiese, con un sorriso che cresceva senza
sosta. Lui si girò per un momento a guardarlo, la mano che
finalmente stringeva
un pezzetto di carta fitto di scritte e numeri. John si
ritrovò addosso il suo
sguardo fisso, con un accenno di sorriso che spuntava sulle labbra e
gli andava
a marcare gli zigomi.
«
Adesso non esagerare.
» Rispose,
sistemandosi meglio sulla sedia e
ributtandosi in un’altra ricerca per trovare una penna. John
gli porse la sua,
non accennando a spegnere il sorriso che contagiava anche gli occhi. «
Tieni, usa la mia.
»
Restarono
così per tutta l’ora, nel silenzio della stanza,
con solo un accenno della
musica troppo alta che stavano ascoltando i due ragazzi
all’angolo, le spalle
che si sfioravano ogni tanto in un tocco accidentale e gli occhi che si
cercavano tra le righe dei libri dal poco interesse.
«
Sherlock?
» Lo
chiamò
John, cercando di farsi prestare attenzione mentre uscivano insieme dal
cancello
della scuola. «
Dimmi.
» Rispose
Sherlock, gli occhi che vagavano dalla
misteriosa macchina nera posteggiata pochi metri più in
là a lui. Un baluginio
nel suo sguardo gli fece capire che non c’era niente di buono
in quella
testolina riccioluta.
Era
da qualche giorno che si frequentavano a scuola, la mattina John
borbottava con
Sherlock di quanto avesse sonno o delle materie noiose che avrebbe
dovuto
affrontare in mattinata e si riunivano alla fine delle lezioni con le
annotazioni di Sherlock su quanto i suoi esperimenti stessero
procedendo in
maniera grandiosa o delle particolari caratteristiche che aveva visto
in un
professore qualsiasi. ‘Sarebbe bello poter vivisezionare
tutti’, gli aveva
detto un giorno, seduti sul muretto che costeggiava il cortile,
‘aprirli tutti
e capire cosa ci trovino di interessante gli uni negli altri. Poter
sperimentare e creare, solo così potrebbero tornarmi
utili’. John non gli aveva
dato peso, ormai abituato a uscite di quel genere.
«
Ti andrebbe di andare a fare un giro
nel parco prima di tornare a casa?
»
John
aggrottò la fronte, stranito per
quella richiesta non da Sherlock. «
Come mai?
» Chiese
cauto, cercando un qualche interesse
che potesse far smuovere Sherlock fino ad un comunissimo parco giochi
per
bambini.
«
Ho solo voglia di fare una passeggiata
con te, è così strano?
» Sì,
lo era. Strano e con un doppio fine, visto
che quello sguardo non gli piaceva per niente. «
Va bene, andiamo.
» Fece
un
segno alla macchina e incominciò a camminare verso il parco
dietro la scuola,
dove a quell’ora non ci sarebbe stata anima viva. «
John, ora io devo fare una cosa, tu resta qui e non
ti muovere.
» Disse,
arrivati davanti all’entrata
secondaria.
John
lo fissò confuso, cercando di capire cosa volesse fare. «
Perché? Cosa devi fare?
» Sherlock
alzò gli occhi al cielo, prendendolo
per le spalle e guardandolo dritto in volto. «
Fai quello che ti ho detto. Non ti muovere di qui,
arrivo subito, promettilo.
» Annuì,
imbarazzato dal contatto mai ricercato
da entrambe le parti. Lui si guardò un attimo intorno, prima
di entrare nel
parco e girare fra gli alti alberi, in cerca di qualcosa,
finché non scomparì
dalla sua vista. John scalciò piano un sassolino che si
trovava sulla sua
strada, prima di fissare il percorso che aveva seguito Sherlock e
incominciare
a dirigersi in quella direzione.
Sapeva
che gliel’aveva promesso e che probabilmente non era nulla,
ma era agitato e il
suo sesto senso non sbagliava mai. Lo trovò dietro ad un
cespuglio
particolarmente florido, lo riconobbe dalla nuvola nera dei suoi
capelli che
non lasciava dubbi d’appartanenza. Stava insieme ad un altro
ragazzo,
probabilmente più grande, che aveva visto in giro per scuola
e che aveva una
brutta reputazione. Restò immobile, azzerando il respiro e
fissandolo quasi
senza battere le palpebre. Immobile mentre vedeva Sherlock passare
delle
banconote al ragazzo che sapeva si chiamava James, immobile mentre
James
passava qualcosa a Sherlock in una busta bianca dall’aria
innocente –ma che innocente, lo
sapeva, ormai, non
era–, immobile quando Sherlock salutò
con un cenno del capo e si voltò
nella sua direzione. Immobile anche Sherlock, ora.
Tutto
sembrava essere un grosso nodo che stringeva John a dismisura. Lo aveva
usato
come diversivo per comprarsi chissà quale droga, lo aveva
usato per far finta
che andasse tutto bene, lo aveva usato.
John
indietreggiò di un passo e poi un altro e un altro ancora.
Non voleva
andarsene, in realtà. Voleva restare e urlare contro di lui,
voleva dirgli
perché lo stava facendo o perché
l’aveva fatto in passato. Erano così piccoli e
lui…Sherlock rimase fermo davanti al cespuglio fino a quando
John prese a
correre verso casa, mandando al diavolo il pullman e la macchina nera
che gli
era passata affianco proprio in quel momento.
Aveva
fatto finta di niente quando aveva visto i segni sul suo braccio
nonostante
amasse la medicina e sapesse tutto quello che c’era da sapere
per vedere i
segni di un drogato, aveva chiuso gli occhi e girato la testa
dall’altra parte,
troppo debole e troppo giovane per poter affrontare un argomento tanto
importante con un amico tutto nuovo, del quale si fidava, nonostante
tutto
andasse contro di lui. Sherlock.
Appena
arrivò a casa si chiuse in stanza, evitando le domande che
sua madre gli stava
rivolgendo da quando aveva sbattuto la porta d’ingresso. Bip.
Aprì
gli occhi –non si ricordava nemmeno
di
averli chiusi– fissando il telefono abbandonato sul
comodino vicino al
letto. La scritta diceva ‘Un nuovo messaggio da
Sherlock’: panico. Voleva
leggerlo? Sì. Ne aveva la forza? No. Panico.
Afferrò
il telefono e sbloccò la schermata, visualizzando il
contenuto.
Non
pensarlo. SH
John
si era immaginato scuse, delle suppliche, magari, qualche frase di
mezza
promessa, una richiesta di aiuto. Il pragmatismo di Sherlock alle volte
diventava
insostenibile. Strizzò le palpebre prima di trovare il
coraggio di rispondergli
in maniera adeguata.
Cosa
non dovrei pensare?
Che
tu sia un diversivo. Non pensarlo. SH
Sapeva
tutto, ovviamente. In nemmeno un’ora dall’accaduto
aveva già riflettuto ed era
arrivato a tutte le sue conclusione –perfettamente
azzeccate. In fondo, gli voleva bene anche per quello –gli voleva bene? Dio, gli parlava da
qualche settimana e già lo
sentiva interamente suo, una proprietà privata.
Non
l’ho pensato.
Invece
sì. SH
Era
velocissimo a scrivere, tanto che John si chiese se non immaginasse
già cosa
lui avrebbe risposto ai suoi messaggi e si portasse avanti scrivendone
già un
altro. Impossibile, forse. Giocherellò con il cellulare,
pensando ad una
riposta adeguata da scrivergli quando un altro bip lo distolse dai suoi
ragionamenti.
Non
era mia intenzione recarti alcun turbamento. Non volevo fare qualcosa
per
ferirti. SH
Era
bravo con le parole, glielo doveva concedere. Era tutto un
dico-non-dico che lo
stava facendo impazzire.
L’hai
usata? JW
No.
Non voglio usarla. SH
Sei
arrabbiato? SH
Era
arrabbiato? No, non era arrabbiato, era solamente confuso. Un cervello
di
quella portata schiavo di qualcosa come la droga, non propriamente una
bella
cosa da pensare. Eppure non l’aveva presa e John si fidava.
Forse.
JW
Allora
domani non avrò nessuno a cui raccontare
l’esperimento sulla professoressa di
filosofia. SH
John
sorrise al pensiero di cosa avesse potuto combinare alla loro
professoressa.
Era strano e senza senso, ma quel rapporto che si era instaurato tra
loro era
acciaio indistruttibile, un cordone che non riusciva a staccarsi mai.
Ti
perdono solo se domani pomeriggio usciamo insieme. JW
Era
stato azzardato? Forse, ma aveva voglia di passare un’intera
giornata con lui
senza campanelle o macchine che aspettavano fuori dal cancello.
Sono
lusingato, ma non credo che potresti essere il mio tipo di ragazzo. SH
John
sgranò gli occhi, a metà tra lo stupito e
l’imbarazzato.
Stava
scherzando, vero? Lui non voleva chiedergli…era solo un
invito tra amici. Nulla
di più. Stava già per rispondergli con qualche
frase riparatoria quando
ricevette un altro messaggio da parte di Sherlock –ma
quanti soldi aveva nel cellulare?.
C’è
un posto in cui mi piace andare per stare da solo, poco lontano dalla
scuola.
Potremmo andarci. SH
Basta
che non sia un altro parco. JW
Si
era pentito subito di averlo scritto. Era stato troppo crudo, ma ormai
l’aveva
inviato e non c’era più nulla da fare per poter
riparare.
Non
è nulla che possa intaccare la tua bolla di
tranquillità. SH
Me
lo merito. JW
Te
lo meriti. SH
John
sorrise, posizionandosi in posizione fetale, la mano che stringeva
ancora il
telefonino e l’altra sotto il cuscino. Si
addormentò con la convinzione che,
prima o poi, sarebbe stato capace di guarire Sherlock Holmes da
qualsiasi suo
problema.
In
fondo, erano così giovani da poter cambiare anche il mondo.
«
Non dovresti stare con tipi come lui.
»
John si
girò un momento verso Mike, il suo
compagno di banco nell’ora di fisica e uno dei pochi ragazzi
con cui aveva
instaurato un minimo di rapporto.
«
Come scusa?
»
Domandò
John a bassa voce, cercando lo sguardo
dell’altro e non trovandolo, preso com’era a
ricopiare ogni cosa ci fosse
scritta alla lavagna. «
Quel ragazzo, non so come si
chiami. Non dovresti stargli vicino, è strano.
»
Strinse i pugni,
cercando di controllare
la rabbia che aveva incominciato a scorrere a fiotti nelle vene. Era
per gente
come lui che Sherlock era così solo. «
Non sai niente di lui.
»
Bisbigliò
John, respirando forte. «
Infatti, nessuno sa niente di lui. E’ un tipo che non
dà freno alla lingua e si
crede superiore all’intero genere umano, così
dicono. Un antipatico di prima
categoria. Non vorrei ti facesse finire in situazioni che non sapresti
gestire…
»
Situazioni
che non sapeva gestire? Avrebbe voluto ridere forte e poi spaccargli la
faccia.
Il
suo sogno fin da quando era piccolo era stato entrare
nell’esercito e tenere in
mano una pistola vera, per sentire l’adrenalina fin dentro al
cervello. Sapeva
perfettamente chi fosse e cosa volesse diventare e rimanere, Sherlock
non era
un teppistello senza intelligenza. Sherlock non era solo un banale
‘nessuno’. «
Non credo che questi siano affari tuoi, Mike. Lui è mio
amico.
»
«
E per lui è lo stesso?
»
John aprì
la bocca per parlare, ma non
ne uscì alcun suono.
Erano
amici –lo erano?. John si
sentiva
così legato alla sua sola presenza da cercarlo in mezzo ai
corridoi o nelle
cose più banali, come una lente d’ingrandimento
stampata su un libro di scuola.
Aveva incominciato a trovarlo nella curvature di certe linee o nella
morbidezza
e sfumatura di certi colori. Era in tutto. Era tutto e a John questo
incominciava a mettere agitazione. Per lui era lo stesso? Non si
sbilanciava
mai a parlare di loro, di quello strano legame che si era legato.
Sembrava
tutto scienza, scienza, scienza, logica, logica, logica e mai
nient’altro. Per
John, invece, ormai era tutto Sherlock, Sherlock, Sherlock e mai
nient’altro.
Alla
fine delle lezioni, John aspettò Sherlock fuori dai cancelli
di scuola, pronto
per il solito giro pomeridiano che facevano da un mese pieno. Suono
della
campanella, passeggiata fino al campo dove l’aveva portato il
pomeriggio
seguente a quell’incidente –John
voleva
chiamarlo così– e poi ognuno a casa
propria, un messaggio dietro l’altro
fino a quando John si addormentava.
«
Ehi!
»
Sventolò
la
mano tra la folla, attirando l’attenzione di Sherlock che
arrivò subito vicino
a lui. «
Sono riuscito a prendere altre fialette
dal laboratorio di scienze!
»
Disse, tutto
emozionato, dando un leggero
colpetto alla cartella, come se fosse un dolcissimo animaletto. «
Sono stato attento, non preoccuparti.
»
Continuò,
dopo aver notato l’occhiata
ammonitrice di John. Il preside era stato chiaro, qualche settimana
prima, se
avesse ancora scoperto Sherlock a rubare avrebbe dovuto prendere seri
provvedimenti. John era stato molto spaventato per quella notizia, ma
Sherlock
sembrava essere la persona più tranquilla del mondo, dicendo
qualcosa a
proposito delle influenze di suo fratello Mycroft e sputando una sfilza
di improperi
contro di lui per tutta la giornata. «
Sono contento per te.
»
Gli disse, in
realtà poco interessato
alle sue attività illegali –sempre
scienza, scienza, scienza. «
Tu, invece? Qualcosa di importante
da raccontare?
»
Chiese Sherlock, una
volta arrivati nel solito
campo verde in cui erano soliti sedersi per tutto il pomeriggio, un
plaid sopra
il manto d’erba e la preghiera che non incominciasse a
piovere, quasi mai
esaudita –quello sembrava un giorno
favorevole, però.
«
Nulla che possa attirare la tua attenzione.
»
Rispose, passandosi
una mano sugli occhi
stanchi.
«
Hai litigato con qualcuno.
»
John lo
guardò, in attesa della sua
spiegazione. «
Quando sei arrabbiato o irritato ti si
crea una particolare ruga qui.
»
Disse, sfiorandogli
la fronte, poco sopra il
sopracciglio, prima di far sparire la mano come se fosse
un’arma del delitto. «
Già, mi hanno fatto arrabbiare.
»
Sospirò,
togliendo dal suo zaino un panino per
poter pranzare. Provò ad offrirne un pezzo a Sherlock ma
rifiutò.
«
Chi?
»
«
Un compagno di fisica, uno che parla troppo, per i miei gusti.
»
Sherlock stette un
attimo in silenzio,
prima di parlare. «
Quindi questo ragazzo ha detto qualcosa
di brutto nei miei confronti?
»
«
Non brutto!
»
Replicò
subito, cercando un qualche
segno di delusione su quel viso, ma non trovandolo. «
E’ stato soltanto…scortese, non è
cattivo.
»
Sherlock aveva lo
sguardo perso tra i ciuffi
d’erba tutt’intorno a lui, parlava senza guardarlo,
una cascata di pensieri che
gli uscivano dalla bocca e che lasciavano John pensieroso.
«
Probabilmente è solo abbastanza idiota da dirti cose che
già sai. Un giorno
guarderai questo tuo amico e ti sembrerà un po’
anormale, oppure non riuscirai
più a sopportare il suo modo di esporsi o qualcosa del
genere. Sarai molto
risentito con lui e penserai sul serio che si è comportato
malissimo con te.
Quando vi incontrerete di nuovo sarai freddo e scostante. Un vero
peccato, perché
non sarai più lo stesso.
»
John
lo guardò in silenzio per qualche momento, sembrava
così distante da tutto,
irraggiungibile eppure ai suoi occhi, così desiderabile. In
quel discorso vide altri
protagonisti –quelli veri–,
loro due,
che erano così soli da essere inseparabili.
Lui
con una zavorra di problemi e logica e John con una zavorra di cuore e
sentimenti.
Agli antipodi di un mondo uguale. John non ci pensò oltre,
allungò la mano
verso quella dell’altro, in una presa stretta che gli faceva
sentire tutta la
sua presenza. «
Credo che qualunque comportamento avrà
questo mio amico, se gli vorrò bene e lui ne
vorrà a me allora niente potrà
essere brutto o anormale.
»
Sherlock
ritornò a guardarlo, la stretta sulla
mano di John che era inesistente, che non stringeva ma non spingeva
via. «
Noi siamo amici?
»
Chiese ad un tratto
John, la bocca che non
voleva saperne di restare chiusa, ormai completamente alla deriva.
Sherlock
sembrò in difficoltà, aggrottando le sopracciglia
in quel modo tutto suo. «
Per te siamo amici?
»
Per
me siamo molto di più, avrebbe voluto dire.
Perché sentiva che Sherlock non era
solo un amico, di quelli che ci esci il sabato pomeriggio per non
restare a
casa da solo, accettando lui si accettava tutto, un mondo pieno di
nuovi colori
e nuove esperienze, quel mondo che a John andava bene, così
comodo e perfetto. «
Sì, lo siamo.
»
Disse John,
stringendo la mano contro la sua.
Sperò
che Sherlock non vedesse tutte le parole incastrate nella sua gola e
dietro i
suoi occhi, che non si accorgesse di quanto, in realtà, i
suoi sentimenti
stessero cambiando in un modo tutto pericoloso e per niente stabile. «
Allora non vedo dove sia il problema.
»
Sherlock
appoggiò la testa sulle gambe
incrociate di John, chiudendo gli occhi e rilassandosi –momenti
più unici che rari, visto che la noia lo attanagliava spesso.
Il
problema, pensò John mentre frenava l’impulso di
toccargli i capelli, fallendo
miseramente, era in quello che non era stato detto.
«
Se dovessi scegliere un oggetto da portare su un’isola
deserta, quale
porteresti?
»
«
Che idiozia, non ho nessuna intenzione di partire per
un’isola deserta.
»
«
Sherlock, è una situazione ipotetica!
»
«
Beh, ipoteticamente parlando, allora, è impossibile che
questo accada.
»
John
aveva fatto cadere l’argomento a favore dei suoi neuroni e
della sua pazienza.
«
Hai mai pensato di trovarti una ragazza?
»
«
Perché dovrei farlo? Le ragazze sono stupide.
»
«
Non è vero, alcune sono generose e intelligenti e poi non
puoi pensare di passare
tutta la tua vita da solo!
»
«
La solitudine mi protegge.
»
John
sbuffò, farlo ragionare aveva lo stesso risultato di parlare
con un muro: inutile
e deludente.
«
Io credo che queste tue frasi fatte non riescano a convincere nemmeno
te.
»
«
Beh, invece a me non importa di cosa credi tu!
»
Sherlock
si era girato, voltandogli le spalle come in uno dei suoi massimi
livelli di
infantilità. Stava quasi per alzarsi e andarsene –insomma,
era la prima volta che Sherlock lo invitava a casa sua e già
stavano litigando–
quando una mano bianca sgusciò fuori dal divano per prendere
quella di John –ci era abituato
ormai, a quei contatti, non
doveva rabbrividire ogni volta, dannazione!. John si mise
più comodo per
terra, ai piedi del sofà, la mano stretta intorno a quella
dell’altro, ancora con
un adorabile broncio sul viso.
Due
mesi e dodici giorni.
Non
che John tenesse il conto del tempo che passava da quando lui e
Sherlock erano
diventati amici, stava solo camminando casualmente vicino al calendario
e ci
aveva dato un’occhiata.
Due
mesi e dodici giorni passati a bisticciare –con
John che gli andava a chiedere scusa anche quando non era colpa sua e
uno
Sherlock sempre meno chiuso–, osservare –Sherlock–,
parlare, correre nei posti più disparati di Londra in modo
da trovare i giusti
elementi e le giuste postazioni per gli esperimenti di Sherlock.
Era
strano il modo in cui John si sentiva, non propriamente come quando in
prima
superiore aveva avuto come amico un ragazzino dai capelli rossi e le
lentiggini
su tutta la faccia. Con Sherlock sembrava quasi impegnato in una
relazione vera
–il solo pensarci gli creava un buco
in
fondo allo stomaco–; era possessivo, come quando
John si fermava un po’
troppo –a suo giudizio–
a parlare con
Sarah, la sua più vecchia amica, e Sherlock arrivava a
portarlo letteralmente
via, giudicandola senza nessun freno.
Era
tutto strano, eppure piacevole, di quelle cose che non sai se ti
piacciono o meno,
ma che non scambieresti per nulla al mondo.
Quel
giorno aveva dato buca a Sherlock, dicendo che era stanco e sua madre
avrebbe
dovuto portarlo in giro a fare spese. In realtà, non gli era
sembrato neanche
lontanamente triste per quel rifiuto improvviso e uno strano rumore di
sottofondo aveva fatto insospettire John tanto da farlo sentire in
colpa,
seduto su una panchina insieme a Sarah.
Aveva
bisogno di chiarezza e Sherlock lo confondeva come non mai. «
Quindi, che cosa succede? »
«
Non lo so, è
per questo che ti ho chiamato.
»
«
Da quanto mi hai raccontato lui ti
piace.
»
No, no, no,
no, no, la sua mente aveva incominciato a negare ancora prima che
quella frase
fosse stata detta. L’imbarazzo lo colpì come una
pugnalata. «
Ma il problema è: a lui tu piaci?
»
Sarah: sempre dritta
al punto. John si leccò
le labbra e poi si schiarì la voce.
«
Gli piaccio, credo.
»
Rispose, dopo una
pausa infinita. «
So che gli piaccio, non potrebbe essere altrimenti. Lui non fa
avvicinare
nessuno e io sono l’unico ad esserci riuscito. Lo ascolto
senza giudicare
negativamente la sua intelligenza e a lui questo piace. Quando lo
guardo sento
che nessun altro sarà mai come lui e di solito è
gentile con me, ce ne stiamo
insieme nei posti più isolati a chiacchierare di mille cose,
ma…
»
John
abbassò gli occhi, cercando un appiglio nel legno graffiato
della panchina.
Difficile. «
Certe volte, però, mi tratta quasi
senza riguardo, adducendo alla scusa di annoiarsi e
dell’ormai dilagante
idiozia umana.
»
Sarah
alzò un sopracciglio e potevo leggere
nei suoi occhi la domanda espressa da tutte le persone che conoscevo –come fai a sopportarlo?. «
In quei momenti ho quasi paura di aver gettato il mio affetto e la mia
fiducia
nelle mani di uno a cui non importa, che li tratta come se fossero dei
fiori
appassiti con il solo scopo di lusingare la sua intelligenza,
l’ornamento di
poco conto in un giorno d’estate.
»
«
I giorni d’estate sono belli quanto lenti, John. Presi poco
in considerazione
quando vengono vissuti e rimpianti amaramente quando essi passano.
Credo che
ognuno abbia i suoi difetti, ma che tu ci tenga troppo a lui, ora come
ora,
anche solo per penderli in considerazione come veri e propri ostacoli.
»
John
abbassò la testa, colto con le mani nel sacco. Era tutto
troppo, troppo complicato
e troppo inverosimile. Aveva sempre difeso i diritti di tutti, che
fossero
omossessuali o eterosessuali, perché era giusto
così e lo sapeva bene, ma aveva
anche preso in un certo qual modo le distanze, perché a lui
erano sempre
piaciute le ragazze e così sarebbe stato per sempre –o almeno credeva.
Poi
era arrivato Sherlock e tutto aveva preso una piega diversa, non era la
semplice
questione di uomo o donna, era questione di sentimenti e logica, troppo
separati anche solo per pensare di unirli. Aveva solo diciannove anni e
non
aveva mai pensato seriamente all’amore, eppure ora lo sentiva
così vicino da
poter allungare la mano e toccarlo. «
Dovresti parlarne con lui, magari.
O dovresti prendere il tuo spazio e lasciarlo andare.
»
John sorrise
amaramente, non prendendo
nemmeno in considerazione le due opzioni.
Parlarne:
cattivissima idea. Poteva già sentire il suo tono disgustato
e la presa
sarcastica che avrebbe preso la discussione, con John che si alzava per
andarsene e Sherlock che non accennava a scusarsi –orgoglioso
del cavolo.
Lasciarlo
andare: ipotesi impensabile. Sentiva già una ferita fisica
al solo pensarci –era tutto solo,
come avrebbe potuto fargli
quello? Come avrebbe potuto farsi questo?–, come
tagliare quell’invisibile
cordone ombelicale che li teneva uniti in modo così brutale
da far rimanere
cicatrici profonde per sempre.
Erano
rimasti tutto il pomeriggio a parlare, cambiando discorso ogni cinque
minuti e
finendo in un vicolo cieco ogni volta. John che era troppo distratto
anche solo
per provare a intavolare una conversazione seria, continuava a passarsi
il
cellulare da una mano all’altra, sbloccare lo schermo e poi
ribloccarlo, in un
limbo senza uscita. Quando Sarah se ne andò via, con una
leggera pacca sulla
spalla e un ‘in bocca al lupo’ appena sussurato,
John si decise a fare la sua
mossa.
Ti
devo parlare JW
Sperava
solamente di poter fare scacco matto e vincere.
Aveva
bisogno di zucchero o sarebbe svenuto, ne era sicuro. Sentiva le
vertigini, la
stretta allo stomaco, le mani che formicolavano e la voglia di vomitare
non gli
dava sosta. Ritornato al livello di un adolescente alle prime armi.
Calmati,
stupido John Watson!, continuava a ripetersi, le unghie che grattavano
la
corteccia dell’albero dietro di lui. Aveva dato appuntamento
a Sherlock nel
parco dove molto tempo prima l’aveva scovato a trafugare con
quel James –gli aveva detto che non
ci era più andato e
gli aveva creduto, ancora. ‘Promesso?’
‘Promesso.’– ed
ora stava morendo d’ansia.
Non
gli aveva detto niente, aveva solo ripetuto che doveva parlargli –‘Domani a scuola?’
‘No, subito’– ed ora
si trovava da solo, attaccato al tronco di un albero come se fosse un
àncora di
salvezza mentre il sole calava. Lo sentì arrivare ancora
prima di vederlo, il
passo sicuro che calpestava il terreno e poi eccolo, davanti a lui,
pulito e
profumato con indosso una felpa –una
felpa?. «
Come mai ti sei messo quella?
»
Gli chiese John,
indicando l’indumento e
deglutendo rumorosamente.
Non
era propriamente un abbigliamento che lo rendeva tranquillo e meno
eccitato –Dio, aveva bisogno di un
controllo da
qualche dottore bravo. «
Avevo freddo e hai detto che era
urgente, quindi ho preso la prima cosa che ho trovato in giro.
C’è qualche
problema?
»
Sì,
c’è, un grosso problema che si chiama
Sherlock Holmes e che mi fa faticare a dormire la notte,
pensò, spostando il
peso da un piede all’altro e premendo ancora di
più la schiena contro la
corteccia. «
No, nessun problema.
»
Sherlock
si guardò intorno, non cogliendo il senso di quella
situazione. «
Allora perché mi hai fatto uscire?
»
«
Devo parlarti, te l’ho detto.
»
Aveva paura di poter
morire di
crepacuore in quell’istante, con il cuore che premeva sotto
cassa toracica in
maniera inquietante –Cristo,
smettila di
fissarmi con quegli occhi!. Sherlock incrociò le
braccia al petto,
guardandolo, in attesa.
Okay,
come poteva iniziare? Doveva essere cauto e attento. «
Hai presente la prima volta che ci siamo incontrati, in laboratorio, e
abbiamo
incominciato a parlare? Non ti è sembrato
di…essere destinati a incontrarci?
»
Sherlock fece un
mezzo passo indietro,
stringendo la presa sulle sue braccia e restando in silenzio. Aveva
capito di
star entrando in un’area che non gli piaceva per niente. «
Per me è stato così e…è
stato strano, lo è tutt’ora. Insomma, siamo amici
da tanto
tempo ormai e…
»
John
abbassò lo sguardo, in difficoltà. Non riusciva a
far uscire dalle labbra le
parole che si era ripetuto in testa nell’attesa di Sherlock,
poco prima. Non
riusciva a ricordare più niente, completamente stordito dal
tumulto di emozioni
che lo stavano scuotendo. «
Quindi…dico solo che, per me,
questi mesi sono stati importanti. Molto importanti.
»
Sherlock restava
immobile, lo sguardo
smarrito di chi non sa come gestire le cose in quel campo minato.
Riuscì solo
ad annuire e spostare lo sguardo tutt’intorno a loro. «
Per te lo sono stati?
»
Chiese esitante
John, sentendo il legno del
tronco conficcarsi sotto le unghie. Un dolore piacevole, in quel
momento.
Sherlock
sbuffò, lisciandosi la felpa e poi spostandosi un ricciolo
dalla fronte. «
Senti John, non so dove tu voglia arrivare, ma sappi che non sono bravo
in
queste cose e non ho nessuna voglia di impersonare il protagonista di
un
telefilm di quarta categoria.
»
Perfetto, come
rovinare tutto in una sola
frase. Avrebbe potuto scrivere un libro e John avrebbe applaudito
davanti a
tanta bravura.
John
si grattò la base della testa, facendo un paio di passi
avanti e sorpassando
Sherlock. «
Sì, hai ragione, che stupidata. Scusa
per averti fatto uscire di casa.
»
Disse, girandosi di
nuovo verso di lui e
osservando la sua espressione insicura. «
Ho detto qualcosa di sbagliato?
»
Sì, hai
parlato, avrebbe voluto
rispondergli, ma stette in silenzio, accennando un sorriso falso. «
No, tranquillo.
»
John fece per
andarsene di nuovo, quando la
mano di Sherlock si strinse sul suo braccio. «
Perché se ho
detto qualcosa di male, non era mia intenzione.
»
Gli disse,
fissandolo dritto negli
occhi.
John
rimase lì, in silenzio, la gola secca e la lingua che non
rispondeva più ai
comandi. Così vicini da poter sentire quasi il respiro
dell’altro e John non ci
pensò più di tanto, avvicinando di più
il viso a quello di Sherlock, un ultimo
sguardo prima di chiudere gli occhi e sfiorargli il naso con il proprio
e poi
la bocca con la propria, in un bacio a labbra strette. John non fece
nient’altro se non premere le sue labbra contro quelle di
Sherlock,
assaporandone la morbidezza e la consistenza. Buono e perfetto.
John
si scostò un poco, appoggiando la fronte contro la sua.
Socchiuse gli occhi e
sorrise, vedendo lo sguardo sgranato di Sherlock. «
Era esattamente questo che volevo dirti.
»
Disse, cercando di
stemperare lo shock
dell’altro. «
E’ stato..
»
Incominciò
Sherlock, sbuffando aria
calda sulla bocca secca di John.
Provò
a immaginare quale aggettivo Sherlock avrebbe potuto usare per
completare la
frase –bellissimo? Fantastico?
Sorprendente?– e il suo ego sembrò
sollevarsi e ingigantirsi.
«
…disgustoso.
»
Disgustoso?
Si sgonfiò del tutto, staccando la fronte da quella di
Sherlock. Nessuno aveva
mai definito disgustoso il suo modo di baciare –era
un bacio a stampo, che cosa c’era da ritenere pessimo?.
Sherlock si mise a ridere per il broncio di John, creandone uno ancora
più
evidente. «
Fallo di nuovo.**
»
Proruppe ad un
tratto, spiazzando di
nuovo John.
Un
vulcano di sorprese, sempre attivo e sempre pronto a cambiare le carte
in
tavola. Aggrottò la fronte, confuso dal fatto che avesse
definito il loro primo
bacio una schifezza e subito dopo averlo invitato a provarci di nuovo.
Magari
aveva fumato qualcosa che gli aveva fatto male al cervello.
«
Come scusa?
»
Chiese, cercando una
spiegazione plausibile a
quel cambio di rotta. «
Andiamo, hai capito!
»
John gli prese il
viso tra le mani,
accarezzando con i pollici gli zigomi alti per poi concentrarsi
esclusivamente
su quelle labbra dalla forma strana che desiderava baciare
più di ogni altra
cosa al mondo.
Lo
baciò a lungo, si soffermò ad assaggiare ogni
sapore, gli morse piacevolmente
il labbro inferiore e gli passò timidamente la lingua sul
contorno dell’arco di
cupido e poi dentro la bocca, in un piacevole scappare e cercarsi che
gli dava
alla testa. Sherlock lo guardò e sorrise –bello–,
dopo ogni bacio gliene dava uno più piccolo e più
gentile sulla labbra, come
una firma. «
Credo che…
»
Disse ad un tratto
John, staccandosi
malvolentieri dalla bocca dell’altro. «
Credo che valga la pena fare tutte
le cose normali che le persone comuni fanno, giusto?
»
Domandò,
lasciandogli una nuova carezza
sulle labbra e affondando un mano nei suoi riccioli scuri –se il paradiso fosse esistito, quello
sarebbe stato il suo paradiso.
«
Solo con determinate persone e in determinate situazioni.
»
Borbottò
pigramente, lasciandosi
coccolare dalle carezze di John. «
Pensavo in una tua reazione
diversa, in realtà.
»
«
Per quale motivo?
»
John
inarcò le sopracciglia, accigliato.
Gliene avrebbe potuto dare un centinaio, di motivazioni. «
Beh, tu hai sempre detto che tutti i sentimenti sono una debolezza, che
si trovano
dalla parte di chi perde…
»
Sherlock
appoggiò la testa sulla spalla di
John, le ciglia che gli creavano dei brividi sottili sul collo. «
Solo gli idioti non cambiano idea.
»
John rise,
stringendolo tra le braccia in una
presa mai invasiva, ma protettiva. «
Riuscirai sempre a stupirmi,
Sherlock Holmes.
»
Lo
sentì sorridere sulla sua pelle e capì che da
quel momento in poi non avrebbe
voluto sentire altra sensazione se non quella che Sherlock, il suo
Sherlock,
gli faceva provare semplicemente avendolo lì, con lui.
Semplicemente avendolo.
In un paio di mesi aveva capovolto tutto il suo mondo, messo in
discussione i
suoi ideali e trasformato i suoi desideri, era diventato tutte le
fragilità di
John, in quel miscuglio che gli dava forza e gliene toglieva altra.
A
John piaceva pensare che quel loro legame, che si era instaurato
così piano e
che era diventato così forte, potesse
sfidare sia il tempo che la logica, un legame che era semplicemente
destinato
ad essere, così bello e puro, senza intralci.
Gli
avrebbe voluto bene fino a quando non avesse ricevuto il diploma, fino
a quando
non avrebbe trovato un lavoro che gli sarebbe piaciuto veramente, fino
a quando
non avrebbe preso il suo primo appartamento e non avrebbe visto la sua
prima
ruga e non lo pensava perché era così,
perché era l’inizio di una storia e ciò
stava a significare tanti sogni e pochi fatti, ma perché era
vero, lo sentiva
inciso in tutte le sue ossa e in tutti i suoi tendini. John Watson era
stato
destinato a conoscere Sherlock Holmes in una normale scuola, destinato a vederlo tutte le mattine
in cortile, spiarlo
e sognarlo, così solo e impassibile. E bello, non era mai
stato brutto o
discreto, solo bello.
John
si sentiva così privilegiato per averlo potuto guardare da
vicino, per poterci
respirare addosso, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per non farlo
allontanare
mai. Anche chiedere scusa dopo una litigata, anche stringerlo
così forte da
fargli mancare il respiro, nonostante lui dicesse di non averne
bisogno.
Sherlock
era stato per lui come un sogno di forma in giorni di pensiero.
Una
luce che non si sarebbe mai spenta, un fuoco che avrebbe sempre arso,
implacabile, insaziabile.
«
Se dovessi scegliere un oggetto da portare su un’isola
deserta, quale
porteresti?
»
«
Che idiozia, non ho nessuna intenzione di partire per
un’isola deserta.
»
«
Sherlock, è una situazione ipotetica!
»
«
Beh, ipoteticamente parlando, allora, è impossibile che
questo accada.
»
«
Dai, Sherlock! Usa un po’ di immaginazione.
»
«
Porterei te.
»
«
Io non sono un oggetto, non vale.
»
«
O porto te o non ci vado.
»
Aveva
borbottato Sherlock, finendo di disegnare un diagramma sul foglio. John
aveva
sorriso e gli aveva lasciato un bacio sui capelli e uno sulla tempia.
«
Dopo un anno sei ancora il solito, Sherlock Holmes.
»
«
Sarebbe stupido pensare il contrario.
»
«
E non sia mai che qualcosa di stupido ti intacchi, intelligentone.
»
«
Esattamente. John, ho trovato il mio lavoro ideale!
»
Disse
Sherlock con una punta di orgoglio, mostrandogli un foglio a righe
interamente
bianco, con scritte solamente due parole.
«
Cosa significa consulente investigativo?
»
Sherlock
sbuffò, irritato dall’ignoranza giustificata di
John.
«
Quando la polizia non saprebbe risolvere i casi di strani omicidi,
allora
potrebbero venire da me. Sarei l’unico al mondo e potrei
andare a caccia di
serial killer ogni giorno.
»
John
lo guardò perplesso. Non voleva uccidere la sua euforia, ma
quell’idea gli
sembrava un po’ troppo…stramba.
«
E tu potresti essere il mio blogger e il mio assistente. Sì,
sarà così.
»
John
annuì poco convinto, rimanendo ad osservare Sherlock che
scriveva fittamente
sul suo quaderno mentre ciarlava di cose senza senso, di blog e di
problemi,
con la testa appoggiata sulla coscia di John e gli occhi luminosi.
A
John andava bene così, andavano bene le promesse di un
futuro insieme, tutte
alla Sherlock, andavano bene i musi lunghi quando si annoiava e i baci
a
stampo.
A
John andava bene tutto, davvero. A John andava
bene tutto, fino alla fine. Sarebbe andato tutto bene. Un
forse, un possibile amore, un eccezione degli occhi, loro come un
puntino in mezzo ad un mare di tanti mai più.
In
quel momento c’erano 6.470.818.671 di persone nel mondo.
Qualcuno stava
fuggendo spaventato. Qualcuno stava tornando a casa. Qualcuno diceva
bugie per
riuscire a superare la giornata. Qualcun'altro stava affrontando la
verità. Alcuni
erano uomini cattivi che facevano la guerra ai buoni. Altri erano
uomini buoni che
lottavano contro il male. Sei miliardi di persone nel mondo. Sei
miliardi di
anime. E qualche volta tutto quello di cui si aveva bisogno era solo
un’anima***,
quella speciale. John Watson aveva finalmente trovato la sua, insieme a
Sherlock Holmes.
Note:
*
Siccome sono una persona coltissima (??) sono
andata a cercare informazioni riguardanti gli istituti scolastici nel
Regno
Unito e la Grammar School sarebbe un nostro liceo. *badass mode on*
**
Presa dalla fantastica ReaperSun – French Kiss.
***
Da One Tree Hill che sforna sempre splendide
citazioni.
|