Vita passata
Una ciocca bionda che cadeva sulla
sua guancia; un movimento
semplice e molto quotidiano per Quinn Lucy Fabray ma che era capace di
riportarla indietro di quattro anni, quando credeva che tutto le fosse
concesso
per la sua estrazione sociale.
Sì, Quinn Lucy Fabray a
quindici anni credeva che tutto le
fosse concesso senza conseguenze.
Ma le cose sono fatte per cambiare;
ne aveva la prova ogni
volta che si immergeva nella fredda vasca da bagno e la fine sottoveste
bianca
le aderiva sul corpo mostrando i suoi fianchi precocemente sformati. Il
motivo
per il quale chiedeva alla sua cameriera personale di lasciarla da sola
in quei
momenti.
Togliendo la forcina liberava, una ad
una, le altre ciocche
di capelli che le accarezzavano morbidamente l’altra guancia,
le spalle, la
schiena; quella prima volta era stato Noah (ma preferiva essere
chiamato Puck)
a scioglierle i capelli.
Era stato un errore,
dall’inizio alla fine. Aveva perduto la
sua virtù, il rispetto di suo padre e di sua madre, era
stata ad un passo dal
perdere la sua reputazione davanti al mondo. E aveva perso…
non poteva dirlo
con certezza visto che non era mai stata sua; no, lo era stata. Per
nove mesi
nel suo grembo; sua figlia. Aveva perduto anche sua figlia.
Solo il tempo di partorirla, di
prenderla in braccio un solo
istante e le era stata portata via. Il signor Fabray l’aveva
data al padre, con
una piccola somma di soldi affinché tenesse la bocca chiusa
e non si facesse
mai più vedere. Puck prese con sé la bambina e
rifiutò i soldi. E fu di parola.
Non si fece mai più vedere
ma ciò non gli impedì di
ricordare la sua esistenza e quella della bambina grazie alle lettere
che
arrivavano clandestinamente a Quinn.
Mediante queste missive lei sapeva
che lì, da qualche parte,
aveva una figlia, identica a lei fino al più piccolo neo e
che si chiamava
Beth.
Ma, alla fine, anche questo contatto
fu troncato; il suo
padre-padrone scoprì le lettere scritte da una mano
più abituata al lavoro
manuale che alla scrittura e, dopo aver cancellato ogni possibile
contatto tra
loro, costrinse la figlia a bruciarle tutte, una dopo
l’altra, lasciandole solo
il ricordo di qualche frase e il pensiero di quella creatura che
cresceva senza
di lei, con un padre e con una donna che la stava tirando su come una
propria figlia.
Comunque, Quinn era troppo
intelligente per credere che la
vita finisse a quel modo e che lei avrebbe dovuto viverla come la
protagonista
di uno di quei melensi e stucchevoli romanzetti moralistici.
Adesso, a diciannove anni, Quinn Lucy
Fabray continuava a
credere che tutto le fosse concesso, ma con le dovute conseguenze.
In questo aveva preso da quel padre
che non riusciva ad
amare, quell’uomo che aveva come unico scopo quello di farsi
largo tra la buona
società; ma non ne aveva possibilità in quel
paesino di provincia dove il
massimo a cui si poteva aspirare era un invito ad un ricevimento del
sindaco.
Il luogo dove poter trovare la propria occasione si trovava al di
là
dell’oceano: l’America. La patria dei ricchi, dei
magnati delle ferrovie, degli
Astor, dei Rockefeller.
Sarebbero partiti
l’indomani; suo padre aveva speso molti
soldi per poter acquistare tre biglietti di prima classe di un nuovo
transatlantico che partiva per il suo viaggio inaugurale, diretto in
America;
l’aveva scelto apposta perché aveva saputo che un
sacco di persone importanti
si sarebbero imbarcate su quella stessa nave. Quinn non ne ricordava il
nome e,
francamente, non le interessava granché; riusciva solo a
pensare che quel
viaggio avrebbe segnato il definitivo distacco da quella vita passata
che le
pesava sul cuore come un macigno. Finché viveva
lì, nel Vecchio Continente, era
sicura di toccare la stessa terra, di guardare lo stesso cielo di
quella
bambina. Anche quel poco stava per esserle tolto.
Sarebbe stata pronta a giurare che
anche questo rientrava
negli intenti di suo padre.
Una nuova vita oltreoceano. Ma forse,
in fondo, sarebbe
stata una buona cosa, al di là della “scalata
sociale” della sua famiglia;
poteva lasciarsi alle spalle gli errori passati e… che
assurdità. Come se
avesse potuto cancellare quelle “azioni” (non si
sarebbe mai abbassata a
chiamarle “errori”) con la stessa
facilità con la quale districava i nodi nei
suoi capelli con la spazzola. Almeno avrebbe voluto districare
l’intrico di
pensieri che le turbinavano in testa.
- Quinn, tesoro, va’ a
dormire. Domani dobbiamo alzarci
presto per non perdere l’imbarco.
Non lo avrebbe mai ammesso, ma la
voce di sua madre, che
fece capolino sull’uscio della sua stanza, le giunse come un
salvagente in
mezzo ad una tempesta.
- Sì, mamma. Appena
avrò finito di sistemarmi – disse Quinn
con il suo caratteristico tono distaccato.
- Oh, tesoro, sorridi un poco!
– la pregò sua madre
dolcemente – Tuo padre ci da la possibilità di
andare in America sul Titanic,
la “nave inaffondabile”, gomito a gomito con la
buona società. Cosa possiamo
chiedere di più?
“Tante cose”
pensò la ragazza continuando a spazzolare i
capelli. L’unica cosa che ci aveva guadagnato da quel
brevissimo scambio di
parole era stato l’aver ricordato il nome di quella nave.
“Titanic”. Che
pacchianeria!
* * *
A casa Hummel-Hudson si respirava
un’aria di festa; certe
risate che si sentivano solo a Natale. E c’era un buon motivo
per festeggiare:
quante volte la famiglia di un carrozziere riusciva ad acquistare
biglietti per
il viaggio inaugurale di un transatlantico diretto in America? E di
prima
classe per giunta! Certe cose era raro che accadessero in Inghilterra,
dove la
staticità classista era una tradizione.
Nessuno dei quattro membri della
famiglia Hummel-Hudson
aveva idea di quello che avrebbero fatto in quel nuovo continente;
certamente
non rientrava nei loro piani quello di trasferirsi lì in
pianta stabile.
Burt, il capofamiglia, aveva la sua
azienda di riparazione
di automobili da dirigere mentre Carole, la sua seconda moglie, aveva
il suo
impegno nell’Esercito della Salvezza che la teneva occupata
per molti mesi
all’anno.
Forse i due figli; per loro il
discorso poteva essere
diverso. In genere, nei giovani è meno forte
quell’attaccamento alla casa
natale che contraddistingue i più anziani. A conferma di
ciò, Finn, il figlio
di Carole, già fantasticava su quello che avrebbe potuto
fare nel Nuovo
Continente, la fortuna che lo aspettava in quel reticolo di strade e in
quella
foresta di palazzi, dove i poveri diventavano ricchi in pochi anni.
Già si
vedeva spaparanzato dietro una scrivania a dirigere uno dei tanti
imperi di un
qualche metallo importante, o anche solo di qualche prodotto
alimentare, con
una bellissima moglie ed una schiera di figli, ai quali avrebbe
lasciato una
ricchissima eredità.
Anche Kurt, il figlio di Burt,
sognava in grande anche se in
modo diverso dal fratellastro; tra le sue aspirazioni c’erano
il teatro, il
cinematografo, la recitazione. Basti sapere che era sbiancato di colpo
quando aveva
saputo che anche l’attrice Dorothy Gibson* avrebbe viaggiato
sulla loro stessa
nave. Ma il ragazzo, a differenza di Finn, viveva il tutto in maniera
più
riservata essendo chiuso per natura. In altre circostanze, magari in
un'altra
vita, sarebbe potuto essere un ragazzo esuberante che non si faceva
problemi
nel farsi notare dagli altri ma il mondo in cui viveva lo bloccava in
una morsa
di paura del giudizio altrui; anche per questo sognava di recitare. La
recitazione era un modo di esprimersi al di fuori della
realtà.
E questo era il mosaico della
famiglia Hummel-Hudson il 9
Aprile 1912, la sera prima di imbarcarsi sul Titanic.
- Kurt, ma riesci a crederci?
– chiese Finn, entusiasta,
lasciandosi cadere su letto dove il suo fratellastro stava sistemando
le
camicie e i gilet che si sarebbe portati per il viaggio –
Andremo in America,
in mezzo alle persone che contano.
- Finn, diamine, le mie camicie!
– esclamò Kurt,
raccogliendo in fretta ma con cura i suoi capi
d’abbigliamento – E poi, scusa,
che significa “le persone che contano”? Forse noi
non siamo come loro in tutto,
a parte il conto in banca?
- Dai, sai benissimo cosa intendo
– si difese, goffamente,
Finn – Ma l’America! Immagina quante cose si
possono fare lì.
- Non andiamo a viverci –
replicò Kurt, con una nota di
rimpianto, ritornando a sistemare i vestiti in valigia.
- Sarebbe bello, però.
Kurt affondò di
più il viso nella montagna di panni che
straripava dalla sua valigia; non avrebbe dato al suo fratellastro la
soddisfazione di vederlo sorridere malinconicamente mentre le guance si
tingevano di un tenue rossore.
- Pensi mai a come sarebbe la tua
vita lontano da qui? –
continuò Finn con più serietà.
- Non so. Vorrei solo che fosse
diversa.
Le parole si nutrivano di pensieri; i
pensieri avevano bisogno
di speranza. E col cuore colmo di speranza, Kurt terminò di
preparare la sua
valigia.
* * *
Sarebbe venuto, prima o poi, il
giorno in cui il mondo
avrebbe conosciuto la tenacia e la tempra di ferro di Sue Sylvester;
una cosa
che sapevano con certezza sia i suoi conoscenti che lei stessa. Ma,
intanto,
solo la sua casa di Londra conosceva queste sue doti.
Alcuni soprammobili e due finestre
non erano sopravvissuti a
ciò quando Sue aveva saputo che non c’erano altri
posti d’imbarco disponibili
per l’America; l’unico era per il Titanic della
White Star Line e lo
stravolgimento dei suoi piani non era stato preso per niente bene.
- “La nave
inaffondabile” – lesse, disgustata, sul
quotidiano che si era fatto portare dal suo maggiordomo quella mattina
per
informarsi su quella nave “così
straordinaria” – Ma per favore! Nessuna donna
ha partecipato alla sua costruzione.
Sì, è il caso
di aggiungere che Sue era un’accesa
femminista; aveva militato tra le suffragette di Emmeline Pankhurst**.
Si può
quindi capire quanto mal sopportasse certi uomini e la loro arroganza;
in
questa categoria includeva, naturalmente, i ricchi e i potenti. I
proprietari
della White Star Line come gli Ismay*** non facevano eccezione.
- Aspettate solo che io riesca ad
arrivare in America, poi vedremo
chi è veramente in grado si dirigere un’azienda di
qualunque tipo – disse
gettando via il giornale – “Nave
inaffondabile” dei miei stivali! Riuscirei ad
affondarla io stessa con un colpo di fionda.
* * *
- Dave, figliolo, questa non
è vita.
In quella stanza singola, di uno dei
quartieri poveri dove
si rifugiavano gli stranieri e gli ebrei e i cattolici, a parte
l’umidità, si
sentiva solo quella frase ripetuta in continuazione.
- Dormi papà.
Dave Karofsky non poteva fare altro
che rispondere allo stesso
modo, con lo stesso tono di voce paziente e monocorde, raggomitolato su
se
stesso sul suo scomodo materasso di paglia, con uno spillone
d’umidità gelida
piantato nella nuca, con gli occhi spalancati, fissi contro il muro per
non
incontrare lo sguardo compassionevole
di
suo padre, bloccato nel “letto migliore” della loro
stanza, fino ai suoi ultimi
giorni, sicuramente.
Da quando andava avanti quella
storia? Non da quando erano
emigrati dalla loro terra d’origine alla ricerca di una vita
migliore, portandosi
dietro qualche pezza rattoppata, due scodelle e la pelle temprata dal
gelo
degli inverni della Russia. Né da quando si erano ritrovati
in un’uguale
miseria. Da quando sua madre era morta, stroncata dalla polmonite,
sì e da
quando suo padre si era arreso. Dovevano essere passati quasi otto
mesi; Dave
li aveva segnati sul muro come un prigioniero che conta i suoi giorni
in cella.
“Mondo schifoso”.
Inglesizzare il proprio nome non
serviva a nulla se tutti ti
allontanavano in quanto straniero e quindi
“inferiore” agli altri. Odiava tutto
questo; più volte si era ritrovato ad odiare anche quelle
persone che si
ergevano a padroni del mondo, al punto da scoppiare a ridere quando
veniva resa
pubblica la notizia di un attentato alla loro persona. E odiava ancora
di più
se stesso per questi pensieri. I suoi genitori lo avevano educato nel
rispetto
degli individui a prescindere dalla loro condizione, razza e religione;
ma come
poteva continuare a seguire quei dettami se il mondo non lo ripagava
con la
stessa moneta? Anche per questo evitava lo sguardo di suo padre e aveva
smesso
di andare al cimitero dei poveri dove era sua madre, anche se non
c’era né una
foto né un nome a ricordarla.
Non nutriva molte speranze nemmeno
nell’America. Quelle
poche persone che erano ritornate da lì avevano raccontato
dell’orribile
trattamento che veniva riservato agli stranieri che giungevano
lì: venivano
ammassati come bestie e trattati molto peggio e, il più
delle volte finivano
imbrogliati dai loro stessi compatrioti che già si erano
inseriti. Venivano
visitati da dei medici poco meticolosi; se risultavano
“portatori di malattie”
venivano reimbarcati e rispediti da dove erano venuti senza nemmeno un
rimborso
per il viaggio; se riuscivano ad essere ammessi venivano buttati in una
città
enorme, dove solo i più forti e i più svegli
avevano qualche possibilità di
fare fortuna.
A che serviva? Forse solo a
scrollarsi di dosso quella
triste esistenza per trovarne un’altra. Ma almeno
lì Dave sarebbe stato da
solo, avrebbe potuto pensare a se stesso. Di suo padre non doveva
preoccuparsi:
una signora, vedova, che prestava servizio come infermiera al sanatorio
era
disposta ad occuparsi di lui.
Dave poteva cercare la sua vita e
voleva farlo. Per questo
aveva deciso di farsi umiliare ancora per il suo essere “un
povero straniero”;
tanto sarebbe stato marinaio solo per una settimana circa, giusto il
tempo che
il Titanic avrebbe impiegato per raggiungere l’America da
Southampton. Poi,
tutto il resto avrebbe avuto poca importanza. Avrebbe avuto una vita
difficile
e dura… ma sarebbe stata sua.
- Dave, figliolo, questa non
è vita.
- Dormi papà.
* * *
- Questa è
l’ultima, Puck – disse Blaine, mettendo sul
calesse scoperto l’ultima valigia.
- Bene – gli rispose Puck,
seduto a cassetta già con le
redini in mano – Di’ alle donne di muoversi.
Il loro non era l’unico
gruppo di persone povere pronte ad
imbarcarsi per l’America proprio quel giorno sul Titanic ma,
di sicuro, era
quello più curioso e lo si poté capire quando gli
altri membri del gruppo si
apprestarono a salire sul calesse. I primi a saltare
all’occhio erano, senza
dubbio, gli “stranieri”: una coppia di asiatici ed
una prosperosa ragazza nera;
gli altri, a prima vista, potevano risultare dei
“perfetti” inglesi dei
quartieri bassi ma conoscendo i loro nomi o ascoltando i loro accenti
si poteva
capire quanto fossero anche loro “cittadini del mondo
frammentario”. Ma al di
là di tutto questo, erano tutte persone animate da un uguale
desiderio di
lasciarsi alle spalle una vecchia vita per trovarne una nuova e
più ricca.
Quella che sognava più in
grande era Rachel Berry, con il
suo desiderio di diventare un’artista, di arrivare a calcare
le assi di un
palcoscenico e a stare davanti ad una cinepresa affinché il
mondo intero la
conoscesse, senza badare alle sue origini povere o al suo essere ebrea;
in
America queste cose non avevano importanza. A suo favore, lei aveva
ostinazione
e testardaggine; per molti questi erano i dettagli più
fastidiosi del suo
carattere, ed era sicuramente vero, ma erano anche le sue armi
più potenti.
Mercedes Jones, la ragazza di colore,
invece pur essendo
dotata di caratteristiche uguali a quelle di Rachel, nutriva
aspirazioni più
semplici, dovute al fatto che, per il colore della sua pelle, sapeva
che non
poteva ambire a tanto ma ciò non le avrebbe impedito di
cercare ugualmente una
vita migliore, come gli altri compagni di viaggio.
Tra loro, un’altra che
nutriva sogni di gloria, ma senza
essere munita di grandi doti, era Sugar Motta; italiana da parte di
padre,
inglese da parte di madre, di povera estrazione ma cresciuta come se
fosse
stata una piccola principessa, l’unico errore dei suoi
genitori. La ragazza era
dotata di una spiccata esuberanza e di un cuore sensibile ma anche di
una
grande arroganza che, però, più che renderla
odiosa, la faceva sembrare una
divertente macchietta uscita da un libro per bambini.
- Ho più talento di Sarah
Bernardt e di Eleonora Duse messe
insieme, quindi diventerò più famosa di loro e
poi verrò chiesta in sposa da
qualche sovrano europeo e cambierò i nomi delle capitali del
mondo col mio.
Ecco, questo era una tipica frase di
Sugar Motta.
I due ragazzi asiatici, Tina Cohen
Chang e Mike Chang (anche
loro, come molti, avevano preferito inglesizzare i loro nomi sebbene i
loro
connotati li smascherassero subito), dovevano sposarsi e preferivano
farlo
nella terra delle grandi opportunità, dove gli auspici per
una vita migliore
sarebbero stati più solidi. Per quanto fosse semplice,
l’amore che li univa era
solido e forte e se ne avvertiva la presenza anche in un solo sguardo
che si
lanciavano, nel semplice sfiorarsi delle loro mani.
Per ritornare ai due ragazzi
introdotti all’inizio, Blaine
Anderson si apprestava a seguire le orme di suo fratello maggiore
Cooper che
era partito per l’America già alcuni anni fa e che
già aveva trovato un posto
di lavoro nella fabbrica di una nota marca di sigari. Più
volte, Blaine, era
stato invitato dal fratello a raggiungerlo e alla fine, dopo un
ennesimo
diverbio con i suoi genitori, aveva deciso di accettare il suo invito.
Fuori da
quella casa austera, nella quale aveva trascorso i suoi primi anni di
vita, lo
spirito che già correva attraverso la brezza marina, il
ragazzo afferrava la
sua esistenza futura a piene mani, urlando: “La mia nuova
vita mi aspetta”.
Noah Puckerman, o Puck, come
preferiva farsi chiamare, aveva
nei suoi piani le medesime intenzioni dei suoi compagni di viaggio, con
la sola
differenza che i suoi scopi non erano personali, no. Aveva una piccola
vita da
allevare. Una bambina bionda, dai lucidi occhi scuri che, sotto un
leggero
strato di polvere, nascondeva un viso bianco come quello di sua madre.
Sua
figlia. Beth.
Ufficialmente, la piccola aveva, non
solo un padre, ma anche
una madre, solo che nessuno ci credeva; come era possibile che quello
scricciolo, simile ad un fiocco di neve, fosse figlia di una donna
dalla pelle
olivastra e ormai sulla quarantina, e di un ragazzo dai tratti rudi,
entrambi
ebrei ma non sposati né tanto meno legati da alcun vincolo?
Potevano credere
che potesse essere figlia di Puck ma erano certi che Shelby Corcoran
era solo
sua madre adottiva.
Puck se ne fregava di quello che gli
altri pensavano; per
lui era importante solo Beth. Se il destino fosse stato più
benevolo, le
avrebbe senz’altro concesso una vita migliore e
più agiata, crescendo con la
sua vera madre, ma così non era stato. Allora, lui le
avrebbe dato la vita
migliore che potesse offrirle e lo avrebbe fatto ad ogni costo. Con
lui, poi,
ci sarebbe stata Shelby, che amava Beth come se fosse stata veramente
sua
figlia, e i suoi amici, che conoscevano la sua storia ed erano pronti
ad
aiutarlo ogni momento.
E questa era la comitiva (una delle
tante) che si preparava
a lasciare i bassifondi della città per raggiungere il porto
di Southampton per
imbarcarsi sul Titanic.
Chiamati da Blaine, gli altri membri
della compagnia
uscirono dal palazzo nel quale abitavano Puck, Shelby e Beth, dove si
erano
dati appuntamento, e si sistemarono sul calesse, accomodandosi sulle
panche o
usando i bagagli come sedili. Blaine fece per mettersi a cassetta a
fianco di
Puck quando due manine piccole ma forti lo afferrarono da dietro per
due lembi
della camicia.
- Sto io vicino a papà
– fece la piccola Beth, saltellando
sul suo posto.
- Va bene, piccola – le
rispose Blaine con un sorriso
prendendola in braccio – Siediti in braccio a me, altrimenti
cadi.
- No, no, in braccio a mamma Shelby!
– si dibatté la bambina
ridendo divertita, vedendosi sospesa sul carro tra le braccia di Blaine.
Alzando gli occhi al cielo e
leggermente urtato dal rifiuto
della bambina, Blaine passò il suo fardello alla madre che
abbandonò il suo
posto sulla panca facendo a cambio col ragazzo e accomodandosi a
cassetta con
Beth in grembo che saltellava, emozionata, sulle sue ginocchia.
Avvertendo accanto a sé la
sua ragione di vita, Puck fece
partire i cavalli con un secco colpo delle redini, lasciando il loro
vecchio
paese, portandosi dietro una brillante scia di chiacchiere e risate.
- Quando arriviamo sulla grande
barca? – domandò Beth,
alzando il viso per poter vedere quello di Shelby.
- Tra un po’, tesoro
– le rispose la donna.
- E poi, dove ci porta?
- In America, oltre il mare.
- E come è fatta
l’America?
- Be’, è molto
grande, con tante persone e palazzi
altissimi.
- E nei palazzi ci sono le
principesse?
- Non lo so, può darsi
– rise Shelby stringendo al seno la
bimba.
Con le genuine ed innocenti domande
della bambina davanti e
il chiassoso ed allegro chiacchiericcio della comitiva nel calesse,
quel
viaggio durò meno di quanto sarebbe dovuto durare e quando
il sole aveva raggiunto
il suo punto più alto nel cielo, raggiunsero il porto di
Southampton. In mezzo
all’enorme massa di gente si stagliava, maestoso ed
imponente, il profilo del
Titanic, con i suoi quattro fumaioli che sembravano voler sfiorare le
bianche
nuvole che coprivano quel cielo d’Aprile.
- La barca grande! La barca grande!
– esultò Beth, puntando
il ditino sottile contro il profilo nero e bianco della nave.
* * *
Quel giorno, 10 Aprile 1912, una gran
folla aspettava sul
ponte di Southampton di salire sul Titanic, la “nave
inaffondabile”; tra loro
c’erano Noah Puckerman con sua figlia e il resto della sua
“famiglia”, tra i
poveri che dovevano passare attraverso le mano dei medici prima di
imbarcarsi;
Dave Karofsky, che aveva iniziato il suo lavoro come marinaio
già all’alba, tra
altri membri della ciurma; e tra gli agiati provvisti di biglietti di
prima
classe, gli Hummel-Hudson, la signorina Sue Sylvester, che fendeva la folla come un generale
fa con il suo esercito,
e i coniugi Fabray con la loro figlia, Quinn desiderosa di lasciarsi
alle
spalle un passato che le si era appena affiancato senza che lei nemmeno
lo
sospettasse.
Nota
dell’autore:
* Nota attrice del muto. Salvatasi
dal naufragio, girò in
quello stesso anno “Saved from the Titanic”, primo
film su quel tragico evento,
oggi perduto salvo alcuni fotogrammi.
** Attivista inglese a capo del
movimento delle suffragette.
*** Padre e figlio, fondatori della
White Star Line. Durante
il viaggio inaugurale, il figlio, Bruce, succeduto al padre
nell’amministrazione
della compagnia navale, si salvò salendo su una scialuppa
nonostante la
precedenza da dare a donne a bambini; questo gesto lo rovinò
e lo segnò a vita.
E, finalmente, ecco postato il primo
capitolo della mia
mini-long. Come avrete capito da questo prologo, la storia ha come
sfondo il
Titanic e la cosa che rimpiango e di non aver iniziato a scrivere prima
questa
fanfiction per postarla proprio a ridosso del centenario del naufragio.
Comunque, l’ho iniziata e la sto continuando ma penso che
stavolta non sarò
molto regolare con gli aggiornamenti.
Stavolta non mi
concentrerò su una coppia in particolare ma
su una porzione di personaggi presi nelle loro singole storie che
confluiranno,
alla fine, in un unico comune destino.
Per il resto, per il succo della
storia, ho fatto
riferimento a ciò che sto provando in questo periodo.
Per le fonti che mi sono state utile
per la documentazione,
non solo sulla vicenda del Titanic, ma anche per la vita dei ricchi,
dei poveri
e degli emigranti dell’epoca:
“Lo spettro del ghiaccio.
Vite perdute sul Titanic” di
Richard Davenport-Hines
“Le luci del
Titanic” di Hugh Brewster
“Titanic. La vera
storia” di Walter Lord
Il sito sul Titanic di Claudio Bossi,
il migliore in lingua
italiana
Spero sia chiaro che James Cameron
non centra niente.
Per eventuali curiosità o
altro e per tenere d’occhio gli
aggiornamenti, potete contattarmi a sulla mia pagina ufficiale: http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483
Ciao a tutti.
Lusio
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