02
Non so perché non vengono gli
spazi. Scusatemi, non so usare il computer.
Sabato nove Dicembre,
Una retrospezione dalla
parte di Lelio – una digressione temporale; un bigliettino; un sogno indefinito
e alcune tragiche implicazioni trotterellanti di nome Vittorio
I.
Io e Mircea siamo nati lo
stesso giorno per una strana coincidenza. In realtà siamo vicini di casa. Quando
i miei genitori hanno divorziato, e mio padre se ne è andato portandosi via i
miei tre fratelli, io sono rimasto in quell’appartamento del centro città,
accanto al suo, riversando il vuoto di una perdita così grave e profonda
interamente sulla sua fragile spalla. In un certo senso credo abbia preso il
posto di tutti gli affetti che mi sono improvvisamente mancati.
La sera in cui per la prima
volta dovevo dormire senza Ottavia, avevo nove anni, mi sentivo così solo e
abbandonato che piansi per ore e ore nel cuscino. Ricordo che aprii la
portafinestra sul balcone che comunicava con la stanza di Cea, in piena notte, e
bussai delicatamente finché lui, un po’ assopito, non mi aprì. Mi addormentai
nel suo lettino. Da allora dormiamo nella stessa stanza ogni notte da quasi
dieci anni, e non ci è mai venuto in mente di interrompere questa abitudine. È
una cosa dolce e allo stesso tempo devastante. Mi è capitato di dormire con
altre persone, in modi decisamente più intimi, eppure in nessuna di quelle
occasioni sono riuscito a ritrovare il calore affettuoso che mi trasmette Cea
con la sua semplice vicinanza e col suo modo calmo di dormire soffiandomi sulla
guancia mentre respira.
Quella notte non riuscivo a
prendere sonno. Capita molto spesso alle persone ansiose come ero io. Osservavo
il soffitto buio cercando di scorgere attraverso l’immaginazione dei disegni
interessanti, delle luci fantasmagoriche o qualche passaggio verso un’altra
dimensione. Cercai di alzarmi senza fare rumore ed uscii sul nostro balcone.
Mi accesi una sigaretta e
sospirai sonoramente. I capelli mi ricadevano lunghi, forse troppo, sulle
spalle. Mi guardai intorno e fui come catturato in un vortice che mi conduceva
in basso, sempre più in basso, verso una caduta vertiginosa. La notte era
placida e serena, una di quelle che sembrano fatte apposta per restare svegli a
sognare ad occhi aperti, incantati in qualche immaginifica rêverie, o per
sussurrare parole dolci che si perdono nel vento. Le stelle dipingevano bagliori
lontani e siderali, quasi freddi nella loro distanza irraggiungibile.
Qualcuno aprì la porta dietro
di me e mi appoggiò una coperta sulle spalle.
“Scemo, non puoi rimanere fuori
sul balcone a congelare in queste lunghe notti d’inverno.” Cea aveva un tono
melodrammatico. Si sedette accanto a me e si avvolse nella coperta che mi aveva
portato. Lui non sa sopportare il freddo, e decisamente non lo sa apprezzare
come me.
“Sai, tutto questo pallore –
rischiara quasi la notte.”
“A me mette i brividi.”
“Trovi? Di solito sei felice
per nulla. Sei felice anche per la neve, perché riesci a trovare una bellezza
particolare dentro ogni cosa. Ma io sento solo un grande vuoto.”
“Puoi sentire un vuoto?
Non ha molto senso.”
“Non c’è l’ha, sì.”
Cea appoggiò il capo contro la
mia spalla. In fondo lui capiva che quella desolazione nottilucente non era
altro che un ricordo terribile dei legami che erano stati spezzati nella mia
vita.
“Non hai niente da dirmi?”
Scossi la testa. Non era
veramente una bugia – io non dovevo dire nulla, perché fondamentalmente non
capivo nulla. Provavo questo strano senso di sconforto nel mio petto, eppure
non lo sapevo riconoscere, non lo sapevo delineare, non riuscivo a definirlo in
una parola, in uno stato d’animo preciso.
Una stella brillava più delle
altre. Fissai il mio sguardo dritto alla sua luminosità, e decisi che quella
stella era Mircea. Tutte le volte che l’avessi guardata, mi sarei ricordato di
lui, di quella notte, del mio vuoto nella maniera assurda e talvolta insensata
in cui il flusso di coscienza e le associazioni di idee riescono a rievocare il
ricordo vago di un particolare, di un momento, di un’emozione attraverso
determinate percezioni.
II.
Cea cercava di nascondersi il
più possibile dietro alla pila di libri posata sul suo banco – perché riusciva
ad essere estremamente caotico anche a scuola. Si era appiattito contro la
superficie di compensato e pregava rivolto verso il crocifisso mentre l’indice
del professore di matematica scorreva perfidamente i nomi riportati sul
registro. Purtroppo lui si chiama Vanni, ed è l’ultimo dell’elenco in ordine
alfabetico. Questo facilita incredibilmente la sua estrazione senza per altro
invogliarlo a studiare matematica.
Scribacchiava qualcosa.
“Vanni!” Si alzò come un
condannato a morte e si trascinò verso la lavagna che per lui, presumibilmente,
doveva possedere la stessa malvagia voracità un buco nero in espansione.
Lo guardai allontanarsi con
aria afflitta e mi sentii improvvisamente molto solo e stretto nella mia
malinconia da ultimo banco occultato contro il muro. Era un bene. In un certo
senso, quando non ero particolarmente rattristato per Tutto-il-male-del-mondo,
mi piaceva stare da solo per un po’ di tempo. Serviva per pensare e per
analizzarmi con calma e tranquillità. In quei giorni pensavo di non riuscire più
a sopportare la presenza costante di persone attorno a me che non fossero sulla
mia lista buona, e questo mi indispettiva acuendo il mio proverbiale mal du
siècle, come diceva Ottavia.
Io ho il mal
du siècle! Pensavo, e più pensavo, più ci
cadevo, sprofondando come nelle sabbie mobili.
In realtà continuavo a
riflettere sul significato nascosto della mia dolce stellina risplendente sul
capo delle notti insonni, mentre tutto il resto del mondo dormiva placido e
tranquillo sotto una coperta di buio e di neve. Voltai la testa verso la
finestra. Il cielo era livido e tumultuoso, prossimo ad una nuova nevicata,
solcato da correnti invisibili e da nubi pesanti che rotolavano
rocambolescamente sulla sua superficie bassa e dolente, come
Quand le
ciel bas e lourd pèse comme un couvercle
Sur l’esprit
gémissant en proie aux long ennuis,
Et que de
l’horizon embrassant tout le cercle
Il nous
verse un jour noire plus triste que les nuits ;
mi provocava solo un convulso
senso di malessere ed un’agitazione inesprimibile. Avevo voglia di scappare.
Appoggiai la testa contro il banco – c’era un bigliettino scritto da Mircea
nella sua bella calligrafia, l’unica cosa in lui che fosse decentemente
ordinata. Diceva:
Quando leggerai questo
biglietto, per me sarà troppo tardi. Il tuo pessimismo, vedi, ha spezzato
l’Equilibrio Cosmico che tentavo di preservare, e ora sarà la fine, la caduta,
il collasso, il declino, il disfacimento, il clinamen, l’Ade, l’Averno, la
Morte, la ghigliottina, l’ordalia, il Giorno del Giudizio. Non ti devi
sentire in colpa.
Pensai che era un modo stupido
per convincermi a sentirmi in colpa. Ritirai il biglietto e mi rimisi a scrutare
laconicamente le nuvole in movimento nel cielo, così affaccendate e così
ipnotiche nel loro vuoto sonnolento, nella dolce lentezza delle loro forme
soffici eppure terribili.
III.
Vittorio era bellissimo,
biondo, riccioluto con due occhioni azzurri come il mare, la pelle rosea,
fresca, soffice di una pesca, i denti bianchi, il sorriso smagliante, le labbra
rosse a forma di cuore e una risata squillante che ti faceva perdere la testa.
Mircea lo amava alla follia, lo adorava, lo venerava quasi quanto la stabilità
dell’universo. Era una creatura deliziosa che a volte mi ingelosiva nella sua
meravigliosa purezza.
Noi lo chiamavamo
affettuosamente Thor, come il dio del tuono, e siccome suo padre era morto poco
dopo la sua nascita, e Mirca era diventato l’uomo di casa, si prendeva cura
della sua graziosa fragilità. Oramai aveva quasi tre anni e cominciava a
parlare. I bambini sono bellissimi quando cominciano a parlare e ti sussurrano
cose dolci nell’orecchio. Dopo la nascita di Vittorio ho scoperto di odiare gli
adulti ma di amare i bambini.
Quel pomeriggio stavamo facendo
il riposino. Fuori nevicava. Io non avevo dormito tutta la notte così decisi di
fargli compagnia, mentre Mircea provava a studiare. L’atmosfera di quella
giornata lugubre e pesante mi spingeva soltanto nel lettuccio comodo. Presi in
braccio Thor e ci infilammo insieme sotto le coperte.
Il suo corpicino tutto caldo e
fremente di vitalità mi scaldava in una maniera tenera che non si sarebbe mai
aspettato, mi accarezzava quasi di una consolazione straordinaria. Sbadigliando
strinse i pugnetti morbidi tra i miei capelli lunghi.
“Buonanotte!” Disse sistemando
la testolina contro il mio petto. Lo sentii tremare un po’ dal freddo.
“Thor –“ Gli sussurrai piano.
“Tu pensi che io sia triste?”
“Tu sei sempre un po’ triste.”
“Sì?”
“Sì.” Annuì col capo.
“E secondo te perché sono
triste?”
“Perché ti manca il tuo papà.”
Rispose con naturalezza, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Pensai un attimo. “A te non
manca?”
“Io ho Cea e te.”
“Non è come avere un papà.”
Non mi rispose. “Ti manca anche
una come la mamma, secondo me.”
Poi si addormentò sulla mia
spalla. Gli baciai la fronte e stringendolo forte mi addormentai anch’io in
pochissimi minuti.
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