Here we are again! Una
mini-mini-stramini-long di due
capitoli, venuta in mente dallo splendido tumblr che mi ha fatto
conoscere
Claudia (Iloveyou) e di cui mi sono malvagiamente appropriata (qui
e qui).
Grazie a Chiara, perché sei bravissima e bellissima e mi
riempi sempre di
complimenti che non mi merito e a Jessie, perché sei troppo
gentile per essere
vera <3 Perfect human being! Quindi, sperando che qualcuno se la
fili (?),
vi auguro buona lettura!
P.S.: Il raiting potrebbe variare nel secondo e ultimo capitolo.
I
wish you were here or I were there or we were
together anywhere
Dovremmo dire
più spesso alle persone
quanto vogliamo loro bene, perché la vita è
imprevedibile e, se possiamo
manifestare ora il nostro affetto, non vuol dire che potremo farlo
sempre.
Pretend
I'm okay with it all
Act
like there's nothing wrong
Is
it over yet?
Can
I open my eyes?
Is
this as hard as it gets?
Is
this what it feels like to really cry?
Cry!
Kelly
Clarkson
Ironico,
assurdamente e tristemente
ironico. John continuò a guardare il giovane che era entrato
nel suo –loro? No, solo
suo– appartamento poco
tempo prima. Si guardava intorno, analizzando con lo sguardo gli
scatoloni
poggiati alla rinfusa sul pavimento, ricolmi di oggetti. Conosceva bene
il
rumore di una catastrofe: lento, pesante e di malaugurio. Da quando
aveva visto
Sherlock buttarsi giù dal tetto dell’ospedale lo
aveva seguito costantemente,
come un’ombra. Anche ora riusciva a sentirlo, guardando negli
occhi quel
Victor.
«
Mi
dispiace per la tua perdita, John.
»
Come diavolo faceva a sapere il suo nome? Come diavolo poteva, Sherlock
Holmes,
riuscire a ferirlo anche sotto metri di terra da neanche un mese? Aveva
pensato
di essere speciale –di essere
unico, di
valere qualcosa– eppure gli aveva nascosto che
c’era stato qualcun’altro
prima di John. Qualcuno che era stato suo amico –io
non ho amici, aveva detto. Bugiardo, bugiardo. «
Quindi
tu…
»
Incominciò
John, appoggiando il gomito sul
bracciolo della poltrona e tenendosi la testa con una mano. «
Tu,
Victor, saresti stato un amico di Sherlock?
»
Victor sembrava
impacciato, con gli occhi che
non stavano mai fermi e le dita che vagavano tra i riccioli corti –anche lui! Era una fissazione!.
«
Sì,
lo ero molti anni fa, poi abbiamo perso i contatti per…un
certo periodo di
tempo, diciamo.
»
John
abbassò lo sguardo, gli occhi
lucidi che non accennavano a smettere di bruciare. Aveva
quell’incredibile e al
tempo stesso orrenda sensazione di stare affogando nel nulla eppure
riusciva ad
avere la nausea di tutto. Del divano saturo di ricordi e della cucina
che prima
era stata protagonista di sentimenti ed ora era protagonista solo del
lento
frantumarsi di uno solo degli inquilini che prima vi abitavano.
Perché l’altro
si era già frantumato, sopra ad un marciapiede,
raccontandogli bugie su bugie
prima di commettere suicidio –bugiardo,
bugiardo. «
Sei
stato il primo, quindi?
»
Non aveva avuto
l’intenzione di dirlo, ne era
sicuro, ma le parole erano uscite di bocca senza controllo e ora a John
non
rimaneva altro che fissare quel ragazzo più giovane di lui,
che gli riservava
uno sguardo carico di scuse e pena che lui non sentiva e non capiva.
Cosa
c’era da scusarsi? Non era stato
lui a lasciarlo da solo. John aveva sempre avuto lo strano istinto di
aggrapparsi al pugnale che lo trafiggeva. Ironico, anche quello.
«
Già…
»
John rimase in
silenzio, non sapendo neanche
da dove partire per rompere quello strato di ghiaccio e imbarazzo che
si stava
creando in quella stanza. Aveva imparato a sopravvivere al caldo
impossibile
dell’Afghanistan, quindi il freddo, ora, gli andava
più che bene –era
l’unica cosa che gli era rimasta. «
John,
per caso tu hai qualche idea su come…sul perché
Sherlock abbia fatto ciò che ha
fatto?
»
Se fosse stato in
sé, John avrebbe accennato
un sorriso di ringraziamento per tutto il tatto che quel ragazzo gli
stava
mostrando, ma ora lo trovava solamente irritante, una mortale spina nel
fianco.
Era
una morte continua, parlarne. Le
parole di Sherlock continuavano ad
affiorare sul suo corpo come lame che non sapevano accarezzare, che
raschiavano
tutto il viso, che non si fermavano e tornavano sempre indietro.
«
No,
probabilmente è stato tutto uno
stupido piano calcolato male. Strano, perché a quanto pareva
lui era
l’intelligentone di turno. Lo saprai meglio di me, immagino.
»
Acido,
brusco e maleducato, eppure non
se ne pentiva neanche un po’. Gli era stata tolta la
compagnia e ora anche la
solitudine; tutta quella commiserazione non sarebbe servita a
nient’altro che a
infastidirlo. Gli era stata tolta anche l’illusione di essere
stato importante.
Gli era stato tolto tutto dalle mani piene e insaziabili. Victor
tamburellò
sulla stoffa del divano sul quale era seduto, l’attenzione
improvvisamente
rivolta al violino. Sherlock aveva mai suonato per lui? Probabilmente
sì, si
disse. Probabilmente lui aveva già visto tutto quello che
John aveva dovuto
faticare per conquistare, magari anche molto di più. «
Era
di…?
»
Aggiunse subito
dopo, fermandosi prima di
pronunciare quel nome. Lo facevano tutti, da quando era morto. «
Era
di Sherlock, sì. Puoi dire il suo nome, non sono un bambino,
l’ho accettato.
»
Non era vero e John
poteva intuire che anche
Victor aveva compreso quella verità. Non lo aveva accettato
e quel nome sarebbe
sempre stato un tabù per tutti coloro che gli giravano
intorno e per lui
stesso.
«
Era
alle prime armi quando ci frequentavamo, azzeccava sì e no
qualche nota.
Sbagliava e si arrabbiava, mettendo il broncio a tutti quanti.
»
Victor sorrise a
labbra aperte e John non se
la sentì di fermare quel fiume di parole –non
piangere, eri un soldato, controllati.
«
Credo
che se potesse essere in questa stanza, John, non vorrebbe che tu fossi
così…
»
Abbattuto, ferito, umiliato, deluso,
incattivito, arrabbiato? John poteva servirgli tutti gli aggettivi che
voleva
su un lucido piatto d’argento e non se ne sarebbe pentito. «
Già,
ma lui non c’è e per una volta non
c’è nessuno che deduce cosa ho fatto e come
mi sento dal risvolto delle pieghe della mia camicia.
»
Victor
annuì, alzandosi dalla sua postazione e
stirandosi i jeans con le mani. Si diresse piano verso John e gli diede
una
veloce, ma soffice pacca sulla spalla, come un balsamo, che lo fece
stare un
po’ meglio.
«
Per
qualunque cosa, qualsiasi problema, puoi chiamarmi. Non preoccuparti
né per
l’ora né per il disturbo, sarà un
piacere fare due chiacchiere.
»
John si rimise in
piedi, la gamba che gli dava
un leggero formicolio da giorni, ma che lasciò perdere.
Sorrise sinceramente,
per la prima volta dopo l’incidente, a quel giovane ragazzo
che gli stava
regalando del vero e sincero conforto, pur non conoscendolo nemmeno. «
Grazie
mille, lo farò.
»
Victor gli
lasciò il suo numero e se ne
andò svelto dall’appartamento, adducendo a un
impegno urgentissimo che non
poteva assolutamente posticipare. John rimase fermo in mezzo alla
stanza,
rigirandosi tra le mani il pezzettino di carta lasciato da Victor e
posizionandolo sopra al tavolino vuoto.
Non
si sa mai, si disse, prima di
andare a prepararsi del tè.
Victor
intrecciò le mani dietro la
schiena, la spalla che poggiava allo stipite della porta
d’entrata e lo sguardo
fisso sull’altro. «
Com’era?
» Chiese
quest’ultimo, seduto sulla
poltrona come lo era stato poco prima John –incredibile
quanto fossero diversi eppure così simili. «
Sta
bene, è solo un
po’ frastornato.
» Nel
tragitto per arrivare al monolocale in cui era stato rinchiuso
Sherlock, aveva
pensato al modo migliore per non far preoccupare il suo vecchio amico
ed aveva
optato per una bugia bianca, qualcosa che non avrebbe ferito nessuno –tranne John, che gli era sembrato un
cucciolo abbandonato sotto la pioggia.
«
Non
mentirmi, Victor, lo sai che non funziona con me.
» Due
occhi azzurri lo puntarono,
facendogli perdere la facciata composta e sicura e avvicinandolo a lui.
«
Sherlock,
non credo che…
»
«
Voglio
saperlo. Dimmelo.
»
Sherlock si mise nella solita posa che usava anche anni addietro, le
mani
intrecciate che sfioravano mento e labbra, in un’ impaziente
attesa. Victor si
sistemò davanti a lui, le sopracciglia aggrottate e i denti
che mordevano
l’interno guancia. «
Ha
il cuore spezzato, Sherlock.
»
Sherlock
ebbe un momento di esitazione,
come un battito di ciglia, mentre abbassava lo sguardo e socchiudeva le
palpebre, in un intimo gesto di sconforto che fece angustiare Victor. «
Ma
ho fatto ciò che mi hai detto, gli ho dato il mio numero per
qualunque
necessità e sembrava veramente sollevato.
»
Si sedette davanti a Sherlock, il
busto piegato in avanti, i gomiti sulle ginocchia, in un gesto di
simbolica
vicinanza. «
Bene,
tienimi aggiornato se ci sono
ulteriori sviluppi.
»
Sherlock chiuse gli occhi e reclinò la testa
all’indietro, poggiandola contro
la poltrona. Victor rimase immobile, nel silenzio cupo della stanza in
penombra. «
Puoi
andare, Victor, ciò che ho detto
prima era un congedo.
»
«
Sai
che ti conosco più di quanto tu voglia ammettere, Sherlock.
»
Il detective sbuffò, tamburellò con le
dita sul bracciolo della poltrona e si alzò di scatto, in
preda ad una crisi
nervosa. «
Se
Mycroft avesse seguito il mio piano
al posto di fare con la sua testa, a quest’ora avrei potuto
accertarmi da solo
della vita al di fuori di questo appartamento!
»
Della vita di John, avrebbe voluto dire, ma Victor non se la
sentì di
precisarglielo. Guardò l’orologio, notando che
l’ora di cena era passata da un
pezzo e che il suo stomaco stava incominciando a risentirne, dopo tutti
quegli
spostamenti e sensazioni. Un vibrare nella sua tasca lo distolse dalla
camminata in circolo di Sherlock, chiuso come un topo nella gabbia. Il
numero
sconosciuto lo fece stranire. «
Chi
è?
»
Chiese Sherlock ad un certo punto,
fermando la sua maratona e fissandolo dall’alto. Victor
aprì il messaggio, le
poche parole scritte sullo schermo del telefono lo fecero sobbalzare.
Ho bisogno di qualcuno con cui parlare, subito. Per favore. JW
Prima
che Victor avesse il tempo di
poter comunicare la notizia a Sherlock, questo gli aveva già
strappato dalle
mani il cellulare, leggendo avidamente e rimanendo nella sua piccola
bolla di
impassibilità. «
Sherlock… »
Sherlock gli fece cenno di fare silenzio, prima di incominciare a
digitare la
risposta al messaggio, le dita che si inseguivano veloci e gli occhi
che
sembravano non volersi staccare da quel telefono. Si sedette nuovamente
sulla
poltrona, in attesa. «
Posso
sapere cosa gli hai scritto?
»
Sherlock lo fulminò con un’occhiataccia, prima di
sospirare e ridargli il suo
telefonino. Andò nella cartella dei messaggi inviati e
aprì l’ultimo. Diceva:
‘Scusa, sono impegnato. Parliamo per messaggio.
C’è qualcosa che non va?’ e a
Victor nacque un sorriso intenerito per tutta quella preoccupazione non
da lui –o meglio, da chi voleva
sembrare.
Un’altra vibrazione, Sherlock che si spostava dalla poltrona
e si sedeva
accanto a lui, cosa che fece ricordare a Victor i tempi passati, quando
erano
ancora due giovani in cerca dell’impossibile.
E’
solo che…la sera mi frega sempre. Mi
manca. Tanto. Da impazzire. JW
Non
c’era bisogno di mettere un
soggetto a quella frase, sapevano benissimo tutti e tre a chi era
riferita
quella confessione di debolezza. Victor si girò
immediatamente verso Sherlock,
quella lieve inclinazione nello sguardo gli fece allungare la mano
verso il suo
ginocchio, in una presa fievole, ma presente. «
Ha
imparato anche lui
a firmarsi.
»
Disse dopo un po’, lo sguardo
incollato alle lettere nere che risaltavano sullo sfondo bianco.
Sembrava quasi
volersi amalgamare con esso per poter avvicinarsi a chi stava dietro ad
un
altro schermo, al 221B di Baker Street. Victor gli passò il
cellulare, in
attesa che scrivesse lui una risposta adeguata a John.
E’
morto, John. Non puoi fare altro che
andare avanti con la tua vita e lasciarlo andare. E’ solo un
periodo, passerà,
fatti forza.
«
Sherlock!
»
Il
suddetto si girò verso di lui, mentre premeva invio con il
pollice della mano
destra. «
Che
c’è?
»
«
E’
così che pensi di risollevargli il
morale? Dicendogli di andare avanti?
» Victor
riprese possesso del suo cellulare, rivolgendogli un’occhiata
stizzita. «
E’
l’unico modo che conosco.
»
Stava quasi per rispondergli per le
rime –era abituato a quegli inutili
comportamenti, già radicati in lui da quando era un neonato,
probabilmente– quando
il telefono vibrò di nuovo e la concentrazione dei due si
focalizzò su quello.
Se
n’è andato, lontano da me e il solo
pensiero che lui non ci sia più, che si sia suicidato di sua
spontanea volontà
e che io, nonostante tutto e nonostante la rabbia, creda ancora in lui,
mi fa capire che non
sarà mai solo un periodo.
E’ tutto così triste che sento il dolore alla
gamba, accertato come
psicosomatico, riaccendersi ogni giorno di più. JW
«
Chiamalo.
»
«
Cosa?
»
Victor lo guardò come se fosse
impazzito, lo sguardo che spaziava dai suoi occhi alla stanza
tutt’intorno. «
Tuo
fratello non aveva detto di mantenere la segretezza fino a nuovo ordine?
»
Sherlock storse la bocca in
un’espressione stizzita. «
Innanzitutto,
io non seguo nessun
ordine, tantomeno da Mycroft, e poi non dovrò parlarci io,
ma tu.
»
«
Io?
Sherlock non so cosa tu abbia in
mente, ma sarà una pessima idea.
»
«
Chiamalo
e metti il vivavoce, dai.
»
Victor lo fissò, imbronciato, prima di sbuffare e
schiacciare il pulsante verde
di chiamata.
Tanto,
lo sapeva, si sarebbe sempre
fatto come voleva Sherlock Holmes.
Era
rinchiuso in una prigione di
coperte scomode, il materasso che gli sembrava a tratti troppo duro a
tratti
troppo cedevole, il buio troppo soffocante, la sveglia sul comodino che
emanava
troppa luce, il silenzio che trapanava i timpani e lasciava il vuoto
tutto
intorno e dentro John. Il cellulare ben stretto tra le mani, gli occhi
socchiusi per cercare di vedere la schermata nonostante la troppa
luminosità.
Quando
si accorse che Victor lo stava
chiamando –chiamando? Oh Dio,
doveva
sembrare proprio messo male, allora–
schiacciò il tasto verde, sentendo
improvvisamente il fiato venire meno. «
John?
»
Aprì la bocca ma non uscì alcun suono,
cercò di tirarsi su, in posizione eretta –si
sentiva come uno schifosissimo bruco.
«
John?
Ci sei? John, stai bene?
»
La voce di Victor stava diventando sempre più acuta e
agitata. Sentì degli
spostamenti dall’altra parte della cornetta e Victor che
sussurrava a voce
bassissima cose che non riusciva a comprendere.
«
Victor?
»
Riuscì a dire, tornando ad usare le
proprie corde vocali. «
Ehi,
John, ci hai fatto spaventare!
»
«
Oh…c’è
qualcuno lì con te?
»
Chiese John, confuso. «
Eh?
Cosa? Oh, no! Volevo dire mi, mi hai fatto spaventare. Ahia!
»
John rise, sentendo la sensazione di
oppressione sparire piano piano dal petto. «
Ma
che cosa stai facendo?
»
«
Sono
solo andato a sbattere contro la
poltrona, una sciocchezza.
»
John annuì, anche se sapeva che Victor non avrebbe potuto
vederlo. «
Allora,
raccontami tutto.
»
«
Te
l’ho già detto, è che la notte riesce a
togliermi tutte le difese.
»
«
Sfogati,
sono qui per ascoltarti, anche
io sto passando parte di ciò che provi tu.
»
John si tolse il cuscino da dietro la
schiena e lo strinse forte con il braccio destro, premendoselo contro
la
pancia. «
E’
come se una parte di me non si sia ancora arresa al fatto che lui, beh,
sia
morto. Una parte del mio cuore è come se fosse sospesa, come
se…fosse in attesa
di quel qualcosa che eravamo io e lui.
»
Ci fu qualche momento di silenzio, con qualcosa che sembrava il ronzio
di
un’ape in sottofondo. «
Victor,
sei ancora lì?
»
«
Sì,
sì eccomi, stavo solo pensando.
»
«
Sicuro
che non ti sto disturbando? Ho
sentito…
»
«
Cosa
hai sentito?
»
Mormorò Victor, in un modo che fece
insospettire ancora di più John –il
tempo
con Sherlock non era stato del tutto infruttuoso. «
Niente,
dei bisbigli. Davvero, se hai da fare non preoccuparti!
»
«
Oh,
John! E’ la televisione!
»
Lo sentì ridere e si diede dello
stupido per essersi fatto venire degli inutili dubbi.
Non
c’era più nessun enigma da
risolvere. Non c’era più nessun consulente
investigativo con i suoi irritanti
monologhi. Non c’era più niente. «
Comunque,
credo che Sherlock, ovunque
sia in questo momento, sappia cosa tu stia facendo e giudichi con la
sua solita
voce annoiata e rompiscatole ogni singola cosa stia uscendo dalla tua
bocca.
»
John sorrise, grato per quella persona
così genuina che gli stava tirando su il morale. «
Sicuramente
sarà
così.
»
«
Ora
è meglio se dormi, cerca di rilassarti, ci sentiremo domani,
va bene?
»
Promessa. Una persona che richiedeva
la sua attenzione, dopo tutto quel tempo. John si sentì
improvvisamente ripieno
di una nuova forza. «
Ovvio,
allora buonanotte, Victor.
»
«
Buonanotte,
John.
»
Stava quasi per riattaccare quando la
voce dell’altro lo riportò a premere il cellulare
all’orecchio. «
Dimmi.
»
«
Sherlock
ti vuole bene, lo sappiamo
entrambi.
»
«
Comunque
sia, Victor, bisogna parlare
al passato.
»
Anche a lui era capitato, i primi tempi in cui era successo il
terribile fatto.
Faceva finta che quel giorno non fosse mai esistito e viveva
imbrogliando anche
se stesso. Pensava che Sherlock sarebbe rientrato dalla porta di casa e
tutto
sarebbe ritornato a posto. Lo aveva aspettato seduto sulla poltrona che
riteneva sua, fissando la finestra, con la pioggia che aveva bagnato
Londra per
giorni interi. Poi la ragione lo aveva raggiunto e aveva solamente
chiuso gli
occhi e abbassato la testa davanti alla verità. «
Già,
come dici tu.
»
John aggrottò le sopracciglia,
dubbioso. Quel ragazzo aveva un comportamento strano e sembrava
nascondesse
qualcosa. Sentì un lieve mugolio di dolore da parte di
Victor prima che John
facesse terminare la telefonata.
Sospettoso,
decisamente.
«
Mi
hai fatto male!
»
«
Sei
un idiota, Victor! Pensavo che tutti questi anni avessero avuto un
effetto
positivo per il tuo piccolo cervello, ma la realtà
è ben diversa dalle
aspettative!
»
«
Che
cosa diamine ho fatto?
»
«
Ringrazia
che John non abbia capito niente, altrimenti passerai dei lunghi guai.
»
«
Ma
ti rendi conto di avermi tirato addosso dei libri? Avrebbe potuto
capire che c’era
qualcun altro nella stanza!
»
Lo
sguardo inviperito di Sherlock lo
fece desistere dal prolungarsi oltre, prese il suo giubbotto e si
chiuse la
porta alle spalle. Idiota lo era stato veramente, per aver dato
nuovamente
ascolto a Sherlock Holmes.
Sembrava
che non imparasse mai la
lezione, maledizione.
John
aveva sentito una frase
particolarmente ispiratrice tempo prima, quando ancora faceva parte
dell’esercito,
da un commilitone più giovane di lui. L’aveva
segnata su un foglio e l’aveva
riposta nella tasca dei pantaloni militari, con la speranza che gli
portasse un
po’ di quella fortuna che serviva dopo essersi arruolati.
La
prima volta che l’aveva sentita
aveva dato un significato tutto diverso a quelle poche parole, una
sostanziale
differenza di punti di vista che gli aveva fatto credere di poter
capire quella
frase molto più di tutti gli altri.
Dopo
il congedo, aveva lasciato quel
foglietto di carta stropicciata in tasca, la frase che aveva assunto
altri
toni, più drammatici e pungenti. Il senso delle cose: occhi
diversi che pensano
di capire ogni cosa allo stesso modo.
Ora,
mentre la tempesta infuriava fuori
dalla finestra di casa, impedendogli di fare qualunque altra cosa
all’infuori
di guardare –senza mai osservare,
anche
quello era diventato un tabù? Non lo sapeva, non lo voleva
sapere– quelle
parole gli ritornarono alla memoria, dando un senso ancora
più triste a quella
giornata solitaria. Ti mostro le spine per non far vedere i petali che
cadono* –poesia?
No, forse cruda realtà pronunciata da una persona troppo
giovane per capirla
appieno. «
Cucù,
John?
»
Mrs Hudson spuntò dalla porta
d’ingresso, una mano posata sull’anca e il sorriso
sempre impresso sul viso.
Era invecchiata, dalla morte di Sherlock –tutti
quelli che avevano conosciuto Sherlock lo erano diventati–,
le occhiaie
scure che spiccavano sulla carnagione chiara e la pelle che quasi
sembrava aver
formato un secondo strato delle ossa, incavando le guance e indurendo i
lineamenti.
Cambiamenti:
nulla per poterli fermare.
Bisognava solo accettarli, violenti come tsunami, e aspettare la nuova
quiete,
prima di tornare a respirare nuovamente –se
fossero esistiti ancora polmoni con cui farlo. John
voltò il viso verso di
lei, l’ombra di un sorriso sul volto. «
C’è
una visita per te!
»
Non ci volle molto per capire chi
fosse e ancora di meno che nella stanza entrasse la presenza slanciata
di
Victor. «
Che
sorpresa!
»
Mormorò John, alzandosi a fatica e
cercando sostegno al muro lì vicino. Ci aveva forse preso
gusto a fargli visita?
Non che John non lo volesse o gli fosse antipatico, ma la ferita era
ancora così
fresca e non era sicuro che tutta quell’amicizia fosse un
bene –la sua fiducia era stata
già distrutta una
volta, non aveva nessuna intenzione di rischiare di nuovo. «
Non
va bene?
»
Domandò Victor, arrestandosi dal
mettere il giubbotto fradicio sull’appendiabiti. Quante volte
l’aveva sentita
quella frase, in diciotto mesi di convivenza? Tante, ma da una persona
diversa.
Dio, vivere nel passato gli causava un livello di frustrazione
ignobile.
«
No,
sì…
»
John si passò una mano sugli occhi,
scoraggiato. «
Certo
che va bene, va benissimo.
Accomodati pure.
»
«
Facevi
qualcosa di interessante? Ho saputo che scrivi su un blog.
»
John si riaccomodò sulla poltrona, le
parole di Victor che si agitavano prepotenti nel petto. Gli faceva
sempre
quell’effetto, parlare con lui, come se fosse sempre pronto
per sapere tutta la
vita di John, senza che nessuno lo avesse autorizzato a farlo. Si
sentiva a
disagio e agitato –anche triste, ma
quella era una sensazione che lo seguiva da giorni e che non sembrava
voler
terminare. «
Scrivevo,
in realtà. Ora non ho niente
da raccontare.
»
«
Deve
essere dura, John, riesco solo a immaginare quanto possa esserlo.
Vivere
insieme, condividere tutto…
»
John scosse la testa, colpito in pieno da tutti quei ricordi che
premevano per
uscire. Fece cenno a Victor di fermarsi, prendendo un bel respiro e
osservando
il vetro appannato e bagnato. «
Era
molto più di questo.
»
Disse John in un sussurro. Vide con la
coda dell’occhio l’altro agitarsi piano sul divano,
prima di ritornare
immobile, l’attenzione puntata tutta su di lui.
«
Lo
amavo, in verità. Ha avuto una parte di me già
dal primo giorno in cui ci siamo
conosciuti. Anche se non c’è più e non
c’è alcuna possibilità che lui ritorni
indietro, non verrà dimenticato, non da me. Il dispiacere
più grande è di non
avere avuto una chance, di essere stati troppo prudenti anche solo per
abbracciarci o per tenerci per mano senza pericoli in agguato. Non
potrò
vederlo invecchiare, perché è troppo tardi e la
vita ha scelto per noi, ma mi
sarebbe piaciuto tanto. Avrei voluto essere il suo compagno
più di qualunque
altra cosa.
»
Non sapeva perché glielo stava confessando, non sapeva
neanche perché avesse le
lacrime agli occhi o perché continuasse a far finta che
andasse tutto bene –perché,
dannazione, non c’era proprio
niente che andava bene, ormai. Aveva solo voglia di
confidarsi con
qualcuno, di togliersi un peso dal cuore che non gli faceva chiudere
gli occhi
la notte e che gli incurvava le spalle di giorno. Victor
aprì le labbra, ma non
ne uscì alcun suono, le mani unite in preghiera sopra le
ginocchia –di preghiere ce
n’erano state fin troppe.
Un lampo squarciò il cielo e John trovò la forza
di continuare quel discorso
che sembrava essersi perso nel nulla. «
I
primi giorni in cui lui è morto,
quando ritornavo a casa da lavoro, pensavo di sentire il suono del suo
violino
e allora salivo gli scalini a due a due fino a spalancare la porta e
rendermi
conto che non c’era più nessuno ad aspettare.
»
Victor
aveva lo sguardo disperato, di
quelli che corrodevano dentro. «
John,
senti, io devo…
»
«
Scusa,
non ti ho nemmeno chiesto se
desideri qualcosa da bere o mangiare. Posso farti del tè?
»
Victor annuì, prendendo il cellulare
dalla tasca e digitando frettolosamente sui tasti. John mise
l’acqua nel
bollitore, l’occhio che andava a spiare le mosse di Victor,
nella stanza
accanto. Sembrava nervoso, come se qualcosa l’avesse scosso.
Sperava di non
averlo turbato con le sue parole, né altro. Lo vide passarsi
una mano tra i
capelli e poi entrare in cucina,
insieme
a lui. «
Qualcosa
non va?
»
Chiese, rimanendo discreto. «
No,
è solo che questa storia mi rende un po' triste, in
realtà. Insomma, la morte non è
mai una bella cosa da affrontare.
» John
annuì, d’accordo con Victor.
«
A
volte mi chiedo come tutta questa oscurità ci abbia trovato.
»
Sbottò, tutto d’un tratto Victor, le
dita che tamburellavano sul tavolo della cucina, pieno di graffi e
macchie di
ogni genere. John gli puntò gli occhi addosso, interessato.
Gli era sembrato un
buon ascoltatore, nel breve periodo da quando era piombato nel suo
appartamento
senza che sapesse nulla, ed ora sembrava in procinto di dire qualcosa
di
importante e John non voleva perderselo per nulla al mondo. «
Insomma,
questa oscurità, questa malinconia, come ci ha trovato?
»
John scosse la testa, confuso. Non lo
sapeva, non era lui quello che sapeva tutto. «
Si
è messa nelle
nostre vite e noi abbiamo solo dovuto abbracciarla fin quando noi
stessi
incominciamo a cercarla e ad adattare la nostra vita ad essa?
Forse…ogni volta
che qualcuno esce di casa, è come se fossimo in guerra,
speriamo in un loro ritorno,
speriamo che non facciano scelte sbagliate, che non cambino rotta in
una
destinazione lontana da noi. Sherlock ha solo perso la sua strada, per
un
momento. Ha dovuto scegliere in fretta e ha scelto la via
più facile, da una
parte, ma molto più difficile dall’altra. Tu sei
un uomo forte, John, un uomo
che credo abbia avuto un punto speciale nell’animo di
Sherlock. Puoi superare
tutto questo, puoi andare avanti.
»
Victor gli mise una mano sulla spalla, un sorriso che gli increspava il
volto e
faceva nascere rughe d’espressione vicino alla bocca.
Gli
era grato, se ne accorse come se
fosse un lampo a ciel sereno. Di essere lì, con lui, quando
aveva allontanato
tutti. Di ascoltarlo per davvero, senza nessun pregiudizio o
cattiveria, con il
solo intento di farlo stare meglio e di disinfettare le ferite. John
gli
sorrise, cercando di essere il più convincente possibile. «
Sentirsi
speciale è forse una delle peggiori gabbie che una persona
possa costruirsi,
Victor. L’ho imparato a mie spese quando sei venuto qui la
prima volta.
»
John spense l’acqua e svuotò la
teiera, mettendoci dentro quasi tre grammi di foglioline di
tè. Victor aggrottò
la fronte, perplesso. «
In
che senso?
»
John si graffiò la pelle del pollice
con l’indice, a disagio –fare
scenate di
gelosia davanti ad un potenziale amico di Sherlock? Brutta idea.
«
Diciamo
che Sherlock non mi aveva mai parlato di te.
»
«
Oh.
»
Disse Victor, tormentandosi la felpa
con le dita. «
Oh!
»
Ripetè ancora, stavolta con più
enfasi. «
Se
ti può consolare, credo che considerasse un
po’ differenti le due amicizie, per questo non
ha mai fatto parola di
me.
»
John sorrise, improvvisamente
imbarazzato. Era un complimento? Gli piaceva pensarlo. «
Non
hai mai provato a rintracciarlo dopo che vi siete separati?
»
«
Ci
sentivamo, ogni tanto, quando io non
ero impegnato in…
»
Victor sorrise, furbo, deviando lo sguardo di John e prendendo due
tazze dal
mobile in legno –da quanto non
preparava
il tè per due persone? Un mese. Triste.
«
…in
affari privati, chiamiamoli così, e lui non era impegnato in
quei casi che lo
eccitavano tanto. Da quando ha conosciuto te non si è fatto
più sentire. A
buona causa, aggiungerei.
»
John versò il tè nelle tazze e le
portò in salotto, attento a non scottarsi. Il
rombo dei tuoni che ancora faceva tremare le finestre e illuminava
Londra ad
intermittenza. «
Come…
»
John si schiarì la gola, cercando il
modo giusto per dirlo –esisteva? E
lui
aveva davvero la forza per sentire la risposta?. Victor si
sedette per
terra, la schiena poggiata al divano e la gamba sinistra lievemente
piegata. «
Com’era
Sherlock prima? Quando eravate amici?
»
Victor sembrò trovare la domanda particolarmente divertente
perché si mise a
ridere di gusto, il tè che rischiava di strabordare dalla
tazza. «
Beh,
era Sherlock! Solitario, introverso, arrogante e disgustosamente
intelligente!
»
John rise con lui, sedendosi a sua
volta per terra e poggiando la tazza vuota sul basso tavolino accanto a
loro. «
Credo
fosse anche più…fragile, in qualche modo. Era
giovane ed era pieno di vita, ma
si riusciva a vedere quanto tutte le parole cattive non fossero
completamente
gettate nel fuoco. Insomma, era un essere umano anche lui.
»
«
Lui
più di tutti, già.
»
Mormorò John, massaggiandosi per un momento la gamba che
aveva incominciato a
pulsare dolorosamente. «
Una
persona, l’altra sera, mi ha detto
che stare lontano da una persona che ami, non significa amarla di meno,
ma
amarla così tanto da rinunciare alla propria
felicità, mettendosi in gioco fino
alla fine.
»
John aggrottò la fronte, cercando di
capire il senso di quella frase. Ora capiva perché quei due
erano stati amici,
ai tempi. Lo stesso, dannato vizio di parlare per metafore o concetti
mentali
che lui non riusciva nemmeno a comprendere. Annuì lo stesso,
facendo finta di
aver capito a fondo il senso di quelle parole. «
E’
sempre stato più
forte di me e di tutti quelli che gli stavano intorno.
»
Continuò Victor, poggiando la testa dietro
di sé, contro al divano. «
Gli
bastava una sola parola per ferire
le persone. Anzi, a volte anche meno: un silenzio,
un’occhiata, uno sguardo
rivolto altrove. Potevi sbraitare e dimenarti per ore, passare alle
ingiurie,
mentre a lui bastava una piccola e semplice smorfia per sconfiggerti,
fatta con
un angolo del labbro.
»
John scosse la testa, abbattuto da quella descrizione così
veritiera della vita
di Sherlock Holmes e della propria –della
loro, di quella che non c’era più.
Gli
serviva dell’alcool, ma non voleva
annebbiare tutto, non voleva aggiungere a quel momento quel particolare
che
avrebbe solamente rovinato ogni cosa. «
E’
meglio che vada, ho fatto la persona
solidale e umana per un’intera vita, parlando con te stasera.
Sono pur sempre
un uomo!
»
Victor sorrise ma John non se la sentì
di contraccambiare, già perso ad osservare nuovamente la
pioggia scrosciante
fuori dalla finestra –perché
tutti se ne
sarebbero andati, da quell’appartamento, e chi sarebbe dovuto
restare aveva
deciso di abbandonarlo, tradendo la sua fiducia.
«
Non
rattristirti troppo, John. Andrà tutto bene prima che tu
possa accorgertene.
Ricorda che il mio numero è sempre disponibile, per te.
»
Victor se ne andò, non prima di avere
dato la solita stretta alla spalla di John, stavolta smorzata dal
rumore della
pioggia, ancora più violento di prima. Avrebbe voluto dirgli
di fermarsi a
cena, avrebbe voluto dirgli di aspettare perché la tempesta
là fuori non
sembrava promettere niente di buono, avrebbe voluto parlargli ancora e
avere una
mano a cui aggrapparsi, nel caso cedesse, nel cuore della notte. Ma
tutte
quelle cose gli sembravano improponibili –non
ora, forse mai– e lo avevano fatto stare zitto,
facendolo andare via.
Ciò
che gli rimaneva era il silenzio
che aveva il volto di tutte le cose che aveva perduto** –Sherlock,
Sherlock, ti prego, torna.
«
Ho
letto il blog di John mentre venivo qui in taxi.
» Victor
si sentiva sempre un po’ sotto
osservazione quando stava nella stessa stanza con Sherlock –una sensazione che gli ricordava i
vecchi tempi in maniera non proprio
positiva. Certo, era tutto diverso dallo stare in presenza di
John: almeno
lui ci provava, a fare il simpatico quando non era colpito dalla
tristezza –ovvero molto raramente.
«
Buon
per te, Victor.
»
Rispose Sherlock, accucciato su una poltrona davanti al camino con
addosso
cappotto e sciarpa, le gambe strette al petto e lo sguardo lontano –smarrito? Lo era? Perso senza John,
probabilmente, un pezzo fondamentale del suo puzzle. Victor
si posizionò
sul divano, com’era solito fare nei loro incontri, dopo
essere stato da John.
Si sentiva meschino a fare quel doppiogioco eppure, vedendo quelle due
anime in
difficoltà, non riusciva a dire di no. «
Nell’ultimo
aggiornamento ha scritto:
“Lui era il mio migliore amico e crederò sempre in
lui.” Sherlock serrò gli
occhi, facendogli un gesto brusco con la mano. «
Non
mi interessa cosa
ha scritto sull’argomento.
»
«
Sembra
un brav’uomo, il tuo John, non credo si meriti questo.
»
Sherlock raddrizzò le spalle e mise
giù i piedi dalla poltrona, ritornando la persona composta e
imperturbabile di
sempre. «
Non
è più mio.
»
Victor sorrise impercettibilmente,
ricordando le parole di John a proposito di cosa provasse davvero per
Sherlock.
Stupidi, tutti e due. «
Io
non credo lui la pensi allo stesso
modo.
»
Buttò lì, cercando di restare il più
vago possibile. Sherlock si fermò per un momento dal muovere
nervosamente il
piede avanti e indietro, l’attenzione improvvisamente tutta
su Victor.
«
Ti
ha detto qualcosa?
»
«
Forse.
»
Sherlock strinse gli occhi in due
fessure ghiacciate, alzandosi dalla sua postazione e mettendosi davanti
a
Victor che sorrideva, beato. «
Sbrigati,
la pazienza non è uno dei
miei pregi.
»
«
Nemmeno
la simpatia, a quanto pare.
»
Sherlock alzò gli occhi al cielo e si sedette affianco al
compagno, in attesa. «
Avanti,
parla.
»
«
Okay,
beh, credo solo che, da come lui
mi ha parlato di te, e ha parlato veramente tanto –un
ghigno si formò sul viso di Sherlock a quella rivelazione–,
sì,
credo che lui ti consideri davvero molto molto speciale.
»
Sherlock sembrò soppesare ogni singola
parola e farla sua, prima di abbassare per un secondo lo sguardo sulle
sue mani
intrecciate. «
Non
c’è una remota possibilità che tu
possa andare da lui?
»
«
No,
non ora. Sarebbe troppo pericoloso e troppo affrettato.
»
«
Ma
potresti, che ne so, mandargli un
messaggio, fargli capire che sei ancora vivo. A lui andrebbe bene.
»
Sherlock
sbuffò, infastidito dalla
continua invadenza dell’altro. Noioso, noioso e sentimentale
peggio di John
Watson. Si tolse il cappotto in un moto di irritazione, alzandosi
nuovamente in
piedi. «
Ho
detto di no. Sarebbe disastroso, è un pessimo bugiardo e non
aspetterebbe due
secondi prima di venire a cercarmi. Lo rintraccerò quando
sarà il momento più
opportuno.
»
Victor lo osservò, lo sguardo che
spariva oltre la finestra –così
diversi,
così uguali–, le braccia incrociate al
petto, appoggiato contro un vecchio
mobile di plastica arancione –orribile
e
terrificante, quel posto l’avrebbe fatto uscire pazzo.
«
Il
momento opportuno per te o per John?
»
Chiese d’un tratto, sapendo bene che
la frecciata sarebbe andata a buon segno. Si girò a fissarlo
in quel modo che
aveva sempre messo in soggezione tutti quanti, tranne lui. «
Non
vedo come questi siano affari tuoi, Victor. Sei qui per svolgere un
lavoro, non
farti distrarre.
»
«
Hai
paura della sua reazione, non è così?
»
Sherlock sbuffò, accennando appena ad una risata sarcastica.
«
Ovvio
che non è così, Victor. Non ho paura di niente.
»
«
Lo stai ingannando, Sherlock. » « Non
si può
dire che un’illusione sia un inganno; è piuttosto
un abbaglio, una verità a
termine che dura finché nella bolla sospesa in aria dura
l’ossigeno.
» Victor
scrollò le spalle, non prendendo
nemmeno in considerazione l’idea di rispondergli. Si
strofinò le mani tra loro,
cercando di scaldarle, quando il suo telefono squillò e la
pesante cortina di
silenzio che si era creata tra loro si spezzò. Sherlock
ritornò a posare gli
occhi su di lui, cercando di capire se fosse John o qualcuno che non
valeva la
pena nemmeno conoscere. «
E’
John. » Disse
ad un tratto Victor, continuando a
fissare il cellulare, in attesa di chissà cosa. «
Imposta
l’altoparlante.
»
Sherlock raddrizzò un po’ la schiena quando si
sentì la voce di John inondare
la stanza. Una voce che non era più destinata
a lui –morte,
così irrimediabile,
così imprevedibile.
«
Victor?”
«
Ehi,
John! Qualche problema?
»
«
No,
no, figurati. Sei impegnato?
»
John continuò a fissare le tazze da tè della
signora Hudson –o quello che ne era
rimasto–, tutto
intorno a lui. Le aveva fatto cadere o le aveva gettate in un momento
di
rabbia? Non se lo ricordava molto bene, ma appena la governante se ne
sarebbe
accorta gli avrebbe fatto una bella ramanzina, seguita da un aumento
dell’affitto
per il prossimo mese. Seguì una pausa di Victor, prima che
continuasse a
parlare. «
No,
non proprio. Cosa stai facendo?
»
«
Sto,
uhm, pulendo un po’, ma sto per
andare a letto. Tu?
»
«
Sono
a casa di un amico.
»
«
Oh,
scusami allora.
»
John si diede mentalmente dell’idiota per averlo chiamato. «
No,
figurati, è irritante come l’orticaria, mi hai
salvato.
»
John rise appena e sentì Victor fare
lo stesso, con un rumore attutito in sottofondo.
Lanciò
un’ultima occhiata ai cocci per
terra, prima di lasciar perdere tutto e salire le scale, verso la sua
stanza. «
E’
un amico tanto antipatico?
»
Chiese John, infilandosi direttamente nel letto senza accendere la luce
della
stanza –il buio andava bene, il
buio lo
faceva sentire protetto. «
Abbastanza,
ma il problema è che cocciuto
come un mulo.
»
John sorrise ancora, poggiando la
testa sul cuscino e sospirando piano. «
Conosco
il tipo, posso capirti.
»
Poté sentire l’incertezza di Victor
dopo quelle parole, nonostante non fosse lì con lui. Una
brutta area in cui
camminare, piena di mine pronte a esplodere. «
Mi
dispiace, non
volevo…
»
«
Tranquillo,
è tutto okay.
»
No, non era okay, per niente, ma far
finta che lo fosse andava bene sia lui che agli altri. «
John,
devo andare ora, ci sentiamo domani?
»
«
Certo,
buonanotte!
»
«
Buonanotte,
John.
»
John
si passò stancamente una mano
sugli occhi, prima di chiudere la telefonata. Degli strani rumori lo
fermarono
in tempo, il pollice che sfiorava il tasto rosso per terminare la
chiamata
mentre la curiosità prendeva il sopravvento sulla ragione.
Si riportò il
cellulare all’orecchio, in attesa. «
Mi
sembrava molto triste.
»
«
Lo
è, ovviamente. Grazie per la tua
precisazione inutile, Victor.
»
Voce. Voce. Quella voce. John sbarrò gli occhi nel buio, il
cuore che
incominciava a battere come un forsennato e i polmoni che smettevano di
fare il
proprio lavoro.
«
Dovresti
smetterla di essere così duro nei confronti di questa
situazione.
»
«
E
tu dovresti smetterla di improvvisarti
Cupido, è stupido e noioso.
»
John
si premette una mano sulla bocca,
nel tentativo di non dar sfogo a tutti quei singulti che si stavano
annidando
nel centro del petto e poi su per la gola. Sherlock, Sherlock,
Sherlock,
Sherlock, questo continuava a lampeggiare nella sua mente, mandandolo
in tilt. «
Sei
un robot.
»
Mormorò Victor, in lontananza. «
Vorrei
tanto poterlo essere.
» Sherlock.
Sherlock.
«
Sherlock?
»
John riempì la stanza di quel nome, la
voce incerta e spezzata che mostrava tutto ciò che stava
provando. Il silenzio
che riempì le orecchie di John, gli fece capire che
l’avevano sentito.
Sherlock. Vivo.
Sherlock
era vivo.
Note:
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Citazione da Via Paolo Frabbri 43
**
Citazione da Mogol, Paolo Limiti
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