CAPITOLO
1: EGO ANGELOS EIMI
Nel
sesto mese il Messaggero Gabriele fu mandato da Dio […]
a
una vergine […]. La vergine si chiamava Maria
Vangelo
di Luca 1, 26-27
Genevieve
era una ragazza assai graziosa.
Un
nasino francese quasi quanto il suo nome, un paio di grandi, rotondi
occhi grigi incorniciati in un volto ovale dall’incarnato
pallido, a sua volta imperlato fra dei curatissimi capelli lisci come
seta, castano chiari, che le scendevano ai lati delle orecchie con
grazia, lasciando spazio a due labbra sottili e rosee.
Magra
e longilinea, tuttavia non era alta; raggiungeva a stento il metro e
sessantacinque, con un bacino stretto e una vita esile, un seno che lei
reputava troppo piccolo, ma che, al contrario di quanto lei pensasse,
se fosse stato più grande probabilmente avrebbe tolto
slancio e dinamismo alla sua figura.
Quel
giorno, Genevieve vestiva semplicemente, come d’altronde era
solita fare: un paio di pantaloni scuri e una anonima maglietta verde.
Ai piedi un paio di scarpe da ginnastica.
Quel
giorno, una lunga mattina di fine primavera, fuori dalla finestra i
petali rosa del ciliegio in giardino volteggiavano lentamente,
trasportati dal vento, danzando in ampi cerchi , prima di sparire
dietro l’infissa, tutto in un silenzio quasi monastico.
Genevieve
, tuttavia, non era in giardino, né guardava i petali
cadere, fuori dalla finestra. Era nella sua camera. Una camera piccola
e semplice, tuttavia piacevole alla vista: sulla destra la finestra,
dalle infisse in legno, dava una piacevole vista sul verde del
giardino, macchiato qui e lì dal vermiglio di quei fiori che
a sua madre piacevano tanto, nonché sul ceruleo cangiante
del cielo primaverile, mentre sulla sinistra c’era il letto,
in cedro, fatto su misura da un artigiano del luogo, geometrico e
piacevole alla vista, avvolto con gentilezza dalla luce proveniente
dalla finestra.
Un
comodino sulla destra seguiva lo stesso stile, così come due
mensole, più in alto; il primo era occupato da un libro, per
cui un biglietto del treno faceva da segnalibro: “Se una
notte d’inverno un viaggiatore”, di Calvino che,
seppure l’inverno fosse poco conforme alla presente stagione,
era comunque un piacevole passatempo letterario; una lampada da lettura
in alluminio sullo stesso mobile tradiva l’abitudine della
ragazza a leggere la sera.
Le
mensole, invece, oltre a qualche libro sparso in disordine, fungevano
da appoggio per una bambola di porcellana e una maschera africana
oblunga, inviatale dallo zio dall’africa.
Un
quadro raffigurante aironi, dipinto in stile cinese, era a destra delle
mensole, mentre, a sinistra, sopra il letto, era incorniciato un carme
di Saffo, particolarmente caro alla ragazza per contenuti e stile.
Vicino
alla finestra, invece una scrivania ospitava penne e libri di scuola,
nonché il suo flauto traverso, nella custodia rigida
foderata di velluto rosso, e un piccolo stereo portatile che
trasmetteva sommessamente una canzone degli U2, a volume troppo basso
per poter coprire il rumore del pianto di Genevieve che, prona sul
letto, con la testa fra le braccia, singhiozzava misuratamente espiando
i suoi dolori.
A
poco servivano le lenzuola con l’allegro motivo a stelle e il
poster di Bob Marley, ai piedi del letto, che la ammoniva a lasciare le
preoccupazioni dietro di sé.
Piangeva
perché la vita era ingiusta, piangeva perché la
misura, in un certo senso, era colma. Le lacrime le scorrevano
giù dagli occhi, facendo colare il leggerissimo trucco che
andava a rigarle il viso.
Piangeva
senza parole, senza preghiere, piangeva di quel pianto infelice, quasi
liberatorio e al contempo privo di consolazione e di speranza.
Lamentava l’ennesimo colpo di una vita che l’aveva
delusa. Non meditava la morte, l’annientamento, assolutamente
no; la morte la spaventava in maniera indicibile, come è
giusto che sia. Ora, semplicemente, piangeva per eliminare ogni
pensiero.
Il
motivo non è importante. Il motivo è solo una
causa passeggera, latrice di ben più profondi scompigli, che
emergono, ancora una volta. Il motivo, la causa, è
accidentale, il pianto, per Genevieve non lo era; era inevitabile: il
tempo, il momento… solo dettagli.
-Genevieve?-
Una
voce maschile, dolce, ma sicura. La ragazza pensò per un
attimo, stupita, che potesse trattarsi di suo fratello, ma
scartò subito l’ipotesi; la voce le ricordava un
suo amico, ma le pareva assai strano che lui potesse trovarsi
lì, in quel momento. Stupita, si girò di scatto,
sollevando il viso dalle braccia e pronunciando il nome di lui.
-Alan?-
-Ouk Eimi Alan-
rispose quello. Genevieve impiegò diversi secondi a
realizzare chi (o cosa) avesse di fronte, momenti in cui la figura di
fronte a lei non pronunciò alcuna parola.
Era
un uomo, o perlomeno, si poteva definirlo per sommi capi un uomo; era
di colore, tuttavia, al contrario di tutti gli uomini di colore da lei
conosciuti, aveva un naso dritto, affatto schiacciato, e labbra
sottili, nonché un paio di penetranti occhi verde smeraldo.
Aveva spalle larghe e muscoli ben definiti, tuttavia, era longilineo,
alto sicuramente più di un metro e ottanta, e aveva stampato
sulla faccia un sorriso gentile, con la bocca appena aperta, e piegata
da un lato.
Ma
le normalità finivano qui.
Innanzitutto,
era totalmente nudo, se si esclude un drappo di seta bianca che gli
girava intorno alla vita, e che pareva essere sospeso a
mezz’aria, volteggiando lentamente come se fosse immerso
nell’acqua. Lo stesso effetto era dato dai capelli, mossi e
bianchi come la neve. Tuttavia, la nudità, cosa strana, non
saltò immediatamente agli occhi della giovane, e anche
quando la notò, non provò alcun tipo di vergogna
o sdegno. Inoltre, nonostante l’altezza e la massa muscolare,
aveva una grazia quasi femminea, sia nell’aspetto, sia nei
movimenti, misurati e mai bruschi.
Ma
la cosa più sorprendente erano le ali.
Un
paio di maestose ali di piume, bianche e dorate, che ostruivano la
visione verso tutto ciò che non fosse lo strano essere che,
sospeso a qualche centimetro da terra come per magia, le sorrideva.
Aspettò
che la ragazza lo osservasse per bene, prima di pronunciare qualsiasi
altra parola. Tese una mano in avanti, come per invitare la giovane,
poi, con il sorriso che lentamente calava dal suo volto, riprese a
parlare.
-Ego Angelos eimi-
Lei
lo guardò con un misto di perplessità e stupore,
con ancora qualche residuo di pianto in gola, piuttosto stranita dal
sentirlo parlare in una lingua ormai morta da tempo; incrinò
un sopracciglio, mentre negli occhi si insinuava un tocco di speranza.
-Sei
un angelo? È Dio che ti manda?-
Quello
ritrasse la mano e, smettendo di fluttuare in aria, poggiò
delicatamente i piedi a terra, sul suo volto ricomparve il sorriso,
comprensivo, quasi paterno, stavolta accompagnato da un accenno di riso.
-Non
ho detto questo- stavolta, non parlò in greco. Fece un cenno
con la mano, indecifrabile –E di certo colui che mi manda non
ha il potere di permettersi Messaggeri come gli Angeli, che comunque,
se vuoi un parere, sono decisamente troppo spocchiosi, per i miei
gusti- aggrottò la fronte per sottolineare il suo giudizio.
Era
incredibile come in così poco tempo la tristezza avesse
lasciato spazio allo stupore, e come anch’esso fosse
scivolato via come olio dopo poco tempo. Genevieve, in parte delusa
dal fatto che l’essere, nonostante le apparenze, non fosse un
angelo, pose quindi la domanda più ovvia.
-Chi
sei, dunque?-
-Te
l’ho detto- rispose quello immediatamente, con noncuranza
–sono un Messaggero- sorrise ancora, forse per
tranquillizzarla –Eppure sapevo che non eri malaccio, in
greco…- Prese una penna che era poggiata sulla scrivania ed
aggiunse –E tu sei Genevieve, giusto?-
Lei
si mise a sedere, sempre più confusa: -Si…- fu
l’unica cosa che le venne da dire, e poi prounciò
forse la domanda più banale fra le migliaia che le
frullavano in mente -…e cosa ci fai qui?-
Quello
fece scattare un paio di volte il meccanismo della penna a molla, poi
la rimise al suo posto e riprese a guardarla.
-Cosa
fa un messaggero, secondo te? Porto un messaggio- fece una pausa, poi
sbuffò, con aria annoiata e disse fra se e se, a voce appena
percettibile –Chissà poi perché me lo
chiedono sempre tutti- dopo questa parentesi dall’aria
scocciata, tuttavia, lo pseudo-angelo parve ritornare immediatamente a
quell atteggiamento gentile che fino a quel momento lo aveva
contraddistinto
-Oh,
scusa… ma sai com’è…
tremiladuecento anni di lavoro ed ogni volta le stesse
domande… ma questo non ti interessa; piuttosto, vuoi sapere
il messaggio del mio padrone?-
Genevieve
rimase attonita, un labbro increspato e l’espressione troppo
stupita per poter emettere alcun suono. Il Messaggero, dopo aver
aspettato qualche secondo, la indicò con un gesto
confidenziale, si morse la lingua, aggrottando la fronte, e si
limitò a dire: -Lo prendo per un
“sì”- e proseguì, distendendo
l’espressione.
-Vedi,
la questione è semplice, lui ti vuole parlare… e
vuole che tu incontri delle persone, prima di raggiungerlo-
alzò le spalle, con la massima semplicità, come
se quel breve periodo potesse bastare per spiegare la presenza di un
gigantesco pennuto antropomorfo all’interno della camera al
secondo piano di una piccola villetta di campagna.
Ancora
una domanda banale da parte della ragazza, che ancora non aveva ben
focalizzato la situazione.
-“Lui”
chi?-
Dopo
l’entrata “scenica” e le prime frasi, il
tono del Messaggero si era fatto ben più colloquiale
-Il
mio padrone… Oh, gia, dimenticavo; non vuole che tu sappia
chi sia; vuole presentarsi di persona: fa così con tutti-
poi protese le mani in avanti e si affrettò a
tranquillizzarla –Tranquilla, comunque, non è una
cattiva persona, gli piace solo adombrarsi di un’aria di
mistero-
Risposta
vaga. Calò d’improvviso un silenzio imbarazzato,
che tuttavia il Messaggero si affrettò a dissimulare; diede
una rapida occhiata fuori dalla finestra, scorgendo il sole, e
ricominciò a parlare con il solito tono amichevole.
-Numi,
come è tardi! Non pensavo di aver perso così
tanto tempo parlando con Quinto… gambe in spalla, ragazza,
non mi è mai piaciuto arrivare in ritardo-
-Ma…-
tentò di prender tempo lei
-Su,
su… se hai altre domande, ne parliamo durante il viaggio;
non per nulla, sai, ma se perdiamo la corsa ci toccherà
aspettare ancora- e le tese la mano –Andiamo?-
Jenevieuve
non seppe mai perché prese la decisione, così
affrettata, forse stupida, di seguire il Messaggero, di cui nemmeno
conosceva il nome, tuttavia, i fatti sono inoppugnabili, e i fatti
furono che lei si alzò dicendo un flebile
“si”, gli prese la mano, e lui, ripiegando le ali
per potersi muovere agevolmente, aprì la porta della piccola
camera e uscì con passo delicato, quasi da danzatore,
conducendo la ragazza con sé, fuori dalla camera.
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