Disclaimer: i
personaggi non mi appartengono e i diritti del Doctor Who sono
proprietà della BBC, scrivo senza scopo di lucro.
Una cosa
sconnessa, poco più lunga di una flashfiction, scritta in uno
dei miei momenti da maniaca dell'angst, e chissà perchè
l'angst sul Dottore sembra sempre calzare a pennello. Non ha una
collocazione precisa questa storia, ma vuole essere anche un piccolo
omaggio alla grandissima Elisabeth Sladen.
Quella
volta che...
Era
iniziato tutti in uno di quei momenti di euforia, in cui si sentiva
invincibile e spaccone. Avrebbe potuto prendere il Tardis e fare
qualsiasi cosa, andare sulla cima del K2 o visitare la perduta
Atlantide, invece si era materializzato in una comune cittadina
inglese, con una strada all'apparenza innocua ed una casa come ve ne
erano tante.
Avrebbe
potuto andare a far visita ai Pond, come faceva quando si annoiava, o
tornare negli anni '90 solo per poter parlare, anche per un fugace
momento, con la piccola Rose Tyler e ricordare quanto fosse dolce il
suono del suo sorriso.
Ma
non aveva fatto nulla di tutto questo.
Era
solo una strada normale in una città normale, ma lui la
conosceva come le sue tasche.
Avrebbe
dovuto accorgersene subito, non appena la porta non si era aperta al
suo arrivo e lei non gli era corsa incontro... invece si era avviato
fischiettando.
Ma
la ragazza, Rani, lo aveva chiamato prima che potesse bussare alla
porta.
Era
iniziato in un momento di euforia ed era finito con lui che chiudeva
le porte del Tardis e si accasciava a terra, scosso da singhiozzi
come non gli era capitato mai, no, nemmeno quella volta che Rose era
perduta per sempre.
Erano
state lacrime silenziose, quelle, lacrime di un uomo distrutto,
svuotato, costretto ad andare avanti.
Adesso
sentiva solo il dolore, ed era rumoroso.
Sentiva
se stesso piangere e la sua voce gli rimbombava nelle orecchie,
sovrastando i rumori del Tardis che, quasi un atto di pietà,
era ripartito senza che lui facesse nulla se non rimanere seduto lì,
schiena contro la porta e mani sulla faccia, bagnate e tremanti.
Gli
facevano male la gola e gli occhi.
Gli
facevano male i cuori, soprattutto, e il cervello era un tumulto di
ricordi troppo vividi.
C'era
stata quella volta, troppe vite prima, in cui Sarah era entrata nella
sala controllo vestita di bianco, avvolta in quell'abito che non le
apparteneva ma che indossava come se per lei non fosse un problema.
Era bellissima, ma lui era troppo preso da se stesso, dalla sua
solitudine per poterglielo dire, anche se l'aveva notato.
E
c'era quell'altra volta in cui Sarah aveva riso, investendolo di
allegria e lui, sciarpa troppo lunga e cappello troppo grande, si era
sentito parte di qualcosa.
Lei
era sempre stata lì, giornalista, compagna, amica, costante
nella sua vita, rassicurante, perchè nei momenti di solitudine
sapeva che c'era Sarah da qualche parte nel mondo.
Ed
era stato destino che si rincontrassero, perchè vi era un filo
tra loro e c'era sempre stato.
Sarah
Jane Smith, la sua Sarah Jane Smith.
Non
riusciva a fermarsi ed era strano, preoccupante ed in un certo senso
terrificante, sapere di poter ancora piangere così.
Solo
dopo molto tempo, che fosse un'ora o una settimana, riuscì a
riprendere il controllo di sé e alzarsi. Doveva farlo per lei,
lo sapeva, perchè non poteva permettersi un crollo del genere,
nemmeno per la sua Sarah, nemmeno quando aveva perso la compagna di
molte vite.
Sarah
Jane, che aveva amato più di chiunque altra ma non come aveva
amato Rose, perchè non c'entrava la salvezza, il bisogno o la
solitudine, era solo che aveva amato andare in giro con lei, il fatto
che lei fosse sua amica sempre, qualsiasi fosse la sua faccia o la
sua personalità.
Ecco,
ora capiva: c'entrava quella volta in cui avevano mangiato insieme
una jelly baby.
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