Like Davy Jones_5
THIRD SEASON › IN
PIECES
DAVY JONES’
LOCKER, #01
Non
seppe
esattamente quanto tempo passò né tanto meno se
fosse ancora notte o fosse già
il giorno dopo, però, nell’aprire gli occhi, Sanji
si rese immediatamente conto
che i brividi che avevano attraversato il suo corpo durante quelle ore
di sonno
- e, se proprio doveva essere sincero con se stesso, nemmeno ricordava
di
essersi addormentato, ad un certo punto - erano stati sostituiti da un
piacevole calore che lo avvolgeva come un bozzolo. E solo quando
abbassò lo
sguardo su di sé comprese quale fosse la causa di quel
tepore. Quell’ammasso di
stoffa verde che lo copriva era la casacca di Zoro, e non riusciva
proprio a
capire che cosa avesse spinto quello scemo di uno spadaccino a
sfilarsela per
usarla a mo’ di coperta per lui. Maledizione a
quell’idiota. L’aveva forse
scambiato per una donna bisognosa di aiuto o cosa? Per il suo bene, e
per il
bene della propria sanità mentale, sperava vivamente di no.
Altrimenti
l’avrebbe pestato a sangue, poco ma sicuro.
Issandosi a sedere con un po’
di fatica,
dati i muscoli di cosce e braccia anchilosati per la scomoda posizione
in cui
si era ritrovato sul terreno, Sanji scostò da sé
la casacca e la ripiegò sulle
ginocchia, gettando qualche occhiata intorno. Il fuoco, per quanto
debole,
scoppiettava ancora allegramente e attecchiva al legname e alle foglie
accatastate, dunque non poteva essere passato troppo tempo da quando
aveva
chiuso gli occhi; la luce non era cambiata di una virgola e i profili
delle
cose erano ancora indistinti e avvolti lievemente nella nebbia, quindi
era
anche da escludere il fatto che fosse giorno, a meno che la giornata
non fosse
uggiosa esattamente come la precedente; non vedeva da nessuna parte
Zoro, però,
e fu al pensiero che potesse essersi allontanato e perso di nuovo che
scattò
immediatamente in piedi, dandosi dell’idiota quando per poco
non rischiò di
piombare a terra come un sacco di patate a causa della caviglia
slogata. Merda.
Se n’era quasi dimenticato.
«Zoro?» decise
dunque di chiamarlo,
sorreggendosi con una mano contro l’albero senza smettere di
cercare lo
spadaccino con lo sguardo. Odiava ammetterlo, ma preferiva di gran
lunga la sua
compagnia, anziché starsene da solo in mezzo al nulla, con
il rischio di finire
persino nei guai per il non poter sfruttare al meglio le proprie
abilità. «Ohi,
marimo!» riprovò, deglutendo e umettandosi le
labbra. Stava cominciando a
provare la stessa maledettissima
sensazione che aveva assaporato a Sabaody, quando a causa di Kuma se
l’era
visto sparire dinanzi agli occhi. E, dannazione, non aveva lavorato
sodo per
due anni per rivivere le stesse situazioni angoscianti ancora una
volta.
Si diede una calmata solo quando lo vide
comparire dal folto della boscaglia, con in viso
un’espressione
scocciata
mentre tentava di tirar su la zip dei pantaloni neri - perfettamente
visibili
insieme all’haramaki a causa della mancanza della
casacca -
fra un’imprecazione e l’altra. «Che
diavolo
hai da strillare tanto, cuoco?» borbottò a mezza
voce
nello scoccargli una
rapida occhiata, riuscendo finalmente nella sua impresa. «Non
si
può nemmeno
pisciare, adesso?»
Sanji trasse un lungo sospiro di
sollievo, poggiandosi con la schiena contro la corteccia. Quel dannato
idiota
non aveva la benché minima idea di quanto si fosse
preoccupato, e probabilmente
era un bene, dato che glielo avrebbe di sicuro rinfacciato come lui
stesso
aveva fatto a Water Seven su quello stupido treno marino. Scosse dunque
il capo
e cercò di riacquistare un’aria composta, e,
recuperata la casacca che aveva
abbandonato sul terreno.
«Sta’ zitto, marimo,
saresti capace di
perderti anche dietro l’angolo. Non puoi andartene in giro da
solo», bofonchiò
scontroso, lanciandogli contro il suo vestiario e vedendo lo spadaccino
afferrarlo al volo per infilarselo. «Perché
diavolo mi hai dato la tua casacca,
piuttosto? Non ne avevo per niente bisogno».
«Non fare domande idiote e
datti una
mossa, cuoco. Dobbiamo trovare Rufy e gli altri»,
tagliò corto, non ritenendo
necessario rispondere ad una domanda come quella. E Sanji, dal canto
suo,
nemmeno insistette, limitandosi semplicemente a seguirlo, seppur
più lentamente
del solito a causa del dolore alla caviglia, prima di gettare
un’ultima
occhiata nei dintorni.
«Ohi, quanto ho
dormito?» gli venne però
spontaneo chiedere, giusto per rendersi conto di quanto tempo fosse
passato con
esattezza.
«Non molto.
Mezz’ora, un’ora al massimo»,
gli rispose semplicemente, lasciando cadere lì la
conversazione per l’ennesima
volta. Non sembrava aver molta voglia di parlare, e il cuoco, molto
probabilmente, non aveva a sua volta intenzione di intrattenere con lui
un
discorso che sarebbe potuto sembrare anche solo lontanamente sensato.
Si
concentrarono dunque sul proprio cammino, in silenzio e più
che speranzosi di
non star girando a vuoto.
Nei dintorni il silenzio era
così
assordante da rimbombare assurdamente nelle orecchie, dando quasi
l’impressione
che si trovassero entrambi sott’acqua; il terreno umido, mano
a mano che
avanzavano, diveniva costellato da steli d’erba e pietrisco,
facendo sì che
quella determinata zona sembrasse divisa dalla restante vegetazione,
che
appariva invece fitta e difficilmente valicabile, come se la foresta
stessa
volesse impedire agli incauti passanti di avanzare in quella direzione.
I due
compagni rimasero persino sorpresi quando, inoltrandosi nel folto del
bosco e
superando una macchia di larici e felci, si ritrovarono in una piccola
radura,
al centro della quale sorgeva una costruzione andata in rovina che un
tempo
sarebbe stata sicuramente un ottimo rifugio per proteggersi dagli
animali della
zona, se mai ce n’era stato qualcuno su quell’isola
prima dell’arrivo di quegli
strani Uomini Pesce. Ai lati di essa, accatastati l’uno sopra
l’altro come se
fossero stati riposti lì da qualcuno, si trovava la
stragrande maggioranza del
muro di mattoni che era crollato dal lato sinistro della dimora, la cui
porta
di legno sembrava essere stata sfondata da una palla di cannone e
lasciava
intravedere l’arredamento interno; c’era persino
una stalla, ai limitari della
radura, le cui travi annerite e i cumuli di paglia ormai secchi
parevano essere
stati divorati dal fuoco. Dall’interno della catapecchia
proveniva stranamente
del fumo, come se qualcuno vi abitasse ancora e non si curasse delle
insolite
presenza che vagavano per la foresta.
«Chiunque sia quello
là dentro, o è
maledettamente forte o è tremendamente stupido»,
costatò lo spadaccino,
portando comunque una mano a sfiorare l’elsa della sua
Ichimonji, mettendo in
allerta anche Sanji. Quest’ultimo assunse difatti una
posizione di difesa,
incassando la testa nelle spalle e ficcando le mani nelle tasche,
stringendo la
sigaretta fra i denti.
«Il solo modo per saperlo
è andargli in
contro, marimo», propose, rimediandoci un cenno
d’assenso prima che, entrambi
guardinghi, cominciassero ad incamminarsi verso la costruzione,
allertandosi
quando un rumore metallico parve provenire proprio
dall’interno di essa.
Qualche istante dopo la porta si spalancò, e una figura fin
troppo familiare ai
due pirati comparve sulla soglia, lasciandoli interdetti nel vederla
gettar
loro un’occhiata prima di dileguarsi verso il bosco.
«Rufy!»
esclamò Zoro, correndogli dietro
con un’imprecazione; Sanji lo seguì a ruota,
decidendo di superarlo nel
tentativo di raggiungere Rufy e bloccarlo, domandandosi al contempo
cosa diavolo
stesse succedendo. Perché era fuggito? Dov’erano
gli altri? E, soprattutto, da
quando Rufy era così dannatamente veloce?
«Maledizione, Rufy,
aspetta!» sbottò, saltando
una radice nodosa per evitare di inciamparvi dentro, imprecando a denti
stretti
quando una fitta dolorosa gli percorse l’intera gamba fino
alla caviglia,
facendolo rendere conto anche di un’altra cosa: non era Rufy
ad essere
diventato veloce, era lui che, a causa del momentaneo handicap, era
diventato
più lento. Fece comunque ricorso a tutta la propria forza di
volontà, cercando
di aumentare il passo e ritrovandosi nei pressi di un fiume impetuoso.
«Dove
diavolo vai, razza di idiota? E dove accidenti sono Nami-san e
Robin-chan?!»
Il Capitano gettò un rapido
sguardo
verso di lui senza arrestare la sua folle corsa, sparendo fra le cime
degli
alberi con un salto degno di una scimmia; Sanji dovette fermarsi e
accasciarsi
contro un tronco per il dolore, guardando in alto senza riuscire a
scorgere la
figura del ragazzo. Che diavolo gli era preso, così
all’improvviso? E dov’era
il resto della ciurma, se lui si divertiva a fare l’idiota
nella foresta?
«Dove cazzo pensavi di correre
con
quella fottuta caviglia?!» sbottò Zoro, appena
sopraggiunto a sua volta sulla
riva del fiume; Sanji gli gettò un’occhiataccia,
mordicchiando poi il filtro
della paglia con un sonoro sbuffo.
«Non rompere, marimo, tu sei
troppo
lento».
«Almeno l’hai
preso?»
Sanji ci mise un po’ a
rispondere,
mugugnando qualcosa fra sé e sé prima di
borbottare solo «È sparito» in tono
contrariato, asciugandosi il sudore dalla fronte. Non fece in tempo ad
aggiungere altro, però, che un ruggito disumano richiamasse
la sua attenzione,
costringendolo a stornare bruscamente lo sguardo nella direzione da cui
esso
proveniva. E non poté fare a meno di spalancare la bocca con
fare sorpreso,
tanto da rischiare di far cadere la sigaretta, quando vide in
lontananza un
serpente dalle squame azzurrognole che strisciava rapido nella loro
direzione,
innalzando le spire e il capo mastodontico verso il cielo;
spalancò le fauci e
ruggì ancora, mostrando le zanne enormi dalle quali Sanji
riuscì perfettamente
a notare il veleno che colava da esse.
Oh, perfetto. Non solo avevano dovuto
vedersela con gli Uomini Pesce o qualunque cosa fossero quei cosi
contro cui
avevano combattuto da quando avevano messo piede su
quell’isola, ci mancava
soltanto un fottuto mostro marino. Un immenso mostro marino che
sembrava essere
venuto proprio per reclamare la loro vita, molto simile a quello di cui
aveva
sentito parlare da Paty quand’era solo un marmocchio e che,
secondo quanto
aveva raccontato, designava le sue vittime fra i marinai che si
perdevano e li
perseguitava in qualunque oceano fino a prendersi la loro anima. La
situazione
stava cominciando ad andare sicuramente di bene in meglio.
«Ohi, marimo»,
cominciò dunque pacatamente, alzando a poco a poco lo
sguardo su quella
creatura che, sradicando gli alberi che si trovavano sfortunatamente
sul suo
passaggio, si era parata dinanzi ai loro occhi mentre, tranquillo come
non mai,
afferrava con due dita la sigaretta che si era precedentemente portato
alla
bocca per accendersela. «Non sono il solo a vedere questa
cosa enorme, vero?»
«A meno che non siamo
impazziti in due,
cuoco, la vedo anch’io», replicò
semplicemente Zoro, abbozzando poi un mezzo
sorriso sarcastico. «Se ci fosse qui Rufy, sono certo che
proverebbe ad
addomesticarlo come quel maledetto Kraken», soggiunse,
sfilando le prime due
spade dal fodero e provocando una sonora risata a Sanji, che si
ficcò le mani
in tasca qualche istante dopo.
«È grosso
esattamente come quello
stupido polpo, in effetti», disse, sollevando lo sguardo su
quel mostro. «Basteranno
due colpi».
«Due colpi»,
ripeté lo spadaccino,
portandosi l’elsa della terza katana alla bocca; la mantenne
saldamente con i
denti e rinserrò la presa sulle altre due, facendo appena un
rapido cenno con
il capo in direzione di Sanji prima di gettarsi all’attacco
senza pensarci due
volte. Non avrebbero dovuto preoccuparsi di niente né tanto
meno avrebbero
dovuto fare attenzione a non tagliarlo a pezzi, giacché per
loro, in quel
momento, era solamente un grosso ostacolo e non avrebbe avuto la
benché minima
utilità se non quella di bloccar loro il cammino.
Si spostò lateralmente
quando,
spalancando le grosse fauci, quel gigantesco serpente si
lanciò verso di lui,
con la ferma intenzione di maciullarlo con le grosse zanne. Zoro lo
colpì ad un
fianco con il dorso di una spada, ma imprecò a denti stretti
nel rendersi conto
che quel coso gigantesco era più coriaceo di quanto
sembrasse. Ricordava
vagamente quello stupido drago che aveva fatto a fette a Punk Hazard, e
probabilmente, ironizzò sul momento, era persino buono come
quello cotto alla
griglia.
Indietreggiò di qualche passo
ed evitò
per un pelo la coda del serpente, che aveva frustato l’aria
nel tentativo di
colpirlo; il suo ruggito lo assordò per un breve attimo e
quasi si sentì
stordito, scuotendo il capo per riprendersi prima di buttarsi
all’attacco.
Rigirò le katane fra le mani e partì alla carica,
riuscendo a scalfirlo esattamente
all’attaccatura del collo, provocandogli un taglio netto ma
non mortale. Fece
per gettarsi ancora una volta contro di lui quando, sfruttando il suo
lato
cieco, la coda gigantesca del serpente lo colpì in pieno e
gli mozzò il fiato
nei polmoni, schiacciandolo al suolo con una forza disumana.
Boccheggiò, premendo le mani
contro la
sua carne nel tentativo di levarselo di dosso, riuscendoci solo quando
un calcio
poderoso lo ribaltò sul terreno fangoso, facendo schiantare
il corpo massiccio
contro una fila d’alberi poco distante. Con la coda
dell’occhio, Zoro vide
Sanji calciare velocemente l’aria per saltare il
più in alto possibile,
arrivando esattamente al centro del petto di quel mostro gigantesco;
caricando
tutta la potenza che possedeva nella gamba destra, poi,
roteò su se stesso e
utilizzò il Diable
Jambe, dandole
fuoco per aumentare la propria forza prima di gettarsi contro
l’avversario. Con
il Grill shot,
la stessa tecnica
utilizzata tempo addietro contro il Kraken, lo ustionò in
pieno costato, e il
gemito doloroso a cui quel mostro diede vita fu capace persino di far
tremare
la terra sotto ai piedi di Zoro.
«Tutto tuo, marimo!»
esclamò Sanji, imprecando
quando toccò il terreno e il contraccolpo si
riversò interamente nella gamba;
dovette accasciarsi su se stesso e afferrarsi la caviglia con una mano,
sentendosi
un completo idiota. Con quella dannata slogatura era più di
impiccio che di
aiuto, e, per quanto tentasse di far finta di niente, avrebbe forse
dovuto
smetterla di sforzarla più del dovuto, dato che faticava a
reggersi in piedi. E
intuendo probabilmente i pensieri del cuoco, lo spadaccino
sollevò lo sguardo
verso di lui, quasi volesse accertarsi che stesse bene, e
incassò poi la testa
nelle spalle, afferrando saldamente le else delle sue spade prima di
farle
roteare velocemente fra le mani, partendo all’attacco.
«Sanzen
sekai!» gridò con voce
possente, quasi volesse darsi potenza anche in quel modo, curvando le
katane e
gonfiando i muscoli delle braccia, assestando un colpo dritto allo
stomaco di
quel bestione. Con un grido sofferente, il serpente spalancò
la bocca e
contrattaccò, tendendo il lungo collo verso lo spadaccino,
che riuscì a spostarsi
per un soffio prima di affondare con ferocia le lame nel suo corpo;
grosse
gocce di sangue nero e viscido schizzarono dalla ferita e sporcarono i
tronchi
degli alberi non appena Zoro ritrasse le spade, venendo investito in
pieno da
una spruzzata di liquido vermiglio.
Il serpente stramazzò al
suolo con un
lugubre lamento, agonizzante, accasciando il grosso capo prima di far
guizzare
per un’ultima volta la lingua biforcuta, che ricadde con un
tonfo sordo sul
terreno sottostante quando dalla gola profonda del mostro
scappò un ansito
strozzato; la pozza di sangue che si allargò sotto il suo
corpo macchiò
sinistramente l’erba di uno smorto colorito marrone,
rendendola umida e
appiccicosa.
Zoro, rinfoderando le proprie spade,
storse di poco il naso prima di sbuffare. «Merda.
Chissà che diavolo era quel
coso», sbottò, e non finì nemmeno di
dirlo che una risata divertita si levò dal
bel mezzo del bosco, prima che da dietro al tronco di un albero
comparisse un
uomo vestito con un semplice pastrano nero e un cappello con la tesa
larga, che
fece vagare lo sguardo su entrambi i pirati con fare contemplativo.
«Un Leviatano, ragazzi
miei».
Sanji, che lì per lì era rimasto in
silenzio sul terreno con una mano premuta sulla caviglia, quasi potesse
in
qualche modo placare il dolore che lo aveva assalito, non
poté fare a meno di
accigliarsi non appena i suoi occhi si soffermarono sul nuovo arrivato,
non
mettendoci poi molto a ricordare dove l’avesse già
visto. «Ohi! Tu non sei il
vecchio che abbiamo incontrato al villaggio?»
«Di che vecchio stai parlando,
ricciolo?»
domandò, ma Sanji non si prese la briga di rispondergli,
agitando semplicemente
una mano come a voler rimandare a dopo la conversazione. Il sorriso che
era
comparso sulle labbra di quel vecchio, difatti, non prometteva nulla di
buono.
«Vedo che la mia piccola esca
ha
funzionato», si limitò soltanto a dire, riuscendo
ad accigliare i due compagni,
che si gettarono una rapida occhiata prima di sbottare in coro:
«Cosa?»,
facendolo ridere maggiormente. «“Gli abitanti
si sono trasferiti in un’altra città”,
“I
mostri pullulano la zona”, “Io vi ho
avvertiti”... avete davvero creduto alle mie
parole?» parve schernirli. «Siete
caduti nella mia rete proprio come dei bei pesciolini... non
è mai stato così
facile», costatò allegramente, togliendosi il
cappello con fare galante. «Tipi
stupidi come voi se ne incontrano raramente».
«Ohi, vecchio, non ho idea di
cosa stai
parlando, ma hai proprio bisogno di qualcuno che ti prenda a calci in
culo»,
sentenziò Sanji, zoppicando verso di lui con
l’aria più spavalda che riuscì a
trovare nel suo repertorio, con la ferma intenzione di far parlare
chiaro quel
tipo e ritrovare i lor compagni; nel momento stesso in cui
poggiò un piede sul
terreno per fare un passo avanti, però, un peso parve
opprimergli il petto e
togliergli il respiro, facendolo boccheggiare inutilmente alla
disperata
ricerca d’aria. Riuscì a malapena a gettare un
rapido sguardo in direzione di
Zoro prima che, come sospinto da una forza invisibile, venisse
catapultato al
di là del fiume, fra le acque impetuose; l’impatto
contro le rocce sottostanti
fu così violento che il cuoco perse i sensi, finendo per
essere trasportato
lontano dalla corrente sotto lo sguardo incredulo dello spadaccino.
«Cuoco!»
«Io mi preoccuperei di te
stesso», sentì
dire alle sue spalle, ed ebbe appena il tempo di voltarsi prima di
sentire una
mano dell’uomo poggiarsi a palmo aperto sul suo petto,
spingendolo contro il
tronco di un albero; lo spostamento d’aria fu così
spaventoso che riuscì a
spedirlo a più di quattro metri di distanza in una pioggia
di corteccia e rami
spezzati, e Zoro, sgranando l’occhio, spalancò la
bocca senza emetter suono
prima di ritrovarsi riverso sul terreno. Con un colpo di tosse si
tirò su,
sollevando di poco il capo per cercare con lo sguardo la figura
dell’uomo,
vedendolo immobile e sorridente come non mai. Dannazione, chi diavolo
era quel
tipo? Non aveva mosso un dito ed era riuscito a mettere fuori gioco il
cuoco,
già ferito di suo senza l’intervento di quel
vecchio, e aveva persino
scaraventato lui stesso contro una fottuta fila di alberi toccandolo
appena di
sfuggita, come se avesse posseduto la forza necessaria per farlo.
Eppure
appariva semplicemente come un vecchio qualunque, e non sembrava avere
nessuna
particolarità. Merda. Dopo essersi allenato estenuamente per
due anni non aveva
la benché minima intenzione di farsi mettere i piedi in
testa da un tipo del
genere.
A quel pensiero serrò le
labbra e,
estraendo con un movimento secco l’Ichimonji dal fodero, si
gettò immediatamente
contro l’avversario, roteando il polso per agitare la lama
senza che quel
vecchio, pur vedendolo correre verso di sé, si spostasse di
un solo millimetro;
il colpo fendette l’aria e gli provocò uno
squarcio che si estendeva dalla
spalla destra fino al fianco sinistro, ma tutto ciò che la
spada parve tagliare
fu semplicemente della stoffa, poiché l’uomo,
senza abbandonare il sorriso che
si era dipinto sulle sue labbra, sfiorò appena con due dita
il punto colpito,
sollevando il vestiario per rivelare la pelle perfettamente integra.
Zoro indietreggiò e,
rinserrando la
presa sulla propria katana, aprì la bocca con fare
perplesso, la pupilla
ingigantita dalla momentanea confusione. «Che diavolo
significa?!» berciò a
mezza bocca, sentendo nelle orecchie la risata cristallina in cui
proruppe il
suo avversario qualche istante dopo.
«Significa che in questi due
anni non
hai imparato un bel niente da Mihawk, mr. spadaccino».
«Come fai a sapere queste
cose?» domandò
guardingo, sollevando la lama della Shuusui con la punta rivolta verso
di lui. «Spero
che tu adesso non te ne esca con la cazzata che sei
l’immagine speculare delle
mie debolezze o altre stronzate simili, vecchio».
L’uomo si lasciò
scappare uno sbuffo
ilare, a quel dire, lanciando il cappello nel bel mezzo della foresta.
«Hai una
gran bella fantasia, moccioso», rimbeccò poi,
sfilandosi anche il pastrano come
se volesse facilitare in quel modo i propri movimenti. Fu un attimo,
prima che,
con un rapido gesto del braccio sinistro, sferzasse nuovamente
l’aria e
allontanasse da sé lo spadaccino, che rotolò sul
terreno con una colorita
imprecazione nel tentativo di evitare quel colpo, venendo colpito
comunque di
striscio alla guancia; indietreggiò di riflesso e si
portò rapidamente la mano
sinistra alla cintola per afferrare la sua seconda katana,
però, prima ancora
che potesse estrarla dal fodero, venne sbalzato nuovamente lontano da
un
fendente di quel vecchio, che non gli diede nemmeno il tempo di
rialzarsi e gli
calciò via dalle mani la spada che sorreggeva. Si
gettò poi contro lo
spadaccino e, con forza sovraumana, lo afferrò per la
casacca e lo sollevò di
peso, stringendo le dita intorno al suo collo come se volesse
soffocarlo.
Attraverso l’orlo delle
ciglia, Zoro
vide il viso del vecchio trasfigurato in una maschera seria e composta,
quasi
non facesse nessuna fatica a tenerlo sospeso a mezzo metro da terra in
quel
modo. Per un lungo attimo, probabilmente a causa del poco ossigeno che
aveva
cominciato ad arrivargli al cervello, gli parve persino di scorgere al
posto
della pelle un riflesso squamoso, come se quel tipo non fosse affatto
un uomo.
Facendo forza sulle proprie braccia, lo spadaccino afferrò
fra le mani i polsi
del suo avversario nel tentativo di fargli mollare la presa, gonfiando
i
muscoli delle spalle e della schiena per darsi maggior potenza;
sentì quelle
dita divenire meno salde e, senza nemmeno pensarci due volte, con la
poca
lucidità rimastagli afferrò la sua Shuusui e
piantò la punta della lama nella
carne dell’uomo, che si lasciò sfuggire un grido
di dolore prima di lasciarlo
del tutto.
Zoro cadde in ginocchio con un tonfo e,
portandosi una mano al collo per massaggiarlo e riportare
sensibilità in esso,
stornò bruscamente lo sguardo verso l’avversario,
vedendo i vestiti intrisi di
sangue. «Cosa... diavolo sei, bastardo?!»
tossicchiò al suo indirizzo, sentendolo
ridacchiare con una certa fatica.
«Dirti “Sono il tuo
peggiore incubo”
suonerebbe troppo... teatrale, vero?» lo schernì
l’uomo, per quanto avesse
cominciato a sputare saliva macchiata di rosso. Il colpo di Zoro
sembrava
essere andato a segno, stavolta, ma non pareva turbato come avrebbe
dovuto
essere qualcuno che stava per tirare le cuoia, anzi. Il sorriso che si
era
dipinto sulle sue labbra, pur essendo tirato, faceva supporre che quel
tipo
avesse qualcosa in mente, e non passò nemmeno mezzo secondo
prima che
allungasse una mano verso lo spadaccino nel tentativo di ghermirlo
ancora una
volta; con un’imprecazione, il Vice Capitano
riuscì per un pelo a compiere un
balzo all’indietro, e il terreno dove si era trovato fino a
quel momento
scomparve letteralmente sotto i suoi occhi non appena il braccio
dell’uomo si
conficcò con violenza in esso, lasciando posto ad una
poltiglia ormai
liquefatta.
«Merda!»
esclamò incredulo. «Che cazzo era?!»
«Frutto Mabo-Mabo,
spadaccino», rantolò
in un soffio, come se stesse cominciando a mancargli il respiro; senza
perdere
altro tempo, come se per lui ogni secondo fosse ormai diventato
prezioso, il
vecchio sollevò una gamba e sferrò a Zoro un
calcio che lo colpì alla spalla
sinistra, facendogli sfuggire un gemito doloroso.
Quel dannato scontro stava durando
decisamente troppo, e lo spadaccino cominciava ad essere preoccupato
più per il
cuoco che per la sua stessa vita. Ad ogni fendente che menava era
costretto ad
indietreggiare per evitare di essere colpito dai poteri di quel
vecchio, che si
rivelavano più potenti ad ogni attacco; se fosse tutto a
causa di un’illusione
o meno non lo sapeva, ma era certo che se non si fosse dato una mossa
quell’idiota avrebbe rischiato grosso. Ricorse dunque a tutte
le sue forze per
riuscire a stendere una volta per tutte l’avversario,
rinserrando la presa sulla
Shuusui prima di cercare con lo sguardo le altre due spade; le
trovò a poca
distanza da sé e, senza distogliere gli occhi dal vecchio,
scartò di lato un
suo calcio e rotolò sul terreno, afferrando le else delle
sue armi una volta
raggiunte, portandosi l’Ichimonji alla bocca. Roteando le
altre due fra le
mani, si gettò lui stesso all’attacco verso
l’avversario a spade sguainate, pur
sapendo di rischiare grosso. Se l’uomo avesse usato i suoi
poteri per
contrattaccare non sarebbe riuscito a scamparla, ma il gioco valeva la
candela,
ora come ora. Non se lo sarebbe mai perdonato se non fosse riuscito a
salvare
quello scemo d’un cuoco. Sarebbe morto provandoci, piuttosto.
E con quel
pensiero nella testa spiccò un balzo per colpirlo al petto
con tutte e tre le
spade, piantando le punte di esse nel suo torace prima di tirarle fuori
con
violenza; il sangue e la carne schizzarono a macchiargli il petto e il
viso, e
l’uomo, con una mano ad una spanna dal suo viso,
sgranò gli occhi, come se
fosse incredulo. Cadde a terra riverso di schiena, boccheggiando come
un pesce
fuor d’acqua mentre gli occhi, vuoti e fissi verso il cielo,
sembravano tremare
quasi avessero una vita a se stante.
Zoro affondò la lama nel
terreno per
sorreggersi contro la katana, lo sguardo fisso sul corpo del vecchio
che, a
poco a poco, cominciava a scomparire; dapprima perse consistenza,
divenendo
simile al pallido ricordo di un fantasma, e poi la parte inferiore
iniziò a
svanire, dalla punta dei piedi fino al busto maciullato; lì
lo svanimento parve
indugiare per qualche attimo, riacquistando solidità prima
di scemare
gradualmente, come se la cassa toracica stesse cercando di dar vita
agli ultimi
battiti del cuore prima del momento della resa. Si dissolse sotto gli
occhi di
Zoro solo qualche attimo dopo, lasciando come unico segno della sua
esistenza
una pozza di liquido denso che non ricordava nemmeno lontanamente la
consistenza del sangue.
Senza perdere altro tempo e cercando di
far affidamento alle poche forze rimaste, Zoro si gettò nel
fiume con
un’imprecazione, sentendo una dolora fitta al torace. Le
ferite che gli erano
state inferte parvero bruciare come se mille lame acuminate gli
avessero appena
trapassato il corpo, ma lui non se ne curò, stringendo i
denti e assottigliando
lo sguardo con la speranza di riuscire a trovare il corpo del cuoco. Ad
ogni
bracciata ansimava sempre più e inghiottiva acqua,
sputacchiando e facendo
resistenza ogni qual volta la corrente minacciava di trascinarlo via;
percorse
il corso del fiume e si tuffò più di una volta
per controllarne il letto, ma
del compagno non sembrava esserci traccia.
Allarmato e confuso, con il sangue che
aveva cominciato a rimbombargli nelle orecchie e il respiro ansimante,
non si
diede pace nemmeno per un attimo, provando a guardarsi intorno con
preoccupazione sempre più crescente; aguzzò la
vista e, qualche istante dopo,
scorse contro le rocce la figura del cuoco, il cui corpo veniva smosso
dalla
corrente e rischiava di essere trascinato via da essa senza che
quest’ultimo
potesse reagire. Aveva perso i sensi e il suo viso era reclinato di
lato,
lasciando che i capelli fluttuassero come serpenti dorati a pelo
d’acqua; con
un’imprecazione, Zoro si affrettò a nuotare verso
di lui e lo afferrò per un
braccio, traendolo in salvo.
Ferito e annaspante, se lo
tirò su una
spalla e cercò di trascinarlo il più in fretta
possibile fuori dall’acqua,
distendendolo di schiena non appena toccarono terra. E
sbiancò nel momento
stesso in cui, tentando di riprendere fiato, lo sguardo gli cadde sul
torace
del compagno, vedendolo immobile e privo di vita. «Merda...
non respira!»
esclamò in un moto di panico, poggiando entrambe le mani
sulla cassa toracica
per spingere; contò fino a tre e chinò il capo
verso di lui per poggiare le
labbra sulle sue, provando con la respirazione bocca a bocca nel vano
tentativo
di riportare il fiato nei suoi polmoni. Si allontanò e prese
un altro lungo
respiro, riprovando fino a che il cuoco, tossendo, non sputò
l’acqua che aveva
bevuto, reclinando il capo di lato con un lungo ansito doloroso.
Zoro quasi trasse un sospiro di
sollievo, per quanto sapesse che non era ancora finita lì.
Il cuoco avrebbe
potuto smettere di respirare da un momento all’altro, e non
aveva tempo da
perdere se voleva che entrambi uscissero vivi da quella stramaledetta
situazione. Nonostante ormai non riuscisse quasi a distinguere le
sagome a
causa della grande quantità di sangue che aveva perso,
dunque, cercò di
afferrargli un braccio e di issarselo sulle spalle, scrollando la testa
per
cercare di riacquistare almeno in parte la vista e allontanare quella
patina
bianca che sembrava avergli ormai coperto l’iride e che gli
impediva di
visualizzare al meglio i dintorni e tutto ciò che li
circondava come un velo
gelido. «Non azzardarti a morire, brutto idiota, altrimenti
ti ammazzo con le
mie mani!» berciò poi, forse per provare a
spronare persino se stesso prima di
mettersi faticosamente in marcia in direzione del bosco, con la
speranza di
riuscire almeno in quell’impresa. Dopo due anni, dopo tutti
gli allenamenti a
cui si era sottoposto e le umiliazioni che aveva dovuto subire, non era
riuscito a difendere uno dei suoi compagni nel momento del bisogno,
maledizione. Ma ci sarebbe stato tempo per prendersela con se stesso e
fare
ammenda, se fosse stato in grado di portare entrambi in salvo.
Per adesso doveva solo muoversi. Se non
voleva perderlo, doveva portarlo da Chopper. E mai come in quel
momento, lui,
che non aveva mai creduto in nessun Dio, pregò che lo
aiutasse a trovarlo in
tempo.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Due
spiegazioni veloci prima di partire con le note vere e proprie: il
frutto Mabo-Mabo che ha mangiato il vecchio è
l’abbreviazione
di “Maboroshi”, che in giapponese significa per
l’appunto “Illusione”.
Appurato questo, ammetto che avrei davvero desiderato scrivere qualche
capitolo in più prima di giungere a questo momento,
però,
purtroppo, il contest a cui la storia partecipava non comprendeva
più di sei capitoli e non potevo sforare più di
tanto,
per quanto io desiderassi farlo
Questo non
è il capitolo prima del penultimo capitolo,
però, e ci tengo a precisarlo. La storia con cui ho
partecipato al contest era di sei capitoli
più l'epilogo, certo, ma... c'è un ma,
ecco. Giacché la trama era complessa e necessitava di molti
più capitoli, ho dovuto tagliare delle parti per far
sì
che la storia venisse accettata dalla giudice, che era stata
già
tanto carina a darmi un capitolo in più per far quadrare
almeno
l'epilogo. Tutto questo giro di parole per dire che, aye, ci sono un
altro paio di capitoli in più che io avevo precedentemente scritto
mentre stendevo la storia, e contavo di inserirli come spin off.
Al prossimo, dunque ♥
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