I
Ricordi
Mi svegliai di soprassalto visibilmente
agitata dal medesimo sogno che aveva turbato a lungo le mie notti
durante l’infanzia e che, sovente, si ripresentava anche a
distanza di anni.
Il mio respiro era affannato e il cuore palpitava con forza.
I volti dei miei genitori continuavano a essere vividi dinanzi a me,
anche ora che tenevo gli occhi bene aperti.
Ero solo una bambina di dieci anni
quando armigeri, appartenenti alla fazione cattolica, spezzarono la
tranquillità della mia famiglia e con essa anche i sogni in
cui tanto avevano sperato i miei amati genitori.
Dopo essere stata nascosta sotto la botola nel pavimento, due uomini
robusti e armati fino ai denti avevano fatto violentemente irruzione
nella nostra abitazione e rivolto macabri sorrisi ai miei genitori
ancor stretti l’una all’altro, forse nel vano
tentativo di proteggersi a vicenda o suscitare un minimo di
pietà agli occhi dei loro sconosciuti assalitori.
Tuttavia, non c’era neanche il benché minimo
barlume di pietà. Avevano altezze differenti, ma gli stessi
capelli corti, ispidi e scuri. Il più basso aveva un aspetto
più minaccioso, una cicatrice gli deturpava il lato destro
del viso e i suoi occhi, di un verde spento, denotavano una certa
mancanza d’intelligenza che, invece, s’intravedeva
negli occhi scuri e vispi del secondo armigero.
Potevo vedere tutto attraverso un’unica piccola fessura del
pavimento ma, fossi stata realmente consapevole di ciò che
presto si sarebbe presentato ai miei occhi, avrei lasciato da parte la
mia immensa curiosità.
Sentii mia madre gemere, mentre i due
sembravano rimanere inizialmente immobili a osservare la coppia
spaventata.
« Guarda chi abbiamo qui.
Un’ignobile coppia di vermi eretici. » disse
l’armigero più alto, mentre l’altro
sputò a terra con disprezzo, ma, lievi movimenti del suo
corpo e del suo viso tradivano la sua voglia di agire,
anziché parlare.
« Noi non siamo eretici
» osò sfidarli mio padre con voce, almeno
all’apparenza, sicura e decisa, che turbò per un
attimo il più alto dei due cattolici.
« Non ti permettere di
ribattere, sporco ugonotto. » sibilò e
lanciò uno sguardo eloquente al suo compagno, prima di
aggiungere « Anzi, prega perché questa notte
sarà l’ultima che vedrai, insieme alla tua
adorabile mogliettina. » rivolse uno sguardo avido verso mia
madre, mentre il compagno ghignando si fece avanti e diede un pugno
allo stomaco di mio padre che si ritrovò ad accartocciarsi
su se stesso lasciando andare la presa di sua moglie, che
urlò disperata chinandosi sul marito e implorandoli di
lasciarli stare.
Io portai le mani alla bocca, smorzando il grido che mi avrebbe
sicuramente fatta scoprire.
I lamenti e l’implorazione di mia madre, tuttavia,
aumentarono il senso di potere e la sete di sangue dei due armigeri e,
quello che accadde in seguito fu inevitabile.
Ancora a distanza di undici anni da quel
fatale evento, rammentavo lo strazio provato nel sentire le urla e i
gemiti di mia madre e i tentativi inutili di mio padre nel proteggere
la donna amata.
L’ultima cosa che riuscii a vedere fu l’armigero
più alto scagliarsi su mia madre, cercando di spogliarla e
l’altro che infliggeva colpi sempre più violenti a
mio padre.
Mi sentivo inerme e avvertivo una tremenda voglia di urlare, ma non
avevo dimenticato le parole dei miei genitori; così, chiusi
gli occhi e iniziai a fare un gioco che mi aveva insegnato la mia mamma.
In quell’oscurità che mi avvolse, iniziai a creare
un mondo tutto mio. Pian piano delle fievoli lucine illuminarono il
luogo nella mia testa e tante piccole creaturine dalle forme e dai
colori più diversi mi sorridevano e iniziavano a cantare.
Quel canto immaginario riuscì a superare le grida sopra di
me e sembrai tranquillizzarmi.
Non seppi quanto tempo rimasi in quel
mio mondo immaginario, ma quando tornai alla triste realtà,
avvertii un completo silenzio laddove prima c’era
l’orrore.
Decisi di attendere ancora un poco per essere del tutto sicura che i
due “cattivi” si fossero allontanati e poi, quando
mi sentii sicura, sgusciai fuori dal mio nascondiglio.
La nostra modesta abitazione era completamente sottosopra:
c’erano oggetti rotti e sparsi a terra, cassetti aperti,
letti disfatti e quello dei miei genitori era macchiato di tante
piccole gocce di sangue che poi si ripetevano sul pavimento fino
a congiungersi in una vera e propria chiazza più
ampia.
Portai una mano alle labbra avvertendo una sensazione di nausea e poi
continuai ancora a osservarmi intorno. Non c’era traccia
umana nella stanza, oltre a me. I due armigeri se ne erano andati, ma
avevano portato via anche i corpi dei miei genitori.
Avvertii solo in quel frangente un opprimente senso di solitudine che
mi avvolse come una mosca nella ragnatela.
« Maman, Papa? »
domandai, ma la mia vocina si perse, smorzata dalle lacrime che
iniziarono a fuoriuscire dai miei grandi occhi azzurri.
Fui pervasa dal desiderio di raggomitolarmi a terra e restare
lì, ma la paura che quegli uomini crudeli potessero tornare
e il ricordo delle parole dei miei genitori mi spinsero a farmi forza.
Rammentai la città citata da mia madre e, senza donare un
ultimo sguardo al luogo, sgusciai fuori dalla casa e iniziai a correre
più veloce che le mie gambine potessero permettermi, nel
tentativo di allontanarmi da quel luogo di morte e disperazione.
*
Scesi dal mio letto ormai consapevole di
non riuscire più a riprendere sonno. L’alba si
avvicinava; il cielo, infatti, era meno scuro e tenui bagliori
rossastri s’iniziavano a intravedere verso est.
Iniziai a camminare nella stanza. Era ancora presto per lavorare, ma
non potevo permettermi di rivivere ancora una volta quelle immagini
che, tuttavia, non mi abbandonavano.
Era stata dura per una bambina ormai orfana allontanarsi da quella
città.
Avevo cercato di non farmi vedere, di correre veloce, ma più
di una volta, nell’oscurità non ancora scomparsa,
mi ero scontrata con degli strani oggetti ammassati sul terreno.
In un primo momento pensai che fossero proprio dei beni appartenenti
agli ugonotti, e gettati fuori dalle loro abitazioni oppure dei massi,
ma quando mi ritrovai a cadervi sopra, due occhi vacui e inespressivi
mi fissarono.
Mi sfuggì un grido di terrore e cercai di rialzarmi, seppur
con movimenti impacciati, per allontanarmi il più possibile
da quei… cadaveri.
Al solo ricordo ancora rabbrividivo.
L’odio aveva portato due religioni a scontrarsi.
A lungo le guerre si erano ripetute e ancora accadevano.
Quella notte poi i corpi di migliaia di ugonotti furono ammassati sulle
strade ed ero ormai certa che tra quelli ci fossero anche i
miei genitori.
Lacrime calde presero a scorrere dai miei occhi nel ricordare la
bambina che ero…
…una bambina costretta ad affrontare tante cose spregevoli
in una sola notte.
Non seppi dove trovai la forza di andare avanti, nonostante il mio
corpicino tremasse, i miei occhi fossero gonfi di lacrime e il mio
cuore palpitasse senza tregua, ma la trovai e iniziai così
il mio duro cammino verso Sivelle, la città dove forse avrei
ritrovato un po’ di pace.
Furono giorni insidiosi. Per una bambina
non era facile affrontare da sola un viaggio così lungo. La
strada era colma di pericoli: agli animali selvaggi e ai briganti si
univano persone che, ispirate a quella notte e istigate dai preti,
continuavano a uccidere senza pietà altri ugonotti,
unicamente colpevoli di professare diversamente la loro religione.
Oltre a ciò, la fame si faceva sentire, così come
la stanchezza.
Alcune notti trovai riparo semplicemente in particolari insenature sul
terreno, all’aperto; in altre occasioni trovai persone di
buon cuore capaci di donarmi un po’ di pane e qualcosa di
caldo, oltre a un giaciglio di paglia dove riposare.
Spesso ero invitata a rimanere di più, ma dovevo proseguire.
Quando il sogno stava ormai per
spegnersi, come le mie forze, finalmente un uomo, al quel avevo chiesto
informazioni, disse:
« Sivelle? È
proprio davanti a te, bambina. »
Sorpresa e incredula guardai dinanzi a me e scorsi la città,
che mi lasciò nettamente senza parole. Ringraziai
velocemente il contadino e piansi di gioia.
Ce l’avevo fatta.
Sporca, stanca, affamata e con i piedi feriti per il lungo cammino,
oltrepassai le mura e, dopo aver chiesto ulteriori informazioni sulla
donna alla quale rivolgermi, mi presentai all’ingresso della
sua casa e proprio di fronte a Madame Le Marchand, svenni.
*
Quando riaprii gli occhi, incontrai
quelli indagatori di una donna minuta e paffuta, abbigliata con un
modesto abito nero con pizzo bianco sulle maniche e sul corpetto; i
suoi capelli striati d’argento s’intravedevano
appena da sotto una cuffietta di lino anch’essa bianca.
« Finalmente hai aperto gli
occhi, bambina » mi disse con una punta di nervosismo nel
tono di voce « iniziavo a pensare che avresti dormito molte
altre ore ancora. »
Sbattei le palpebre, confusa; in un
primo momento non rammentai affatto dove mi trovassi e chi fosse quella
donna che mi fissava intensamente con quei piccoli occhi grigi.
« Suvvia bambina, ora hai
riposato abbastanza! Vuoi finalmente dirmi chi sei e come mai ti ho
ritrovata svenuta dinnanzi alla mia dimora? »
Rimasi in silenzio per qualche istante ancora, ma notando la sua
impazienza, decisi di non farla attendere oltre.
« Siete Madame Le Marchand?
»
La mia voce era roca e bassa per essermi appena ridestata.
« Esattamente! Ma non ho
ancora sentito il tuo nome. Forza bambina, non farmi attendere troppo
che ho molto da fare. »
Pose le mani sui fianchi, chinando il busto verso di me.
« Io… sono
Desirée Chervalie. La mia mamma mi ha detto di venire qua
per stare al sicuro… »
In un attimo i ricordi si fecero vividi nella mia mente e rabbrividii
sotto le lenzuola.
« Chervalie. Ho sentito
già questo cognome; ma qual era il nome di tua madre?
» mi chiese, lasciando il posto alla curiosità.
« Evelyne de Lys »
risposi in un bisbiglio, mentre i miei occhi si riempirono di lacrime
al solo nominare colei che amavo e non avrei mai più rivisto.
Nell’udire quel nome Madame Le Marchand sbiancò,
guardandomi con più attenzione come se volesse trovare in me
tutte le affinità possibili con mia madre. Effettivamente le
somigliavo molto, per i lineamenti, gli occhi grandi color del cielo e
i morbidi boccoli naturali, ma l’oro splendente dei miei
capelli era un dono del mio adorato padre.
« Evelyne… la
figlia di Evelyne » ripeté tra sé la
minuta donna, provando a immaginare dalle mie condizioni quale
terribile tragedia fosse accaduta.
Io non riuscii a dire molto; il mio corpo fu scosso da singhiozzi che
non riuscii a frenare.
« Oh piccola, non piangere.
Qui sarai al sicuro. »
L’espressione sul viso della donna si addolcì, ma
si fece anche triste. Avvicinò le sue mani alle mie e le
sfiorò appena, come se fosse a disagio con i bambini.
« Evelyne era una mia
carissima amica, una donna così dolce…
» sospirò « non ti preoccupare bambina,
potrai rimanere di certo qui. Ora però alzati, lavati un
poco con l’acqua in quella bacinella e poi, quando sarai
sazia, deciderò cosa potrai fare. Vedi, anche se ero legata
profondamente a tua madre, non posso prendermi totalmente cura di te
senza nulla in cambio. Dovrai aiutarmi a mandare avanti questo posto in
qualche modo, ecco. »
Allontanò le sue mani dalle mie e cercò di
lottare per trattenere le lacrime.
Come presto intuii Madame Le Marchand non amava palesare di fronte agli
altri i suoi sentimenti e le sue debolezze.
« Orsù non poltrire
più! Ti attendo in cucina tra poco! »
così dicendo mi diede le spalle e sgusciò rapida
fuori dalla stanza.
Sarei voluta rimanere ancora del tempo
in quel letto così confortevole come non provavo da qualche
tempo, ma mi resi ben presto conto che restare ferma mi portava a
pensare e ricordare avvenimenti ancora troppo freschi e dolorosi.
Scesi quindi dal letto, rabbrividendo un minimo al contatto dei miei
piedi nudi con il pavimento. Diedi uno sguardo alla stanza,
comprendendo di trovarmi in un ambiente non troppo ricco, ma neanche
troppo modesto: oltre al letto, c’erano altri mobili, una
sedia, una cassapanca e un piccolo tavolo con sopra una candela ormai
conclusa. Mi avvicinai alla bacinella e affondai le mani
nell’acqua fresca per poi detergere il mio viso, cercando di
eliminare al meglio ogni sporcizia, passando poi alle varie parti del
corpo.
In un tavolino trovai un pettine di legno con il quale avrei potuto
districare i miei boccoli ribelli e ormai colmi di nodi. Notai la
presenza di uno specchio nella stanza, e per un attimo ne rimasi
colpita; non era un oggetto che tutti riuscivano ad avere, soprattutto
di quelle dimensioni, che poteva riflettermi in modo completo.
Mi avvicinai e scrutai la mia immagine riflessa che mi osservava
stravolta. Notai i segni della stanchezza e delle tante lacrime versate
sul mio viso emaciato e scavato; il pallore e persino la
luminosità dei miei capelli sembrava essersi mitigata. Mi
sforzai di fare un sorriso ma apparve più come una smorfia,
quindi mi fermai.
Avevo perso tutto: i miei genitori, la mia casa, la mia
felicità e la mia vita, e ora dovevo ripartire da zero.
Lacrime impertinenti tentarono di uscire di nuovo dagli occhi, ma ad
esse risposi con la rabbia. Iniziai a districare i nodi sul capo con
foga, incurante del dolore provato. Non volevo più piangere,
volevo essere forte, dovevo esserlo, ma mi sentivo prosciugata di tutte
le energie.
Caddi sulle ginocchia e nascosi il mio viso, ormai rigato da lacrime
salate, tra le mani. Mi era impossibile smettere di piangere, era un
dolore troppo grande.
Dopo qualche minuto, tuttavia, mi
risollevai e tentai di farmi forza. Con una manica della camicia
detersi le lacrime e poi ripresi a spazzolarmi con più
attenzione e cura.
Trovai sopra alla cassapanca un abito dalla foggia estremamente
semplice, di un marroncino scuro, e lo indossai.
Tornando a specchiarmi mi sembrò di vedere una serva come
mio riflesso, ma non m’importava. Io dovevo vivere e
affrontare tutto con forza, senza mai dimenticare chi mi aveva salvata.
*
Madame Le Marchand mi attendeva in
cucina come avvisatami.
Non appena mi rivolse lo sguardo, notai che i suoi occhi erano
diventati rossi, come se avesse pianto, ma subito addossò la
colpa alle cipolle che in quel momento stava tagliando.
« Vieni pure avanti
Desirée, non rimanere immobile su quella porta »
disse e non appena ebbi mosso qualche passo aggiunse « noto
che l’abito ti sta bene, forse la gonna è un
po’ corta, ma si potrà aggiustare in qualche modo.
»
Mi fece cenno di accomodarmi su uno sgabello accanto a lei.
« Ci ho riflettuto un poco e
credo che l’unico modo in cui potrai aiutarmi è
nelle faccende domestiche. Sono una mercantessa di stoffe e qualcuno
deve badare a questa dimora; un’altra persona farebbe al caso
mio. Dopotutto io ti darò un tetto e del cibo e tu dovrai
ricambiare in qualche modo. »
Compresi che non aveva tutti i torti, anche se l’idea di
essere una sguattera non mi allettava particolarmente; ma avevo visto
la vita di strada e non volevo assolutamente tornarci.
« Comprendo Madame e sono
disposta a esservi utile in qualsiasi mansione voi vogliate affidarmi,
dopotutto vi devo tanto… la vita stessa. »
risposi, remissiva.
« Bene, allora collaborerai
con gli altri membri della loggia nel ruolo di sguattera, almeno fino a
quando non noterò o non sorgerà in te un
particolare talento che mi spinga a rivalutare la tua posizione.
» mi scrutò con quel suo sguardo penetrante ed io
arrossii un poco. « ricordo che tua madre era molto brava a
confezionare abiti… »
Mi lanciò l’idea ed io la colsi al volo.
« Sì, spesso la osservavo cucire… e
qualche nozione me l’ha insegnata, ma… non credo
di esserne ancora capace. » ammisi con estrema
sincerità.
« Capisco, tuttavia quando vorrai e avrai tempo dopo aver
adempito tutti i tuoi compiti quotidiani, potrai provare a vedere se
quello potrà essere il tuo cammino, il tuo futuro ruolo in
questa loggia. »
La sentii sospirare, ma non mi diede tempo di ribattere.
« Dunque, iniziamo a cucinare!
Oggi Annette non c’è, ma da domani sarà
lei a farti comprendere quali saranno i tuoi compiti. »
Annuii e iniziai ad aiutarla, ma nei miei pensieri risuonavano le sue
parole che fecero scaturire in me un obiettivo da raggiungere. Sarei
migliorata nel ricamo e nel cucito, volevo diventare una vera ed
esperta sarta così da non trascorrere il resto dei miei
giorni nelle vesti di sguattera e rinunciare a tanti possibili sogni.
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