La Musa
CAPITOLO UNICO
“Così non va. Non
va.” Preso da sconforto, l’uomo cominciò a gridare,
intimando a tutti di uscire dalla sala prove. Ballerine,
ballerini, etoiles, sostituti… tutti sgattaiolarono via di corsa, ben
conoscendo le sue famose ire. Li cacciò via a
urla e gesti, scaraventando dietro la porta già ben chiusa quello che
trovava sottomano: un paio di scaldamuscoli, una scarpetta da punta vagamente
puzzolente, perfino un cd con la musica. La preziosa musica
su cui stava creando. No, non ne veniva a capo. Si sedette, non appena
la furia fu passata, e come sempre, nel suo scivolare a terra, sopravvenne la
disperazione. Si passò le mani tra i capelli, più e più
volte. Si stavano stempiando, ormai, si diradavano ai
lati, spruzzati già di grigio. Era stato un ballerino anche lui, sapeva
cosa si provava a sottostare ai capricci di un coreografo esigente. E lui lo era.
Dannatamente esigente. Con chiunque, primo tra tutti con se stesso. Pretendeva la perfezione, fin dalla
prima prova. Pretendeva che tutti comprendessero la sua visione, che collaborassero per renderla reale, vera, magica. La sua
danza. La danza del mondo. La
Danza, e basta. Era il motivo per cui
le sue creazioni erano così apprezzate, perché parlavano un
linguaggio universale, comune a tutti, e i ballerini lo capivano e lo
interpretavano magistralmente, soffocando i dolori, la fame, la stanchezza per
dare vita… alla vita stessa. A quell’arte sublime
che tutto trasfigura, a cui si erano dedicati anima e corpo. Loro, come
lui. Prima dopo e durante.
Questa volta, però,
c’era qualcosa di diverso. Non veniva. L’ispirazione non arrivava.
Era fermo ad un punto culminante, e la sua visione era ferma, come morta. Per
quanto si sforzasse, non sapeva cosa inserire in quel
punto della musica. Nulla gli appariva abbastanza vero, abbastanza
comunicativo. Non era colpa dei ballerini, no. Loro danzavano come sempre, con
la giusta forza, la meravigliosa grazia,
l’apparenza che tutto fosse semplice dove invece era complicato. La colpa
era sua. L’aridità che stava fermando la creazione era nel suo
animo, e lui non sapeva come debellarla. Come rinascere.
Rimase con il volto seppellito
tra le mani, a lungo, molto a lungo.
Poteva essere passato un minuto,
un’ora, anche un giorno o un secolo, non lo sapeva, ma ad un tratto,
qualcosa lo riscosse. Il tocco leggero di una mano, un
fruscio di tulle su tulle, di scarpette sul pavimento. Sollevò il
viso, e allora la vide. Era china su di lui, in una nuvola di tulle bianco,
candido. Ai piedi portava le scarpette da punta, sogno e maledizione di ogni ballerina. Il corpo snello e flessuoso come voleva
l’arte che praticava, il volto delicato con occhi grandi, i capelli
raccolti in uno chignon stretto. Sorrideva, un sorriso
che arrivava fino agli occhi luminosi. Eppure lui non la conosceva. Chi era? Come era giunta lì? Possibile che non ricordasse il
volto di una delle sue ragazze? Silenziosa, lei gli prese la mano, lo costrinse
a tirarsi in piedi, ed egli obbedì. Sfiorò solamente lo stereo, e
la musica si diffuse nella stanza, quella musica. La
sua musica. Il suo balletto. Ella si sollevò in punta di piedi, con quella
leggerezza che non mancava mai di stupire il pubblico, ma che lui lo sapeva,
era frutto di anni di sacrificio e di abnegazione, di prove e di sudore. Mosse qualche passo, tenendolo per mano,
facendolo avanzare al centro della sala. E
danzò. Danzò con lui, guidandolo quasi, costruendo con lui un pas
de deux improvvisato. Il suo pas de deux. Con sorpresa, lui si accorse di conoscere
quei passi, di sapere cosa fare, attimo per attimo,
come una strana intuizione che somigliava di più ad un risveglio.
Ricordava tutti i sollevamenti, le pirouettes, gli arabesques, le posizioni
tenute all’infinito, e quelle veloci e scattanti. Lo riconosceva
perchè era quello che da giorni stava tentando di disseppellire da
dentro di sé, per metterlo in coreografia, per farlo eseguire da chi
ancora danzava. Ballarono con l’esaltazione che deriva dal sapere di star
facendo un lavoro maledettamente buono, di aver trovato quello che cercavano da
sempre, avviluppati nella magia che si chiama danza,
che riusciva ad entrambi senza sforzo alcuno. E quando
la musica ebbe termine, e lui si ritrovò a terra, da solo, steso sul
pavimento, ancora pulsante di vita, talmente forte da non sapere come
spegnerla, si rese conto di aver danzato come mai aveva fatto in vita sua. Neppure quando strappava applausi da spellarsi le mani ai pubblici
più esigenti del mondo. Si sollevò da terra, con
l’intenzione di ringraziare la ballerina che gli aveva permesso di
compiere quel miracolo, di ritrovare la vena creativa che sembrava ostruita per
sempre. Di ritrovare se stesso, e completare quel balletto in
cui credeva con tutto il cuore, e che non riusciva a finire. Ora sapeva
come fare. Perchè l’aveva appena danzato. Si voltò verso di lei, verso il
punto dove sapeva che ella si era fermata, altrettanto
immobile, in quella posizione che aveva sognato tante volte. Ma
non c’era.
Non c’era nessuno nella
stanza. Nessuno, tranne lui. Negli angoli, giacevano abbandonati gli oggetti, i
vestiti lasciati dai suoi ballerini quando lui li
aveva cacciati via. Lo stereo era spento, inequivocabilmente, come quando lui
l’aveva staccato, in preda all’ira. La spina staccata, giaceva come
un serpente che non poteva più mordere, sconfitto, da un lato. Cosa era successo? Lui si alzò, si avvicinò
alla finestra che portava la luce del giorno, e lentamente, sorrise.
La Musa. La sua Musa era venuta
a trovarlo. Ora sapeva come completare quel balletto. E
sapeva, dal più profondo del suo cuore, che sarebbe stato un successo. Perché era vero. Perchè veniva dal cuore.